Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 15 marzo 2017, n. 12591

Esclusa la particolare tenuità per il vigilantes del centro commerciale che fa una perquisizione personale all’interno della struttura imponendo a una donna di sollevare la maglietta e togliere i pantaloni

Suprema Corte di Cassazione

sezione V penale

sentenza 15 marzo 2017, n. 12591

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUNO Paolo A. – Presidente

Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere

Dott. SCARLINI Enrico V. S – Consigliere

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere

Dott. RICCARDI Giusep – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 12/03/2015 della Corte di Appello di Ancona;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Riccardi Giuseppe;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Corasaniti Giuseppe, che ha concluso chiedendo l’inammissibilita’ del ricorso;

udito il difensore della parte civile, Avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

udito il difensore, Avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 12/03/2015 la Corte di Appello di Ancona confermava la sentenza emessa il 22/09/2011 dal Tribunale di Pesaro, con la quale (OMISSIS) veniva condannato alla pena di mesi due di reclusione, condizionalmente sospesa, per il reato di violenza privata (articolo 610 c.p.), per avere, quale addetto alla vigilanza presso il centro commerciale (OMISSIS), costretto (OMISSIS) a subire una perquisizione personale all’interno degli uffici del centro medesimo, facendole togliere i pantaloni e sollevare la maglietta.

2. Avverso tale provvedimento ricorre per cassazione il difensore di (OMISSIS), Avv. (OMISSIS), deducendo i seguenti motivi di ricorso, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione: lamenta che nonostante la perquisizione sia stata eseguita da una donna, e non dall’imputato, costui sia stato condannato per il reato di violenza privata; la sentenza impugnata ha, infatti, riconosciuto il rispetto del pudore della p.o. da parte dell’imputato, ma non ne ha riconosciuto l’estraneita’; peraltro, alcuna costrizione vi e’ stata, in quanto la p.o. era libera di muoversi, aveva la disponibilita’ del telefono cellulare con il quale poteva avvertire le forze dell’ordine, poteva allontanarsi; tali elementi depongono per un giudizio di inattendibilita’ della persona offesa e della madre, anche in considerazione dell’interesse economico sotteso alla costituzione di parte civile, e delle inesattezze (sul colore della camicia indossata dall’imputato) emerse nel corso della deposizione.

2.2. Con memoria pervenuta il 26/10/2016, nel ribadire le doglianze gia’ proposte, ha chiesto l’applicazione della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 131 bis c.p..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso e’ inammissibile.

2. Va innanzitutto evidenziata l’inammissibilita’ delle doglianze relative alla valutazione probatoria formulata dalla sentenza impugnata, in quanto sollecitano, ictu oculi, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimita’; infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie della violazione di legge e del vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., sono in realta’ dirette a richiedere a questa Corte un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale.

Invero, le censure proposte concernono la ritenuta erroneita’ e/o parzialita’ della valutazione probatoria formulata dal giudice di merito, e prospettano una lettura alternativa del compendio probatorio; tuttavia, gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudizio valutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l’esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimita’ e non possono essere investiti dalla censura di difetto o contraddittorieta’ della motivazione solo perche’ contrari agli assunti del ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l’indagine sull’attendibilita’ dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruita’ e logicita’ della motivazione (Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989, dep. 1990, Bianchesi, Rv. 182961).

Del resto, la doglianza relativa all’esecuzione della perquisizione da parte di una collaboratrice di sesso femminile, per salvaguardare il pudore della persona offesa, oltre ad integrare una censura di fatto, esulante dalla base valutativa di questa Corte, non esclude che la perquisizione illegittima sia stata disposta dall’odierno ricorrente, sulla cui individuazione non sussiste contestazione, che, a prescindere dal formale ruolo rivestito (essendo irrilevante che egli fosse un portiere o un addetto alla vigilanza), aveva il dominio finalistico dell’azione illecita; il rispetto del pudore, dunque, non esclude l’arbitrarieta’ e l’illiceita’ penale del fatto, avendo viceversa integrato l’elemento fattuale per il quale sono state riconosciute le attenuanti generiche.

Anche in relazione alla pretesa assenza di costrizione, desumibile dal fatto che la persona offesa era libera di muoversi durante il “controllo”, giova rammentare che ai fini del delitto di violenza privata non e’ richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa. Pertanto, la sottoposizione ad una perquisizione arbitraria e, per cio’, ingiustificata, di una persona, da parte di un soggetto privo di qualsiasi legittimazione, costituisce un fatto di violenza fisica che si esplica direttamente sulla vittima, avuto riguardo alle condizioni particolari e ambientali in cui la stessa venga a trovarsi e, quindi, si svolga il fatto, che siano idonee ad eliminare e, comunque, a ridurre notevolmente nel soggetto passivo la capacita’ di determinarsi e di agire secondo la propria volonta’ (Sez. 2, n. 11641 del 06/03/1989, Savini, Rv. 182005).

In ordine alle pretese imprecisioni che inficerebbero l’attendibilita’ delle dichiarazioni della persona offesa, infine, la Corte territoriale ha affermato, con apprezzamento di fatto immune da censure di illogicita’, e dunque insindacabile in sede di legittimita’, che le imprecisioni nel rievocare i dettagli degli indumenti indossati dall’imputato concernevano elementi di contorno della deposizione, insuscettibili di minare il giudizio di attendibilita’ formulato. Al riguardo, invero, va ribadito che, in tema di valutazione della prova, e con specifico riguardo alla prova testimoniale, il giudice, pur essendo indubbiamente tenuto a valutare criticamente, verificandone l’attendibilita’, il contenuto della testimonianza, non e’ pero’ certamente tenuto ad assumere come base del proprio ragionamento l’ipotesi che il teste dica scientemente il falso o si inganni su cio’ che forma l’oggetto essenziale della propria deposizione, salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere. Cio’ significa che, in assenza di siffatti elementi, il giudice deve partire invece dal presupposto che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve percio’ limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilita’ fra quello che il teste riporta come certamente vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre eventuali fonti probatorie di pari valenza. La detta incompatibilita’, inoltre, deve essere ravvisata solo quando essa incida sull’elemento essenziale della deposizione, e non su elementi di contorno relativamente ai quali appaia ragionevolmente prospettabile l’ipotesi che il teste sia caduto in errore di percezione o di ricordo, senza per cio’ perdere di obiettiva credibilita’ per cio’ che attiene l’elemento centrale (Sez. 1, n. 3754 del 13/03/1992, Di Leonardo, Rv. 189725).

Quanto all’interesse economico sotteso alla costituzione di parte civile che comprometterebbe l’attendibilita’ della persona offesa, e’ pacifico che le dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, possono da sole, senza la necessita’ di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilita’ penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilita’ soggettiva del dichiarante e dell’attendibilita’ intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere piu’ penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine e’ necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo cosi’ l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata (ex multis, Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajno, Rv. 261730).

Nel caso in esame, l’attendibilita’ della persona offesa, costituita parte civile, e’ stata affermata sulla base delle dichiarazioni circostanziate e costantemente ripetute, dell’individuazione fotografica e, successivamente, del riconoscimento personale in aula dell’imputato, nonche’ delle dichiarazioni convergenti della madre della persona offesa, (OMISSIS), e del foglio presenze del centro commerciale (OMISSIS), attestante la presenza in servizio dell’odierno ricorrente.

2.1. Il motivo nuovo, con il quale e’ stata richiesta l’applicazione della causa di non punibilita’ della particolare tenuita’ del fatto, e’ manifestamente infondato.

Al riguardo va ribadito che l’istituto della non punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto, previsto dall’articolo 131-bis c.p., avendo natura sostanziale, e’ applicabile, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, anche ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione e per solo questi ultimi la relativa questione,in applicazione dell’articolo 2 c.p., comma 4 e articolo 129 c.p.p., e’ deducibile e rilevabile d’ufficio ex articolo 609 c.p.p., comma 2, anche nel caso di ricorso inammissibile (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593); in tali casi, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimita’ va ritenuta o esclusa senza rinvio del processo nella sede di merito e se la Corte di cassazione, sulla base del fatto accertato e valutato nella decisione, riconosce la sussistenza della causa di non punibilita’, la dichiara d’ufficio, ex articolo 129 c.p.p., annullando senza rinvio la sentenza impugnata, a norma dell’articolo 620 c.p.p., comma 1, lettera l), (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266594). Pertanto, la nuova causa di non punibilita’ puo’ essere applicata nel giudizio di legittimita’ con annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, ogniqualvolta emerga, dal contenuto di quest’ultima, la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti per l’operativita’ dell’istituto previsto dall’articolo 131 bis c.p., nonche’ un apprezzamento del giudice di merito coerente con tale soluzione (Sez. 6, Sentenza n. 44683 del 15/09/2015, T., Rv. 265114; Sez. 3, Sentenza n. 38380 del 15/07/2015, Ferraiuolo, Rv. 264795).

Tanto premesso, nel caso in esame la particolare tenuita’ del fatto risulta non configurabile in ragione della stessa valutazione della sentenza impugnata, che, rigettando la richiesta difensiva di applicazione del minimo edittale, ha confermato la determinazione della pena base operata discostandosi dal minimo edittale, in tal senso espressamente considerando la gravita’ del fatto – definito “una pesante ingerenza nella sfera della intimita’ e della riservatezza della persona” – in termini incompatibili con l’invocata causa di non punibilita’.

Non sussistono, pertanto, le condizioni di astratta non incompatibilita’ della fattispecie concreta (come risultante dalla sentenza impugnata e dagli atti processuali) con i requisiti ed i criteri indicati dal predetto articolo 131 bis c.p..

3. Alla declaratoria di inammissibilita’ del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00: infatti, l’articolo 616 c.p.p. non distingue tra le varie cause di inammissibilita’, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilita’ dichiarata ex articolo 606 c.p.p., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilita’ pronunciata ex articolo 591 c.p.p..

Il ricorrente va, altresi’, condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, (OMISSIS), che si liquidano, sulla base dei valori medi del Decreto Ministeriale n. 55 del 2014, in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, e alla rifusione delle spese in favore della parte civile costituita in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori di legge

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