Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 23 agosto 2016, n. 35277

Sommario

L’interesse a proporre impugnazione deve essere apprezzabile non solo nei termini dell’attualità, ma anche in quelli della concretezza, sicché non può risolversi nella mera aspirazione alla correzione di un errore di diritto contenuto nella sentenza impugnata. La concretezza dell’interesse può peraltro ravvisarsi anche quando l’impugnazione sia volta esclusivamente a lamentare una violazione astratta di una norma di diritto formale, purché però da essa derivi un reale pregiudizio dei diritti dell’imputato, che si intendono tutelare attraverso il raggiungimento di un risultato non soltanto teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole.

In particolare, l’interesse richiesto dall’art. 568, quarto comma, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente.

La concretezza dell’interesse peraltro è ravvisabile non solo quando l’imputato, attraverso l’impugnazione, si riprometta di conseguire effetti penali più vantaggiosi (come, ad esempio, l’assoluzione o la mitigazione del trattamento sanzionatorio), ma anche quando miri ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli ovvero ad assicurarsi effetti extrapenali più favorevoli, come quelli che l’ordinamento rispettivamente fa derivare dal giudicato delle sentenze di condanna o di assoluzione nei giudizi di danno (artt. 651 e 652 cod. proc. pen.) o in altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 cod. proc. pen.) e dal giudicato di assoluzione nei giudizi disciplinari (art. 653 cod. proc. pen.).

Si tratta di una regola valida per tutte le impugnazioni, anche per quelle del pubblico ministero, che pure persegue un interesse che non può essere assimilato a quello delle altre parti né inquadrato negli stessi schemi. Il pubblico ministero può quindi proporre impugnazione, al fine di ottenere la esatta applicazione della legge, anche se a favore dell’imputato, ma l’interesse ad impugnare deve ugualmente presentare i caratteri della concretezza e della attualità, il che si verifica quando con l’impugnazione egli miri ad un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente utile e favorevole, come ad esempio quello di non far ricadere sull’imputato effetti dannosi ascrivibili ad errori del giudice

E’ riconosciuto l’interesse dell’imputato ad impugnare la sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato” al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”, e ciò perché, a parte le conseguenze di natura morale, l’interesse giuridico risiede nei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 cod. proc. pen. connettono al secondo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare, a fronte degli effetti pregiudizievoli in tali giudizi derivanti dalla prima formula assolutoria

Suprema Corte di Cassazione

sezione III penale

sentenza 23 agosto 2016, n. 35277

Ritenuto in fatto

1. I sigg.ri A.G. e F.M. ricorrono per l’annullamento della sentenza del 11/03/2014 della Corte di appello di Salerno che ha dichiarato inammissibile, per mancanza di interesse, l’impugnazione da loro proposta avverso la sentenza del 19/05/2011 del Tribunale di Nocera Inferiore che li aveva assolti dai reati di cui agli artt. 2 e 8, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, contestati come commessi in (…) e (omissis) negli anni intercorsi tra il XXXX ed il XXXX, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.

1.1. Con unico motivo eccepiscono, per il tramite del difensore di fiducia, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’inosservanza degli artt. 591, comma 1, lett. a), e 568, comma 4, cod. proc. pen., nonché vizio di insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione in ordine alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione per carenza di interesse.

Considerato in diritto

2. I ricorsi sono fondati.
3. L’interesse richiesto dall’articolo 568, cod. proc. pen., deve essere concreto ed attuale, correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se l’impugnazione sia idonea a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente (Sez. U, n. 6203 del 11/05/1993, Amato, Rv. 193743; Sez. U, n. 9616 del 24/03/1995, Boido, Rv. 202018; Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093; Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino, Rv. 202269; Sez. U, n. 20 del 20/10/1996, Vitale, Rv. 206169; Sez. U, n. 18253 del 24/04/2008, Tchmil, Rv. 239397; si veda, più avanti, anche Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008, Guerra, e l’ulteriore giurisprudenza in essa richiamata).
3.1. In termini generali, questa Suprema Corte ha sempre sostenuto l’ammissibilità del ricorso per cassazione contro la sentenza di proscioglimento “perché il fatto non costituisce reato”, sussistendo l’interesse dell’imputato all’impugnazione qualora sostenga di “non aver commesso il fatto” o che “il fatto non sussiste” (Sez. 6, n. 5030 del 25/01/1989, Negri, Rv. 180989; Sez. 2, n. 8216 del 15/04/1983, Floridia, Rv. 160616; Sez. 3, n. 1019 del 28/04/1975, Pagella, Rv. 131948).
3.2. Ciò sul rilievo che la formula “il fatto non sussiste” esclude la esistenza stessa del fatto, prima ancora della sua riferibilità oggettiva e psicologica al preteso autore. Come ricordato dal Giudice delle leggi, esiste una “gerarchia delle formule di proscioglimento (…) “da determinare in considerazione dell’interesse dell’imputato a venire assolto con l’impiego di quella fra esse che risulti produttiva degli effetti per lui meno pregiudizievoli” (sentenza n. 175 del 1971) alla più specifica constatazione che “in tutte” le ipotesi di proscioglimento “escluse le pronunce emesse perché il fatto non sussiste o non è stato commesso dal prevenuto”, le uniche per cui manca ogni interesse ad impugnare – il legislatore “attribuisce all’imputato un fatto, o non esclude l’attribuzione di un fatto, che può non costituire reato ma tuttavia essere giudicato sfavorevolmente dall’opinione pubblica o comunque dalla coscienza sociale” (sentenza n. 151 del 1967)” (Corte cost.le, sent. n. 200/1986).
3.3. Più recentemente la Corte costituzionale è tornata sull’argomento, spiegando che “la categoria delle sentenze di proscioglimento (…) non costituisce un genus unitario, ma abbraccia ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto. A fianco di decisioni ampiamente liberatorie – quelle pronunciate con le formule “il fatto non sussiste” e l’”imputato non lo ha commesso” – detta categoria comprende, difatti, sentenze che, pur non applicando una pena, comportano – in diverse forme e gradazioni – un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o, comunque, l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo (…) Sentenze come quelle dianzi indicate sono idonee ad arrecare all’imputato significativi pregiudizi, sia di ordine morale che di ordine giuridico (si vedano, con riguardo alle sentenze di proscioglimento per estinzione del reato che presuppongano un sostanziale riconoscimento di colpevolezza, le sentenze n. 249 del 1989, n. 922 del 1988, n. 299 del 1985, n. 224 del 1983, n. 53 del 1981, n. 72 del 1979, n. 73 del 1978 e n. 70 del 1975; con riferimento al proscioglimento perché il fatto non costituisce reato, la sentenza n. 200 del 1986; con riguardo al proscioglimento per difetto di imputabilità, la sentenza n. 140 del 1989). Il pregiudizio di ordine morale può risultare, in taluni casi, persino superiore a quello derivante da una sentenza di condanna: basti pensare al proscioglimento per totale infermità di mente o per cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, anche quando non venga applicata una misura di sicurezza (al riguardo, si veda la sentenza n. 151 del 1967). I pregiudizi di ordine giuridico si connettono a loro volta, in via generale, alla possibilità che l’accertamento di responsabilità o comunque di attribuibilità del fatto all’imputato, contenuto nelle sentenze in questione – ancorché privo di effetti vincolanti – pesi comunque in senso negativo su giudizi civili, amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto” (Corte cost.le, sentenza n. 85/2008).
3.4. Come ampiamente illustrato da Sez. U, Guerra, cit.. “l’interesse a proporre impugnazione deve essere apprezzabile non solo nei termini dell’attualità, ma anche in quelli della concretezza, sicché non può risolversi nella mera aspirazione alla correzione di un errore di diritto contenuto nella sentenza impugnata. La concretezza dell’interesse può peraltro ravvisarsi anche quando l’impugnazione sia volta esclusivamente a lamentare una violazione astratta di una norma di diritto formale, purché però da essa derivi un reale pregiudizio dei diritti dell’imputato, che si intendono tutelare attraverso il raggiungimento di un risultato non soltanto teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (Sez. Un., 11 maggio 1993, n. 6203, Amato, m. 193743; Sez. Un., 24 marzo 1995, n. 9616, Boido, m. 202018). In particolare, l’interesse richiesto dall’art. 568, quarto comma, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente (Sez. Un., 13 dicembre 1995, n. 42/1996, Timpani, m. 203093). La concretezza dell’interesse peraltro è ravvisabile non solo quando l’imputato, attraverso l’impugnazione, si riprometta di conseguire effetti penali più vantaggiosi (come, ad esempio, l’assoluzione o la mitigazione del trattamento sanzionatorio), ma anche quando miri ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli ovvero ad assicurarsi effetti extrapenali più favorevoli, come quelli che l’ordinamento rispettivamente fa derivare dal giudicato delle sentenze di condanna o di assoluzione nei giudizi di danno (artt. 651 e 652 cod. proc. pen.) o in altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 cod. proc. pen.) e dal giudicato di assoluzione nei giudizi disciplinari (art. 653 cod. proc. pen.) (Sez. VI, 30 marzo 1995, n. 6989, Stella, m. 201953). Si tratta di una regola valida per tutte le impugnazioni, anche per quelle del pubblico ministero, che pure persegue un interesse che non può essere assimilato a quello delle altre parti né inquadrato negli stessi schemi. Il pubblico ministero può quindi proporre impugnazione, al fine di ottenere la esatta applicazione della legge, anche se a favore dell’imputato, ma l’interesse ad impugnare deve ugualmente presentare i caratteri della concretezza e della attualità, il che si verifica quando con l’impugnazione egli miri ad un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente utile e favorevole, come ad esempio quello di non far ricadere sull’imputato effetti dannosi ascrivibili ad errori del giudice (Sez. Un., 11 maggio 1993, n. 6203, Amato, m. 193743; Sez. Un., 24 marzo 1995, n. 9616, Boido, m. 202018; Sez. VI, 27 ottobre 2004, n. 884/05, Serra, m. 230822; Sez. IV, 29 febbraio 2008, n. 16389, Ndiaye, m. 239976). Insomma, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’impugnazione, per essere ammissibile, deve tendere alla eliminazione della lesione di un diritto o di un interesse giuridico dell’impugnante, non essendo prevista la possibilità di proporre un’impugnazione che si risolva in una mera pretesa teorica che miri alla sola esattezza giuridica della decisione, che di per sé non sarebbe sufficiente a integrare il vantaggio pratico in cui si compendia l’interesse normativamente stabilito che sottende l’impugnazione di ogni provvedimento giurisdizionale (Sez. Un., 13 dicembre 1995, Timpani, cit.). 10. È poi evidente che qualora l’impugnazione sia diretta al mutamento della formula di proscioglimento, la natura dell’interesse ad impugnare sarà diversa a seconda che l’impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento sia proposta dall’imputato o dal pubblico ministero ovvero dalla parte civile. Solitamente l’interesse in questione potrà dipendere anche dagli effetti vincolanti extrapenali del giudicato assolutorio penale che vengano in concreto invocati dall’impugnante. Per l’ipotesi in cui la sentenza di proscioglimento sia impugnata dall’imputato prosciolto, è sufficiente qui richiamare quanto osservato dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 85 del 2008, ossia che le uniche decisioni totalmente assolutorie sono quelle pronunciate con le formule “il fatto non sussiste” e “l’imputato non lo ha commesso”, mentre tutte le altre formule di assoluzione comportano, con forme e gradazioni diverse, un riconoscimento della responsabilità dell’imputato o comunque l’attribuzione del fatto allo stesso, e quindi, sebbene non applichino una pena, sono sicuramente idonee ad arrecare ugualmente all’imputato significativi pregiudizi di ordine sia morale sia giuridico. All’imputato va quindi normalmente riconosciuto il diritto di impugnare una sentenza di proscioglimento per ottenere una assoluzione con una formula per lui migliore perché totalmente liberatoria o comunque produttiva di effetti extrapenali più favorevoli o meno pregiudizievoli. In tal caso, infatti, l’interesse ad impugnare assume il carattere della concretezza in quanto tende non solo all’applicazione della formula giuridicamente più esatta ma anche alla eliminazione di un qualche effetto pregiudizievole. È dunque pacificamente riconosciuto l’interesse dell’imputato ad impugnare la sentenza di assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato” al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”, e ciò perché, a parte le conseguenze di natura morale, l’interesse giuridico risiede nei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 cod. proc. pen. connettono al secondo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare, a fronte degli effetti pregiudizievoli in tali giudizi derivanti dalla prima formula assolutoria (Sez. VI, 9 gennaio 2001, n. 2227, Viola, m. 217976; Sez. IV, 5 novembre 2002, n, 45976, Fasanella, m. 226719; Sez. VI, 6 febbraio 2003, n. 13621, Valle, m. 227194; Sez. V, 28 settembre 2004, n. 14542/05, Carretti, m. 231680, in un caso di ritenuto esercizio putativo del diritto di critica; Sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini, m. 235655)”.
3.5. La giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa Suprema Corte attribuisce dunque rilevanza all’interesse morale dell’imputato ad ottenere una formula assolutoria migliore di quella “il fatto non costituisce reato”, formula che, peraltro, non esclude la sussistenza dei fatti materiali da cui deriva il riconoscimento del diritto o dell’interesse legittimo di cui si controverte nel giudizio civile o amministrativo (artt. 652 e 654, cod. proc. pen.).
3.6. Si è affermato, in apparente contrasto con i principi testé esposti, che l’imputato non ha interesse a impugnare la sentenza di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria “perché il fatto non sussiste”, se la sentenza impugnata sia affetta da una palese incoerenza della decisione assolutoria con la motivazione e, pur escludendo la prova dell’elemento oggettivo del reato, assolva ritenendo carente il profilo psicologico, perché ciò esclude ogni pregiudizio per l’impugnante (Sez. 6, n. 6692 del 16/12/2014, Rv. 262393; Sez. 6, n. 49855 del 20/11/2013, Rv. 258029). Si tratta, come detto, di contrasto apparente perché quel che viene valorizzata è la sostanza del giudizio di insussistenza del fatto, al di là della formula assolutoria adottata.
3.7. Nel caso di specie, gli imputati sono stati assolti per mancanza del dolo di evasione ma la materialità della condotta loro ascritta (emissione di fatture per operazioni inesistenti e dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti) non solo non è stata esclusa ma è stata espressamente ribadita dalla Corte di appello che, nel giustificare la sua decisione, ha erroneamente escluso la rilevanza, in sede tributaria, dei fatti oggetto di accertamento penale poiché la sussistenza degli illeciti tributari in materia di emissione di fatture per operazioni inesistenti e di dichiarazione infedele prescinde completamente dal dolo di evasione, e si fonda sul dato dello scostamento tra il dichiarato e l’accertato, senza che rilevino intenti fraudolenti di sorta.
3.8. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Napoli per l’esame, nel merito, dell’impugnazione.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Napoli

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