Corte di Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 3 novembre 2017, n. 50198. Il reato di peculato, oltre a vulnerare l’interesse per il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, offende anche l’interesse che il titolare del bene oggetto dell’appropriazione ha di conservarlo

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10. E’ ben vero, infatti, che la giurisprudenza di legittimita’ ha statuito che non e’ configurabile il delitto di peculato in assenza o estrema esiguita’ del valore della cosa oggetto di appropriazione (Sez. 6, n. 10543 del 07/06/2000, Baldassare ed altro, Rv. 218338) e che e’ stato escluso il reato di peculato di cui all’articolo 314 c.p., nella condotta del pubblico ufficiale il quale utilizzi beni appartenenti alla pubblica amministrazione privi in se’ di rilevanza economica e quindi inidonei a costituire l’oggetto materiale dell’appropriazione (Sez. 6, n. 21867 del 22/03/2001, Ioia, Rv. 21902), affermazioni – richiamate in ricorso – che, pero’, si completano con il principio secondo il quale va, in ogni caso, verificata la concreta incidenza della condotta appropriativa sulla funzionalita’ dell’ufficio o del servizio.
11. Rileva il Collegio che nella figura di peculato, quale delineata per effetto della legge n. 86 del 1990 che ha disegnato una fattispecie nella quale sono confluite le figure delittuose prima descritte negli articoli 314 e 315 c.p., l’appartenenza della res alla pubblica amministrazione non e’ piu’ presente, ed e’ stata sostituita dalla nozione di altruita’ del denaro o della cosa mobile, concetto riferibile ad una pluralita’ di situazioni di appartenenza della cosa fondate sul vincolo che viene a determinarsi sulla res in ragione del possesso funzionale che legittimi, o imponga alla pubblica amministrazione di disporne, a prescindere dalla titolarita’, su di essa, della proprieta’ o altro diritto: rilevanza centrale, nella dinamica della fattispecie assume, pertanto, l’abuso del possesso ovvero della disponibilita’ per ragione dell’ufficio o servizio. Secondo tale modello legale, il reato di peculato, oltre a vulnerare l’interesse per il buon andamento e l’imparzialita’ della pubblica amministrazione, offende anche l’interesse che il titolare del bene oggetto dell’appropriazione ha di conservarlo, interesse che, generalmente, ha natura patrimoniale ma che non si puo’ affatto escludere che sia, anche o solo, di altra natura, in dipendenza di particolari legami del soggetto passivo con il bene. E’, dunque, con riguardo a tale composita struttura dell’oggetto giuridico del reato che va letta l’affermazione della natura plurioffensiva del peculato ed e’ con tale nozione che deve confrontarsi l’interpretazione, ed applicazione del principio di offensivita’, poiche’ alla indubbia esigenza di tutelare gli aspetti patrimoniali che risultino danneggiati da condotte lesive di interessi propri della stessa pubblica amministrazione ovvero di soggetti privati si affianca, proprio in ragione dei tipici elementi strutturali della fattispecie, quella di attribuire rilievo al disvalore delle particolari forme di abuso che si realizzano attraverso le condotte di appropriazione o di uso non compatibili con la funzione o il servizio, o comunque non consentite dall’ordinamento. Se, dunque, e’ l’offensivita’ patrimoniale del reato di peculato a dischiudere la possibile applicazione delle circostanze di cui all’articolo 61 c.p., n. 7, e articolo 61 c.p., n. 4, (pacificamente affermata in giurisprudenza), per altro aspetto questa Corte ha, piu’ volte, affermato che la natura plurioffensiva del reato di peculato implica che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all’appropriazione non esclude la sussistenza del reato, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell’agente l’altro interesse, diverso da quello patrimoniale, protetto dalla norma incriminatrice, ossia quello della legalita’, imparzialita’ e buon andamento dell’operato della pubblica amministrazione (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190). Per le medesime ragioni, inoltre, si e’, anche di recente, precisato (v. Sez. 6, n. 41587 del 19/06/2013, Palmieri, Rv. 257148) che, in tema di peculato, la semplice restituzione della somma sottratta al privato non comporta il riconoscimento dell’attenuante della riparazione del danno provocato dalla condotta illecita del pubblico ufficiale, poiche’ la fattispecie di reato, pur potendo tutelare eventualmente anche il patrimonio dei privati, si caratterizza principalmente per le finalita’ di tutela del patrimonio della pubblica amministrazione e dell’interesse alla legalita’, efficienza e imparzialita’ della sua attivita’.
12. E non e’ revocabile in dubbio, secondo le corrette argomentazioni sul punto delle sentenze di merito, che la condotta appropriativa ascritta alla (OMISSIS) ha comportato non solo un pregiudizio patrimoniale al privato ed alla pubblica amministrazione – pregiudizio patrimoniale da ragguagliare al valore modestissimo, ma non irrilevante, dei beni sottratti, anche se costituiti dal solo carica-batterie per cellulare di proprieta’ del viaggiatore -, ma, in modo non secondario, una lesione degli ulteriori interessi tutelati dall’articolo 314 c.p., da individuarsi nella legalita’ e buon andamento dell’operato della amministrazione pubblica un aspetto del quale si compendia nell’affidamento che i viaggiatori ripongono nei soggetti preposti alla salvaguardia della sicurezza aeroportuale, soggetti ai quali i passeggeri sono tenuti, in forza delle stringenti regole di utilizzazione dei servizi aerei, a consegnare i bagagli per i controlli, ed al cui operato sono evidentemente estranei sia le illecite pratiche di controlli arbitrari dei bagagli dei passeggeri – che possono avvenire solo alla presenza del proprietario che l’illegittima apprensione di beni in essi rinvenuti.
13. Dalla declaratoria di inammissibilita’ dei ricorsi discende la condanna delle ricorrenti, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., a sostenere le spese del procedimento e, considerato che non vi e’ ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’”, al versamento della somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 ciascuna in favore della Cassa delle Ammende (Corte Cost., n. 186 del 13 giugno 2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuna al versamento della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.

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