Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione tributaria

sentenza 17 giugno 2015, n. 12559

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere

Dott. VELLA Paola – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 10828 del ruolo generale dell’anno 2010, proposto da:

(OMISSIS), rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al ricorso, dagli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo, in (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocatura dello Stato, presso gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, domicilia;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione 34, depositata in data 15 ottobre 2009, n. 99/34/09;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data 4 maggio 2015 dal consigliere Angelina-Maria Perrino;

udito per l’Agenzia delle entrate l’avvocato dello Stato (OMISSIS);

udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. DE AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso.

FATTO

(OMISSIS) ha ricevuto notificazione di un avviso di accertamento concernente l’anno d’imposta 1999, col quale l’Agenzia delle entrate recuperava l’imposta sul valore aggiunto e gli irrogava le conseguenti sanzioni e l’ha impugnato, deducendo di aver aperto la partita iva soltanto nel 2006, mentre nel 1999 aveva svolto soltanto lavoro dipendente, non gia’ attivita’ di procacciatore d’affari.

La Commissione tributaria provinciale ha respinto il ricorso proposto dal contribuente e quella regionale ne ha rigettato l’appello, facendo leva, a fondamento della pretesa del fisco, sulle dichiarazioni dei sostituti d’imposta e rimarcando che (OMISSIS) non ha fornito idonea prova contraria, mediante esibizione dei CUD dell’epoca, delle sue dichiarazioni dei redditi, dei cedolini paga.

Avverso questa sentenza propone ricorso il contribuente per ottenerne la cassazione, che affida a sette motivi, illustrati con memoria ex articolo 378 c.p.c., cui l’Agenzia reagisce con controricorso.

DIRITTO

1.- Infondato e’ il secondo motivo di ricorso, logicamente prodromico rispetto all’esame del primo, col quale il contribuente si duole, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c.. Cio’ in quanto il giudice d’appello non dubita che l’onere di provare la pretesa erariale spetti all’ufficio, ma sostiene che l’amministrazione la prova l’abbia offerta, mentre il contribuente non ha provveduto a fornire quella contraria.

2.- Infondata e’ altresi’ la complessiva censura proposta con i motivi primo, terzo, quarto e quinto, da esaminare congiuntamente perche’ connessi, con i quali, rispettivamente, (OMISSIS) si duole: – dell’insufficiente motivazione in ordine alla dimostrazione della pretesa erariale, che si fonda su una annotazione compiuta da tale (OMISSIS), la rispondenza al vero della quale e’ stata da questi smentita – primo motivo;

– della contraddittoria motivazione in ordine alla valutazione della dichiarazione di (OMISSIS) e dell’annotazione nei modelli 770 – terzo motivo;

– della violazione dell’articolo 2729 c.c., in relazione alla valutazione dell’annotazione nei modelli 770 – quarto motivo – nonche’ della dichiarazione di (OMISSIS) e degli altri elementi indicati dal contribuente – quinto motivo.

2.1. – Anzitutto, secondo quei che emerge dalla sentenza impugnata, la prova della pretesa erariale si e’ basata non gia’, come sostiene il contribuente col primo motivo, “esclusivamente su una annotazione di (OMISSIS)”, bensi’ sulle “dichiarazioni dei sostituti d’imposta per gli anni 1998, 1999, 2000”. Il giudice d’appello, inoltre, non ha negato in astratto e, dunque, in diritto, l’idoneita’ probatoria della scrittura di (OMISSIS) esibita da (OMISSIS), ma l’ha fatto in concreto, escludendone attendibilita’ e rilevanza, non constandogli la qualita’ di amministratore di (OMISSIS) all’epoca dei fatti, e, dunque, la fonte di conoscenza delle circostanze riportate nella scrittura.

Nessuna contraddittorieta’ per conseguenza si rileva nelle argomentazioni della sentenza, ma una valutazione dei mezzi di prova offerti, rimessa in via esclusiva al giudice di merito, salvo lo scrutinio riguardo alla congruita’ della relativa motivazione (tra varie, Cass. 30 ottobre 2013, n. 24437).

La congruita’, in particolare, non e’ incrinata dai vizi di motivazione dedotti in ricorso, giacche’ il contribuente non deduce, con prospettazione autosufficiente, in base a quali elementi pervenga alla qualificazione, all’epoca dei fatti, di (OMISSIS) come amministratore di fatto della s.r.l. Programma Arte e delle altre societa’ del gruppo Aurora per le quali assume di aver lavorato come dipendente, utile a scardinare la valutazione d’irrilevanza e inattendibilita’ contenuta in sentenza.

Per il resto, la censura, la’ dove punta su elementi quali la mancata emissione di fatture e l’omesso versamento a (OMISSIS) dell’iva ed il mancato pagamento dei contributi Enasarco (l’affermata assenza di organizzazione autonoma e’ affidata ad asserzione apodittica), si risolve in una valutazione alternativa del materiale probatorio, spettando, invece, al giudice di merito d’individuare i fatti da porre a fondamento del processo logico presuntivo e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge (Cass., ord. 8 gennaio 2015, n. 101).

3.- Ne deriva l’infondatezza del sesto motivo di ricorso, col quale il contribuente si duole, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, della nullita’ della sentenza per violazione del principio della domanda ex articolo 112 c.p.c., nella parte in cui la Commissione tributaria regionale non avrebbe esaminato la questione della conformita’ a costituzione del divieto di prova testimoniale nel processo tributario.

La statuizione della sentenza, difatti, di per se’ non si pone in contrasto col principio di diritto, in base al quale nel processo tributario, fermo restando il divieto di ammissione della prova testimoniale posto dal Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, articolo 7, il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore proprio degli elementi indiziar, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, va riconosciuto non soltanto all’Amministrazione finanziaria, ma anche al contribuente, con il medesimo valore probatorio, dandosi cosi’ concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’articolo 111 Cost., per garantire il principio della parita’ delle armi processuali nonche’ l’effettivita’ del diritto di difesa (Cass. 14 maggio 2010, n. 11785; conformi, Cass. 20028/11 e 8987/13 nonche’, da ultimo, 27 febbraio 2015, n. 4123 e ord. 12 marzo 2015, n. 5018).

Principio di diritto, che esclude la rilevanza del dubbio di legittimita’ costituzionale dell’articolo 7 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 prospettato col settimo motivo di ricorso.

5- Infine, e’ inammissibile per difetto di autosufficienza il profilo prospettato col sesto motivo di ricorso, concernente la necessita’ di tener conto, nella determinazione del quantum delle spese deducibili: nessuna ulteriore esplicazione e’ contenuta nel motivo, che si limita, sul punto, a riportare le mere conclusioni del ricorso di primo grado e di quello in appello.

6.- Il ricorso va in conseguenza respinto e le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna il contribuente a pagare le spese, liquidate in euro 3000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

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