Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 27 febbraio 2018, n. 8995. Il liquidatore di societa’ risponde del delitto di omesso versamento delle ritenute certificate

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In tale pronuncia, citata anche in ricorso ma conducente, in realta’, come esattamente osservato in memoria dai difensori degli indagati, ad esiti opposti a quelli invocati, si e’ infatti affermato che, proprio considerando le limitazioni dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, articolo 36, la responsabilita’ in proprio del liquidatore sussiste, da un lato, con il solo riguardo alle imposte dovute per il periodo della liquidazione e per quelle anteriori, e, dall’altro, solo qualora egli non provi di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci e creditori ovvero di aver soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari; sicche’, in definitiva, la responsabilita’ per il suddetto reato si configura se i soggetti preposti alla liquidazione distraggano l’attivo della societa’ finalizzato al pagamento delle imposte e lo destinino a scopi differenti, ma non deriva, invece, dal mero inadempimento fiscale; si e’ posta inoltre in evidenza l’irragionevolezza di una diversa lettura della norma che porterebbe alla illogica conseguenza della imposizione al liquidatore, da un lato, dell’obbligo di osservare un ordine gerarchico nell’assolvimento delle posizioni debitorie – tra le quali rientrano anche quelle fiscali – e, dall’altro, della previsione di responsabilita’ nel caso in cui l’osservanza di tale criterio di riparto abbia comportato la non volontaria omissione del versamento delle ritenute. Ne’ la norma citata, come ugualmente gia’ precisato, puo’ essere ricondotta in un ambito esclusivamente civilistico, avendo invece una diretta incidenza in ordine alla configurabilita’ del reato in caso di insussistenza dei presupposti limitativi della responsabilita’ dei liquidatori individuati dal piu’ volte ricordato articolo 36.

Ed allora, deve ritenersi corretta, sulla base di detto principio, la conclusione della inconfigurabilita’ del reato, anche solo a livello di fumus, cui e’ comunque giunta l’ordinanza impugnata; e cio’, non tanto perche’ la mera domanda di ammissione al concordato poteva in se’ porre al liquidatore il divieto di effettuare il versamento delle ritenute per effetto di quanto previsto dall’articolo 168 L. Fall., giacche’, come gia’ specificato da questa Sezione, l’elemento discriminante dovrebbe essere individuato, semmai, in quello di ammissione al concordato (Sez. 3, n. 3541 del 16/12/2015, dep. 27/01/2016, Faranda, Rv. 265937; Sez. 3, n. 15853 del 12/03/2015, dep. 16/04/2015, Fantini, Rv. 263436) o, addirittura, in quello della omologazione dello stesso (Sez. 3, n. 6591 del 26/10/2016, dep. 13/02/2017, P.M. in proc. Taccone, Rv. 269146), momenti, nella specie, entrambi successivi alla scadenza del 21/09/2015 stabilita per il versamento, quanto perche’, a fronte di disponibilita’ liquide della societa’ sussistenti al momento della presentazione della domanda di ammissione al concordato e all’intervento del liquidatore ed ammontanti, come risultante dall’ordinanza impugnata, a soli Euro 5.141,74, nonche’ a fronte della esistenza di crediti di grado anteriore superiori a tale importo come partitamente elencati a pag. 7 dell’ordinanza impugnata, il mancato versamento dell’imposta non sarebbe stato comunque addebitabile al liquidatore, responsabile appunto nei soli limiti gia’ indicati sopra.

Va peraltro aggiunto che, anche ove l’impostazione qui ribadita non fosse condivisibile, e dunque fossero ravvisabili elementi indicativi del fumus dell’addebito contestato, il ricorso sarebbe comunque infondato, posto che, come subito oltre si dira’, alle somme di denaro oggetto dell’intervenuto sequestro non potrebbe comunque riconoscersi la natura di profitto del reato.

2. Ed infatti, venendo al ricorso proposto con riferimento all’annullamento del sequestro per quanto riguardante l’addebito mosso al legale rappresentante della societa’, che in tesi accusatoria si sarebbe perfezionato in data 19/09/2014 (e dunque ancor prima che vi fosse la presentazione di domanda di ammissione al concordato), e’ incontroverso che la misura abbia attinto somme presenti sul conto corrente intestato al concordato preventivo e, piu’ in particolare, la somma di Euro 365.274,00 non sussistente al momento della scadenza del 19/09/2014 gia’ indicata sopra, bensi’ ivi solo successivamente (e piu’ precisamente in data 27/01/2017 come ricavabile dagli atti) riversata da terzi (si veda sul punto pag. 7 dell’ordinanza impugnata) in esecuzione del concordato preventivo.

Ora, e’ esatto, come ricordato dal P.M. ricorrente, che questa Corte a Sezioni Unite ha affermato che ove il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilita’, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Sez. Un., n. 10561 del 30/01/2014, dep. 05/03/2014, Gubert, Rv. 258647 nonche’ Sez. Un., n. 31617 del 26/06/2015, dep. 21/07/2015, Lucci, Rv. 264437); e cio’, implicitamente, proprio perche’ la natura fungibile del bene, che, come sottolineato dalle Sezioni Unite Lucci, si confonde automaticamente con le altre disponibilita’ economiche dell’autore del fatto, ed e’ tale da perdere – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilita’ fisica, rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita; “cio’ che rileva”, proseguono le Sezioni Unite, e’ che “le disponibilita’ monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo”.

Ma, proprio in ragione di cio’, ed in senso esattamente corrispondente, seppure a contrario, al principio enunciato dalle Sezioni Unite, ove si abbia invece la prova che tali somme non possano proprio in alcun modo derivare dal reato (come appunto nel caso in cui le stesse, come nella specie, siano corrispondenti a rimesse effettuate da terzi successivamente alla scadenza del termine per il versamento delle ritenute in esecuzione del concordato preventivo), di talche’ le stesse neppure possono, evidentemente, rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte (ovvero, in altri termini del “risparmio di imposta” nel quale la giurisprudenza ha costantemente identificato il profitto dei reati tributari), le stesse non sono sottoponibili a sequestro difettando in esse la caratteristica di profitto, pur sempre necessaria per potere procedere, in base alle definizioni e ai principi di carattere generale, ad un sequestro, come quello di specie, in via diretta.

E cio’, a maggior ragione ove le somme siano rinvenute, in connessione con la stessa ragione della loro corresponsione, in un conto corrente intestato non gia’ alla Societa’, bensi’ al concordato preventivo.

3. Il ricorso va dunque rigettato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso del P.M.

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