Cassazione 3

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 3 novembre 2014, n. 23378

 

Svolgimento del processo

L.N., dipendente della società Metronapoli s.p.a. dal 11912003 con qualifica di operaio e con le mansioni di operatore presso la stazione metropolitana di S.R., veniva licenziato con lettera del 30 ottobre 2007 per giusta causa, individuata nel comportamento descritto nella lettera di contestazione disciplinare del precedente 15 ottobre. Ivi si riferiva che il giorno 11 ottobre 2007 il lavoratore, nel normale orario di lavoro, non presenziava la sua postazione lavorativa presso il banco agenti di stazione, senza avere richiesta la preventiva autorizzazione al DCCIDCO come previsto dal regolamento aziendale per gli agenti di stazione, e veniva sorpreso da una utente nel locale in uso alla ditta di pulizie ubicato al piano banchina in atto sessuale con una donna. Di tale circostanza la cliente aveva sporto denuncia alle forze dell’ordine dalla stessa chiamate ìn loco.

L’impugnativa proposta avverso il licenziamento veniva respinta dal Tribunale di Napoli all’esito della fase cautelare con sentenza del 21/6/2011 e la Corte d’Appello di Napoli con sentenza n. 7890 del 2012 respingeva l’appello proposto dal lavoratore. La Corte disattendeva i motivi di gravame osservando che la realizzata violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, unitamente ad un comportamento manifestamente contrario agli interessi dell’impresa, rendeva irrilevante il rispetto (o meno) della garanzia di affissione del codice disciplinare prevista dall’art. 7 primo comma della L. n. 300 dei 1970; argomentava poi che il provvedimento di recesso era stato sottoscritto dal direttore generale, procuratore generale munito dei relativi poteri, con firma leggibile apposta in calce al provvedimento. Un’eventuale mancanza dei poteri di intimazione avrebbe dovuto peraltro essere fatta valere dalla società, che invece nel caso l’aveva ratificata ai sensi dell’articolo 1399 c.c. con la memoria di costituzione in giudizio. Riteneva poi che l’esito dell’istruttoria svolta avesse confermato la fondatezza dell’addebito, che si era concretato in un allontanamento dalla postazione di lavoro per compiere un atto contrario ai doveri del servizio e con pericolo per la sicurezza. Esso rendeva fondata la sanzione irrogata, considerato anche che le mansioni cui il N. era addetto erano di particolare responsabilità per la gestione della sicurezza dell’impianto della stazione di S.R., essendo egli l’unico agente di stazione, il che rendeva la condotta connotata da particolare gravità. Riteneva poi che le previsioni del RD. n. 148 del 1931, in particolare con riferimento a quelle che individuano le sanzioni disciplinari e la competenza della commissione di disciplina ad irrogare la destituzione dal servizio, dovessero ritenersi superate per effetto della successiva contrattazione collettiva e dell’art. 7 della L. n. 300 del 1970. Né poteva invocarsi il codice etico di Metronapoli, afferendo la fattispecie non a violazioni del codice etico, ma a licenziamento disciplinare derivante dagli artt. 2118 e 2119 c.c.

Per la cassazione della sentenza L.N. ha proposto ricorso, affidato a dodici motivi, cui ha resistito con controricorso s.p.a. Metronapoli, che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

Sintesi dei motivi di ricorso

1. Con i primi sette motivi il ricorrente deduce la violazione di legge e di contratto collettivo, con riferimento agli artt. 66 del C.C.N.L. autoferrotranvieri del 1976 e successive modifiche, all’art. 7 della L. n. 300 del 1970, agli artt. 2119 e 2106 c.c., all’art. 1 della L. n. 604 del 1966, ed addebita alla Corte d’appello di avere erroneamente reinterpretato la contestazione disciplinare, che gli imputava il temporaneo non presenziare nel posto di lavoro senza avere ottenuto il necessario permesso; tale addebito coinciderebbe con la previsione dell’articolo 66 del CCNL, che vi correla la sanzione della multa fino a un massimo di quattro ore retribuzione.

Rileva che l’allontanamento contestato infatti era meramente temporaneo, né vi era prova del fatto che il N. fosse ritornato al lavoro perché chiamato tramite interfono e non per sua spontanea volontà. Aggiunge che il magazzino in cui si sarebbe consumato l’atto sessuale era un locale tecnico non accessibile all’utenza e che pertanto era stata rispettata la regola della riservatezza, che egli era inquadrato nel penultimo gradino del CCNL, che l’agente di stazione non è una guardia giurata né un addetto alla vigilanza pur avendo compiti generici di controllo, che la condotta non aveva determinato conseguenze pregiudizievoli per l’azienda né danno all’immagine, che non si sarebbe dato rilievo all’ assenza di precedenti disciplinari. Tali elementi, per la cui mancata valorizzazione ad opera del giudice di merito deduce anche difetto di motivazione, determinerebbero una diversa valutazione della condotta contestata e della sua gravità.

2. Come ottavo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della L. n. 300 del 1970 e ribadisce che il comportamento sanzionato è contemplato dal contratto collettivo, per cui l’affissione del codice disciplinare si rendeva obbligatoria.

3. Come nono motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 55 del D.lgs. n. 165 del 2001 e fa presente che Metronapoli s.p.a. è una società a totale capitale pubblico, controllata dal Comune di Napoli, sicché avrebbero dovuto applicarsi le disposizioni dettate in materia di pubblico impiego e le correlate garanzie ivi riconosciute ai prestatori di lavoro, tra cui l’ art. 55 quarto comma che prevede che la parte datoriale debba individuare l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari. L’azienda aveva nel caso affidato l’istruttoria all’organismo di vigilanza, ma questo non risultava essere stato interessato dalla vicenda in esame.

4. Come decimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 10 della L. n. 300 del 1970 in quanto il provvedimento di irrogazione della sanzione non reca il nominativo del soggetto che lo ha adottato né la funzione e la qualità da questi ricoperta e lamenta che la sentenza, affermando il contrario, negherebbe circostanze documentalmente evidenti. Sostiene poi che l’unico soggetto che in base al codice etico è legittimato ad adottare il provvedimento di recesso è l’amministratore delegato, in mancanza di una comprovata delega di poteri.

5. Come undicesimo motivo lamenta la violazione del R.D. n. 148 del 1931, recante il “Coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione”, ed in particolare degli arti. 40,41 e 42 in materia di sanzioni disciplinari e dell’art. 54 che prevede che il provvedimenti di destituzione dal servizio per ragioni disciplinari debba essere adottato dal consiglio di disciplina. Contesta la motivazione della Corte che ha ritenuto inapplicabile il RD. citato, facendo presente che non ne è intervenuta alcuna espressa abrogazione.

6. Come dodicesimo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. n. 300 del 1970 e la nullità del procedimento di Licenziamento per violazione del codice etico adottato dalla s.p.a. Metronapoli, ed in particolare delle prescrizioni dell’ art. 1.5, che richiama l’art. 2104 c.c., richiamato nel contratto collettivo, e dell’art. 4.1., intitolato “Rilevazione delle violazioni del codice etico per il personale non dirigente”.

II. Esame dei motivi di ricorso.

1. Esaminando le censure mosse alla sentenza impugnata con i primi sette motivi di ricorso sotto il profilo della violazione di legge e di contratto collettivo, si rileva che il ricorrente, nel ricondurre l’addebito alla fattispecie dell’interruzione temporanea del servizio, trascura elementi che invece sono stati analizzati dalla Corte di merito e che essa ha considerato decisivi, quali la causale (voluttuaria e contraria ai doveri d’ufficio) dell’abbandono del servizio e la natura dei compiti (di vigilanza) assegnati. Tale sottovalutazione appare in contrasto non solo con il contenuto letterale della contestazione quale si legge nella narrativa della sentenza impugnata, che riporta i diversi profili della condotta, ma anche e soprattutto con i principi espressi da questa Corte in tema di individuazione della giusta causa di recesso e del giudizio di proporzionalità fra fatto addebitato e licenziamento, in ragione dei quali tale valutazione va fatta considerando l’addebito nel complesso dei suoi elementi oggettivi e soggettivi (Cass. Sez. L, n. 2013 del 13/02/2012, Sez. L, n. 22798 del 12/12/2012).

Non è quindi consentito valorizzare uno solo degli aspetti della condotta posta in essere al fine di applicare la sanzione prevista dalla norma del contratto collettivo che prevede quell'(unico) aspetto.

2. Sotto il profilo del difetto di motivazione, occorre premettere che al presente giudizio si applica ratione temporis la formulazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introdotta dall’ari. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che prevede come quinto motivo di ricorso per cassazione l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. La disposizione ha modificato la precedente locuzione, che contemplava l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, introdotta dalla riforma del giudizio di Cassazione operata con la legge n. 40 del 2006, che aveva a sua volta sostituito il concetto di “punto decisivo della controversia” con quello di “fatto controverso e decisivo”.

Gli aspetti salienti della riforma consistono in primo luogo nell’eliminazione del riferimento alla motivazione, sicché si è rilevato che l’eventuale carenza o difetto di tale parte della sentenza può avere rilievo solo ove trasmodi in vizio processuale ex art. 360 n. 4) c.p.c.

E’ stato invece mantenuto il riferimento al “fatto controverso e decisivo”, in relazione al quale l’elaborazione sviluppatasi nella giurisprudenza di questa Corte aveva già chiarito che per tale deve intendersi “un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo.” (così, Cass. 29 luglio 2011, n. 16655, conf., Sez. L, Sentenza n. 18368 del 31/07/2013; Cass. (ord.) 5 febbraio 2011, n. 2805).

In coerenza con tali premesse, le Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 8053 del 07/04/2014 hanno enunciato il seguente principio di diritto:

“a) La riformulazione dell’art. 360, n. 5), cod. proc. civ., disposta con l’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», dev’essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 disp. prel. cod. civ., come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

b) Il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 cod. proc. civ. introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

c) L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

d) La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), c.p.c. e 369, secondo comma, n. 4), c.p.c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso”.

La “porta” attraverso la quale la sentenza gravata deve oggi venire valutata sulla base di questo motivo di ricorso è quindi divenuta più “stretta”, potendo la sentenza essere censurata solo quando il decisum non sia sorretto da un percorso logico in relazione ai suoi elementi essenziali e fondanti.

In tal senso, la lacunosità e la contraddittorietà della motivazione possono essere censurate solo quando il vizio sia talmente grave da ridondare in una sostanziale omissione, né può fondare il motivo in questione l’omesso esame di una risultanza probatoria, quando essa attenga ad una circostanza che è stata comunque valutata dal giudice del merito, a meno che l’omissione della sua valutazione non si sia tradotta nell’omesso esame di una circostanza impeditiva di un diverso risultato decisorio.

Nel caso in esame, le circostanze di fatto valorizzate dalla parte ricorrente (la temporaneità dell’allontanamento, l’ubicazione del magazzino, il livello di inquadramento, l’assenza di danni, l’assenza di precedenti disciplinari) sono circostanze che, pur prese in esame dalla Corte, non sono state ritenute significative, considerata la posizione del N. – unico agente presso l’impianto della stazione S.R., con il conseguente dovere di attenzione sotto il profilo della tutela della sicurezza degli utenti – la potenzialità lesiva dell’omissione, il fatto che l’attività cui si stava dedicando è stata effettivamente rilevata da un’utente sicché il magazzino era comunque raggiungibile. Il motivo tende quindi, inammissibilmente, a sollecitare una diversa lettura delle medesime risultanze.

3. Le considerazioni che precedono determinano anche l’infondatezza dell’ottavo motivo di ricorso, considerato che la valutazione complessiva del comportamento addebitato impone di considerare realizzata una violazione dei precetti che derivano dall’obbligo generale di diligenza, senza ricorso alle specifiche previsioni del contratto collettivo.

4. La mancata individuazione dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari ad opera di Metronapoli, che vi sarebbe stata tenuta in quanto ente di diritto pubblico, è una circostanza che non risulta esaminata dalla Corte di merito, né è stata proposta con i motivi del ricorso in appello quali risultano dalla narrativa alle pp. 3 e 4 della narrativa del ricorso, né la parte riferisce di averla sollevata nel giudizio di merito.

Il nono motivo di ricorso è quindi inammissibile per novità della censura. Nel giudizio di cassazione infatti, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formate del processo ed alle questioni di diritto proposte, non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, a meno che si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell’ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti (Cass. Sez. 1, n. 23675 del 18/10/2013, Sez. 1, n. 4787 del 26/03/2012, Sez. 3, n. 3664 del 21/02/2006).

5. Il decimo motivo è parimenti inammissibile, considerato che esso valorizza il contenuto della lettera di intimazione del licenziamento senza riprodurla, né allegarla al ricorso, né indicarne la collocazione negli atti processuali, né riportare il contenuto della regolamentazione che limiterebbe all’amministratore delegato la legittimazione ad adottare le sanzioni disciplinari.

Risultano quindi violate le prescrizioni desumibili dagli arti. 366 c. I n. 6 e 369 c. 2 n. 4 c.p.c. (nel testo che risulta a seguito delle modifiche apportate dal D.l.vo n. 40 del 2006, operante ratione temporis), nell’interpretazione che ne ha in più occasioni ribadito questa Corte, secondo la quale qualora il ricorrente per cassazione si dolga dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice del merito, per rispettare il principio di specificità dei motivi del ricorso – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – ha l’onere di indicare nel ricorso medesimo il contenuto rilevante del documento stesso, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali: ciò allo scopo di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato, senza compiere generali verifiche degli atti ( v. Cass. Sez. L, n. 17168 del 2012, Sez. 6 – 3, Ord. n. 1391 del 23/01/2014, Sez. L, n. 3224 del 12/02/2014).

Non vi è modo quindi nel caso di esaminare la fondatezza e decisività della doglianze al fine di confutare la motivazione della Corte d’Appello, che ha affermato che la lettera di licenziamento è stata fumata dal direttore generale, procuratore generale munito dei relativi poteri, con sottoscrizione perfettamente leggibile in calce al provvedimento.

5. L’undicesimo motivo è inammissibile e ciò preclude l’esame della questione avente ad oggetto la perdurante vigenza delle richiamate disposizioni del R.D. n. 148/1931.

La gravità della violazione complessivamente considerata e la sua proporzionalità alla massima sanzione espulsiva è stata infatti desunta dal Tribunale dalla violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà derivanti direttamente dalla legge, sicché la doglianza in relazione alla mancata applicazione delle previsioni degli artt. 40 ss. del RD. n. 148 del 1931, che contemplano solo alcuni degli aspetti della condotta realizzata, non attiene a profilo del contendere connotato dal requisito della decisività.

Parimenti inammissibile è la denuncia di violazione dell’art. 54 (che riconosce la competenza all’irrogazione delle sanzioni disciplinari più gravi ai consigli di disciplina, costituiti presso ciascuna azienda o ciascuna dipendenza con direzione autonoma e dei quali prevede la composizione e la nomina). Nel caso, infatti, si riferisce a p. 35 che il consiglio di disciplina non sarebbe stato istituito, senza ancorare tuttavia tale conclusione a precise circostanze di fatto emerse nel giudizio di merito. Non risulta quindi ricavabile dal ricorso, così come imposto dal principio di autosufficienza, la denunciata violazione della norma di cui si sostiene l’applicabilità.

7. II dodicesimo motivo infine è infondato.

II ricorrente per censurare [‘affermazione della Corte d’Appello secondo la quale le disposizioni riportate agli artt. 1.5, 4.1. e 4.6. si riferirebbero alle sole violazioni del codice etico, ne riporta il contenuto, la cui interpretazione è stata tuttavia compiuta dalla Corte in coerenza con il contenuto letterale che a tali violazioni fa specifico riferimento. Né osta la circostanza che tali disposizioni integrerebbero la disciplina in materia di sanzioni disciplinari, in quanto ciò è possibile anche affiancando alla normativa una diversa regolamentazione correlata ad ipotesi particolari.

III. Conclusioni.

1. Alle superiori considerazioni segue il rigetto del ricorso e la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

2. Il ricorso è stato notificato il 30.9.2013 e dunque in data successiva a quella (31.1.2013) di entrata in vigore della L. 24 dicembre 2012, n. 228, il cui art. 1, comma 17, ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater, del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma dell’art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso rigettato, deve provvedersi in conformità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, che liquida in £ 3.000,00 per compensi professionali, oltre ad £ 100,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del 1 bis dello stesso art. 13.

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