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Suprema Corte di Cassazione

sezione III civile

sentenza n. 12402 del 21 maggio 2013

 

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 17.05.2006 n.3254, il Tribunale di Torino accoglieva la domanda di risarcimento danni proposta dall’arch. M.O. nei confronti dell’avv. B.G. per affermazioni ritenute diffamatorie, contenute nell’istanza di sostituzione di c.t.u., depositata dal suddetto legale in una causa civile in cui l’attore era stato nominato consulente; condannava, quindi, il convenuto al pagamento della somma di Euro 5.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, nonché al rimborso delle spese di lite.
La decisione, gravata da impugnazione dell’avv. B., era confermata dalla Corte di appello di Torino, la quale con sentenza in data 15.01.2009 rigettava l’appello, condannando l’appellante al pagamento delle ulteriori spese. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’avv. G.B., svolgendo tre motivi, illustrati anche da memoria.

Ha resistito l’arch. M.O., depositando controricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso – avuto riguardo alla data della pronuncia della sentenza impugnata (successiva al 2 marzo 2006 e antecedente al 4 luglio 2009) – è soggetto, in forza del combinato disposto di cui al d.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 27, comma 2 e della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, alla disciplina di cui agli artt. 360 cod. proc. civ. e segg. come risultanti per effetto del cit. d.Lgs. n. 40 del 2006.
1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 598 cod. pen. e 51 cod. pen. (art. 360 n.3 cod. proc. civ.), nonché omessa e/o contraddittoria in punto di non applicazione dell’esimente (art. 360 n.5 cod. proc. civ.) il tutto in relazione all’art. 24 Cost. Il motivo è corredato dai seguenti quesiti: a) “la motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame è carente ed illegittima allorquando la laconicità della motivazione adottata formulata in termini di mera adesione (come nel caso) non consente in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame”; b) “in tema di offese e diffamazione la speciale esimente contemplata dall’art. 598 c.p. per offese in scritti pronunciati dinanzi all’Autorità giudiziaria, con la quale il legislatore ha inteso garantire alle parti del processo la massima libertà nell’esercizio del diritto di difesa, trova applicazione sempre laddove le offese riguardino in modo diretto ed immediato l’oggetto della controversia e abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata e/o per l’accoglimento della istanza proposta”; c) “ai fini dell’applicazione degli artt. 598 c.p. e 51 c.p. non si richiede esplicitamente una particolare continenza espressiva, posto che il limite in proposito deriva dalla necessità di una rilevanza delle offese in funzione difensiva e nella funzionalità delle eventuali offese all’esercizio del diritto di difesa, sicché la condizione per l’applicabilità della esimente è che le espressioni concernano l’oggetto della controversia ed abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata e per l’accoglimento della domanda proposta”; d) “in tema di memoria-istanza presentata nel corso di un giudizio civile al giudice istruttore da un patrocinatore di una delle parti di quel giudizio, è sufficiente che le offese contenute negli scritti difensivi siano in rapporto di giuridica necessità per la difesa in essere ed abbiano un mero rapporto diretto e logico tra loro perché sia applicata la scriminante di cui all’art. 598 c.p. senza tenere conto delle singole parole e/o delle singole frasi estrapolate dal contesto (scritto giudiziario) in cui sono inserite senza che in tal modo abbiano un significato logico e letterale con lo stesso contesto”.
1.2. Nessuna delle censure formulate con il suddetto motivo merita accoglimento.
Innanzitutto – contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente – la motivazione impugnata non è svolta per relationem, avendo la Corte di appello, punto per punto, preso in esame le censure dell’appellante, esprimendo le ragioni della propria motivata condivisione delle valutazioni del primo Giudice, sia in ordine al significato diffamatorio delle espressioni in contestazione, sia con riguardo all’insussistenza delle condizioni di applicabilità dell’esimente di cui all’art. 598 cod. pen. invocata dall’avv. B. , segnatamente evidenziando che:
l’avere qualificato “falsa” la risposta fornita dall’arch. O. , nella sua qualità di c.t.u., al giudice della causa in cui l’odierno ricorrente patrocinava le ragioni di un Condominio (laddove il B. affermava: “sta di fatto che, come al solito il c.t.u. non risponde e la risposta è palesemente priva di ogni pregio e falsa”) significava attribuire al consulente di aver dolosamente fornito al giudice una risposta che sapeva non corrispondente al vero e, quindi, diavere dato intenzionalmente una risposta non corretta, volendo alterare i dati della realtà, laddove, se del caso, il difensore avrebbe dovuto indirizzare le sue doglianze in altra sede (art. 373 cod. pen.);

anche l’espressione “sedicente”, adoperata dall’avv. B. (“Ritiene il sedicente tecnico che le opere…”) travalicava i limiti della difesa e continenza, siccome stava a indicare che il c.t.u. si qualificava tecnico, nella consapevolezza di non esserlo, laddove al contrario lo stesso era iscritto nell’albo dei consulenti, oltre ad essere un architetto;
l’ultima frase in contestazione (“Chi non è in grado di fare il perito, soprattutto per le perizie giudiziali che sono assai delicate per i risvolti che esse necessariamente comportano, dovrebbe lasciare il compito a chi è preparato in merito….”), seppure di più sfumata portata diffamatoria, investiva la professionalità e la capacità dell’arch. O. , del tutto gratuitamente, non solo nella singola vertenza, ma in generale; e ciò era particolarmente grave, dal momento che l’avv. B. sosteneva di non avere mai avuto contatti professionali con l’arch. O. e ciononostante ne affermava tout court l’incapacità professionale.
Le valutazioni espresse sono di stretto merito e, come tali, soggiacciono in questa sede a un sindacato che è limitato alla verifica della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale delle argomentazioni svolte a sostegno, non essendo consentito al Giudice di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione attraverso la disamina autonoma delle emergenze procedimentali.
1.3. In punto di diritto si rammenta – in conformità a principi acquisiti nella giurisprudenza di questa Corte – che la speciale esimente contemplata dall’art. 598 cod. pen., “per offese in scritti o discorsi pronunciati dinanzi alla autorità giudiziaria”, con la quale il legislatore ha inteso garantire alle parti del processo la massima libertà nell’esercizio del diritto di difesa, trova applicazione sempre che le offese riguardino in modo diretto ed immediato l’oggetto della controversia e abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata o per l’accoglimento della domanda proposta (tra le varie cfr. nella giurisprudenza civile Cass. 28 agosto 2007, n. 18207; Cass. 18 maggio 2005, n. 10423 e in quella penale: Cass. 7 febbraio 2008, n. 9071). In particolare si ritiene che l’esimente non è condizionata dalla necessità delle offese, mentre è necessario il rispetto del criterio della pertinenza, dal momento che la norma ne delimita chiaramente l’estensione, richiedendo che “le offese concernono l’oggetto della causa…”. Ne consegue che, per quanto l’esimente si applichi anche alle offese che non concernano momenti decisivi dell’argomentazione, queste devono comunque essere direttamente connesse al tema della causa, con la conseguenza che tali presupposti non ricorrono ove le offese non siano pertinenti e si risolvano in giudizi apodittici sulla persona offesa, senza che sia possibile rilevare inferenze argomentative nella controversia in discussione presso l’Autorità giudiziaria (Cass. pen., 8 gennaio 2005, n. 6495).
Ed è quanto in sostanza affermato dalla Corte di appello allorché – correttamente esaminando le frasi in discussione nel contesto della memoria difensiva e in funzione della finalità di sostituzione del c.t.u. dallo stesso scritto perseguita – ne ha puntualmente evidenziato, con argomentazioni congrue e logiche, la loro gratuità e/o l’apoditticità, ergo la “non pertinenza”, siccome intese a colpire la persona del consulente, senza alcuna inferenza argomentativa nella questione specifica; mentre il richiamo al requisito della “continenza”, svolto dalla stessa Corte territoriale, risulta operato essenzialmente per evidenziare il carattere volutamente offensivo e il tenore obbiettivamente eccessivo delle espressioni rispetto al libero esercizio del diritto di difesa garantito dall’esimente.
In definitiva il motivo, così come articolato, pur lamentando formalmente il duplice vizio della violazione di legge e del difetto di motivazione, mira a sollecitare null’altro che una diversa lettura delle risultanze procedimentali come accertate e ricostruite nell’impugnata sentenza; e tutto ciò emerge anche dalla genericità e astrattezza dei quesiti di diritto e dalla palese inadeguatezza del quesito sub a) agli effetti della “chiara indicazione” richiesta dall’art. 366 bis cod. proc. civ. in relazione alla censura di cui all’art. 360 n.5 cod. proc. civ..

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 595 cod. proc. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.. Il motivo è corredato dai seguenti quesiti: a) “nel nostro ordinamento opera il divieto di fondare la decisione da parte del giudice su elementi di conoscenza non acquisiti dallo stesso giudice nelle forme processuali previste per l’assunzione delle prove, posto che il principio dell’allegazione esiste come manifestazione del principio della domanda ed il giudice deve decidere solo iuxta et alligata probata non ponendo a base della stessa sue semplici supposizioni”; b) “in tema di diffamazione non sussiste il requisito della comunicazione con più persone nell’ipotesi in cui l’istanza giudiziale sia diretta ovviamente solo al giudice istruttore, giacché in tal caso la comunicazione con più persone non può dirsi voluta dall’agente, neppure sotto il profilo del dolo eventuale, non essendo prevista l’ipotesi colposa della diffamazione, particolarmente laddove il giudice non ha ordinato la notificazione dell’istanza alla controparte o a terzi in genere”.
2.2. Il motivo – prima ancora che inammissibile per la genericità e l’astrattezza dei quesiti di diritto, incomprensibili ad una lettura autonoma dal precedente motivo e per l’assenza del c.d. quesito di fatto (“la chiara indicazione” richiesta in relazione alla congiunta censura motivazionale) – è manifestamente infondato.
Assume in sostanza il ricorrente che nella specie non sarebbe configurabile la diffamazione perché lo scritto difensivo era diretto a una sola persona – quella del giudice istruttore – e perché gli atti processuali non erano accessibili a terzi; deduce, in particolare, che le argomentazioni svolte dalla Corte di appello sul punto della propalazione dello scritto in questione non avrebbero fondamento in atti. Senonchè – escluso che la memoria potesse avere un unico destinatario, proprio perché si trattava di un atto del processo – è assorbente la circostanza, emergente dalla decisione impugnata (cfr. pag. 20) e non contestata da parte ricorrente, che, nella specie, la memoria di cui trattasi venne depositata in udienza.
Si rammenta a parte ricorrente che nel giudizio civile, improntato al principio del contraddittorio, le memorie difensive sono destinate ad essere comunicate alle altre parti e che, se la comunicazione non avviene con lo scambio in udienza, vi provvede la Cancelleria (cfr. artt. 170 cod. proc. civ., 74 e 87 att. cod. proc. civ.).
3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2043, 2059 cod. civ. e 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 nn.3 e 5 cod. proc. civ.. Il motivo è corredato dal seguente quesito “in tema di risarcimento danni per lesione alla reputazione professionale, l’esistenza di esso deve essere valutata dal giudice con espresso riferimento ai singoli pregiudizi economici che l’attore danneggiato assume avere subito per effetto dell’evento lesivo per cui non è sufficiente la dichiarazione del fatto lesivo per ritenersi provato anche l’evento. L’onere della prova ricade inoltre su colui che chiede il risarcimento, a nulla rilevando l’affermazione che il danno sarebbe in re ipsa poiché le problematiche relative alla forma di liquidazione equitativa del danno ex art. 2056 cod. civ. che richiama l’art. 1226 cod. civ. come richiesta dall’attore presuppongono ogni caso che sia fornita prova certa che un danno si sia verificato e che siano forniti gli elementi e i dati di fatto sui quali il giudice possa fondare il proprio apprezzamento”.
3.1. Il motivo di ricorso è corredato da un quesito di diritto privo di qualsivoglia correlazione con le ragioni della decisione, non risultando dalla stessa riconosciuto alcuno dei “pregiudizi economici” cui allude il quesito, bensì il danno non patrimoniale.
Peraltro, contrariamente a quanto opinato da parte ricorrente, la Corte territoriale non ha ravvisato il danno in re ipsa, ma ha piuttosto orientato le proprie valutazioni al principio costantemente ribadito da questa Corte, secondo cui il danno non patrimoniale, quale sofferenza patita dalla sfera morale del soggetto leso si realizza, nel caso di diffamazione, nel momento in cui la parte lesa ne viene a conoscenza (Cass. 9 agosto 2001 n. 10980). Dall’individuazione di detto evento è conseguita, poi, la valutazione necessariamente equitativa del pregiudizio subito. Invero l’unica possibile forma di liquidazione del danno non patrimoniale è quella equitativa, risultando la ragione del ricorso a tale criterio insita nella natura stessa di tale danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226 cod.civ.) e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico, fermo restando il dovere del giudice di dar conto delle circostanze di fatto da lui considerate nel compimento della valutazione equitativa e del percorso logico che lo ha condotto a quel determinato risultato. Il che, nel caso all’esame, la Corte territoriale ha fatto puntualmente, individuando come parametro soggettivo la delicatezza del “ruolo” di consulente, su cui si sono appuntate le offese e come parametro oggettivo, l’ambiente di lavoro in cui le espressioni offensive sono state diffuse.
Ciò posto e precisato che l’esercizio del potere equitativo del giudice di merito è censurabile solo nel caso in cui la liquidazione del danno morale appaia manifestamente simbolica o per nulla correlata con le premesse di fatto in ordine alla natura e all’entità del danno accertato dallo stesso giudice (Cass. 28 agosto 2003, n. 12613), rileva il Collegio che la somma liquidata nella specie a titolo di danno morale non è simbolica ed è comunque adeguata alle premesse enunciate, così come è congrua la relativa motivazione.
In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 2.500,00 (di cui Euro 2.300,00 per compensi) oltre accessori come per legge.

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