Cassazione 13

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 9 marzo 2016, n. 4635

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Brescia, con sentenza depositata il 29 febbraio 2012, ha confermato la decisione di primo grado, che aveva dichiarato inefficace il licenziamento intimato a E.C. da Poste Italiane s.p.a. per mancato superamento del periodo di prova.
La predetta lavoratrice, già assunta con più contratti a termine dalla predetta società, aveva sottoscritto in data 29 gennaio 2008 un contratto a tempo indeterminato in attuazione dell’accordo sindacale del 13 gennaio 2006, rinunciando ad ogni diritto, credito o pretesa comunque derivanti dai rapporti di lavoro intercorsi con la società.
Il contratto individuale prevedeva un periodo di prova di tre mesi, durante il quale ciascuna delle parti poteva liberamente recedere senza preavviso.
La lavoratrice, dopo aver preso servizio il 4 febbraio 2008, si è assentata per malattia, facendo registrare oltre trenta giorni di assenza, sicché Poste ha proceduto al suo licenziamento per mancato superamento del periodo di prova ai sensi dell’art. 20, comma 3, del contratto collettivo dei dipendenti postali.
La Corte di merito, dopo aver osservato che l’oggetto del contendere era costituito dalla legittimità o meno del patto di prova nel caso di un lavoratore che aveva già prestato servizio altre volte presso lo stesso datore di lavoro in forza di contratti a termine, ha dichiarato illegittimo il patto di prova, ritenendo che esso non era previsto dall’accordo sindacale sopra citato e che Poste aveva già avuto modo di saggiare, nel corso dei rapporti a termine, le capacità professionali della lavoratrice, onde non era necessario un nuovo periodo di prova.
Per la cassazione di questa sentenza propone ricorso Poste sulla base di due motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso la lavoratrice.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2096, 2696, 2727 e 2729 cod. civ., deduce che la Corte di merito non ha considerato che scopo del patto di prova è anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per l’intervento di molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute.
In particolare, nella specie la valutazione del datore di lavoro concerneva i “problemi di salute” della lavoratrice, la quale dopo due mesi e mezzo dall’inizio del rapporto si era assentata dal lavoro, a seguito di un “trauma contusivo distorsivo gionocchio sx” per un periodo superiore a trenta giorni.
Detta assenza costituiva, in base alla contrattazione collettiva, causa idonea alla risoluzione del rapporto per mancato superamento del periodo di prova.
Tale profilo non era stato tenuto presente dalla Corte di merito, la quale si era limitata a considerare la sussistenza dei precedenti rapporti a termine intercorsi tra le parti, senza tener conto della loro breve durata, del tempo decorso tra la data di scadenza dell’ultimo contratto e l’assunzione a tempo indeterminato nonché della effettiva necessità per il datore di lavoro di verificare l’aspetto relativo alle assenze per motivi di salute, situazione questa espressamente prevista dalla contrattazione collettiva, che considerava non superata la prova in caso di eccessiva morbilità.
2. Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2096, 2696, 2727, 2727 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., rileva che la sentenza impugnata ha anche violato le disposizioni in materia di disponibilità e valutazione delle prove.
In particolare, l’inserimento della lavoratrice – come previsto dall’accordo del 13 gennaio 2006 – nella graduatoria da cui attingere i soggetti da assumere a tempo indeterminato, per essere già stati assunti a termine, non costituiva elemento da cui poter desumere che non vi fosse bisogno di una positiva valutazione per i soggetti assunti a tempo indeterminato. Ciò, tanto più che le organizzazioni sindacali non avevano mai sollevato rilievi in ordine all’inserimento della clausola relativa al periodo di prova nei contratti individuali di lavoro.
3. Il ricorso, i cui motivi vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione, non è fondato.
Questa Corte ha più volte affermato (Cass. n. 15960/05; Cass. n. 17767/09; Cass. n. 10440/12; Cass. 15059/15) che la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto, sicché il patto medesimo deve considerarsi invalido ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le specifiche mansioni in virtù di prestazione resa dallo stesso lavoratore, per un congruo lasso di tempo, a favore del medesimo datore di lavoro. Ne consegue che la ripetizione del patto di prova in occasione d’un successivo contratto di lavoro tra le stesse parti è ammissibile solo se essa, in base all’apprezzamento del giudice di merito, risponda alla suddetta causa, permettendo all’imprenditore di verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per l’intervento di molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute.
La valutazione circa l’opportunità e/o necessità della verifica delle qualità professionali e della personalità complessiva del lavoratore, già accertate dal datore di lavoro, costituisce un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato.
Nella specie la Corte di merito ha rilevato che non era necessario verificare le qualità professionali e la personalità complessiva della lavoratrice, atteso che tali qualità erano state accertate da Poste nei precedenti contratti a termine, contratti che costituivano, proprio per il loro numero, titolo preferenziale nella speciale graduatoria in cui la lavoratrice era inserita.
Ha aggiunto che dall’accordo richiamato da Poste non risultava né poteva desumersi che fosse possibile apporre al contratto il patto di prova, onde questo risultava privo di causa, non rispondendo alla sua funzione tipica.
La ricorrente contesta tali affermazioni, osservando che le organizzazioni sindacali non hanno sollevato rilievi in ordine all’inserimento della clausola relativa al periodo di prova nel contratto individuale di lavoro e che dai pregressi contratti a termine stipulati tra le parti non poteva certo presumersi, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che fossero state valutate le qualità professionali e personali della lavoratrice, onde non era necessaria l’apposizione del patto di prova.
Ma, il primo assunto, oltre ad essere irrilevante, è privo di ogni riscontro; il secondo è infondato, avendo la stessa Corte con motivazione congrua e priva di vizi logici e giuridici escluso che fosse necessario un nuovo periodo di prova, avendo Poste Italiane già avuto modo di saggiare le capacità professionali, il comportamento e la personalità del lavoratore.
Una volta dichiarato ab origine nullo il patto di prova, non si può parlare di esito negativo della prova stessa in quanto – appunto – non consentita.
Resta pertanto assorbita la questione circa la ricorrenza delle condizioni che, in base al contratto collettivo, giustificano il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova (assenza per malattia per un periodo superiore a quello previsto da detto contratto).
Il ricorso deve pertanto essere respinto.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ricorrono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Ai sensi all’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

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