Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenza 19 febbraio 2018, n. 7859. La circostanza aggravante della finalita’ di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso

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Come affermato da un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimita’, condiviso dal Collegio, infatti, il legittimo esercizio del diritto di critica, pur non potendosi pretendere caratterizzato dalla particolare obiettivita’ propria del diritto di cronaca, non consente comunque gratuite aggressioni alla dimensione morale della persona offesa e presuppone sempre il rispetto del limite della continenza delle espressioni utilizzate, da ritenersi superato nel momento in cui le stesse, per il loro carattere gravemente infamante o inutilmente umiliante, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, la cui persona ne risulti denigrata in quanto tale (cfr. Cass., sez. 5, 11/01/2013, n. 9862; Cass., sez. 5, 05/07/2012, n. 38437; Cass., sez. 5, 17/05/2012, n. 30329)

Puo’, dunque, affermarsi che sussiste il delitto di diffamazione quando tale limite sia oltrepassato, trasformando il legittimo dissenso contro le iniziative e le idee politiche altrui, in una mera occasione per aggredirne la reputazione, con affermazioni che non si risolvono in critica, anche estrema, delle idee e dei comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni e commenti tipicamente “di parte”, cioe’ non obiettivi, ma in espressioni apertamente denigratorie della dignita’ e della reputazione altrui ovvero che si traducono in un attacco personale o nella pura contumelia (cfr. Cass., sez. 5, 5.7.1974, n. 8225, rv. 128431; Cass., sez. 5, 5.11.1997, n. 11905, rv. 209647; Cass., sez. 5, 19.12.2006, n. 4991, rv. 236321; Cass., sez. 5, 3.12.2009, n. 7419, rv. 246096).

Orbene non appare revocabile in dubbio che l’espressione di cui si discute, lungi dal rappresentare una radicale critica all’azione politica della (OMISSIS), e’ trasmodata in un vero e proprio attacco inutilmente umiliante nei confronti di quest’ultima ed inutilmente denigratorio della sua dignita’, intesa come percezione, innanzitutto, della propria dimensione umana, e della sua reputazione.

Non di una censura sugli obiettivi politico-amministrativi perseguiti dalla persona offesa si e’ trattato, dunque, ma di un attacco personale, che, facendo leva sulle origini africane della (OMISSIS), le ha attribuito caratteri propri degli esseri che vivono nella giungla (dove il (OMISSIS) la invitava a fare ritorno).

La corte di merito, poi, ha – non illogicamente – inquadrato il dictum dell’imputato nell’ambito della sguaiata polemica politica, che ha visto quale vittima proprio la (OMISSIS), da altri assimilata ad una scimmia antropomorfa e, in continuita’ con tale contesto, ha valutato le esternazioni del (OMISSIS).

Affermazioni, pertanto, che, lette nel loro contesto, descrivono la persona offesa come incompatibile con il ruolo che e’ stata chiamata a svolgere nella nostra societa’.

Dunqe evidente e’ la concezione sottesa allo sprezzante “invito”, teso ad allontanare la persona offesa dal contesto degli uomini civilizzati. Appare, pertanto, del tutto superfluo stabilire se l’imputato avesse voluto assimilare o meno la (OMISSIS) ad una scimmia, come ritenuto dalla corte territoriale, peraltro con logico argomentare, posto che l’affermazione del (OMISSIS) va collocata nel contesto mediatico, sorto intorno alle dichiarazioni del senatore (OMISSIS) sulla somiglianza della Ministra ad un “(OMISSIS)”, non a caso riportate dal (OMISSIS) nel testo inserito nel suo profilo “Facebook”.

Quel che rileva, infatti, e’ l’evidente e gratuito giudizio di disvalore espresso dal (OMISSIS), fondato sull’appartenenza della (OMISSIS) alla razza degli africani di pelle nera, che, secondo l’imputato, ha nella giungla e non nella societa’ civilizzata, il suo habitat naturale, per ragioni storiche ovvero perche’ assimilabile agli animali, come le scimmie, che vi vivono.

Va, pertanto, condivisa la decisione della corte territoriale anche sulla sussistenza della circostanza aggravante, in premessa indicata, che risulta assolutamente conforme all’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimita’, secondo cui la circostanza aggravante della finalita’ di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso e’ configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorita’ di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente, come nel caso in cui nelle espressioni denigratorie sia contenuta la parola “negro” (cfr. Cass., sez. 5, 8.2.2017, n. 13530, rv. 269712; Cass., sez. 5, 28.1.2001, n. 22570, rv. 247495; Cass., sez. 5, 23.9.2008, n. 38591, rv. 242219).

Tale circostanza, in altri termini, e’ configurabile per il solo fatto dell’impiego, come nel caso in esame, di modalita’ di commissione del reato consapevolmente fondate sul disprezzo razziale, vale a dire quando la condotta posta in essere si manifesta come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, di un sentimento connotato dalla volonta’ di escludere condizioni di parita’ per ragioni fondate sulla appartenenza della vittima ad una etnia, razza, nazionalita’ o religione (cfr. Cass., sez. 5, 2.4.2013, n. 30525, rv. 255558; Cass., sez. F. 20.8.2015, n. 38877, rv. 264786).

3. Sulla base delle svolte considerazioni, il ricorso di cui in premessa va rigettato, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali

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