Cassazione 4

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 21 gennaio 2015, n. 1024

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MACIOCE Luigi – Presidente
Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere
Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 17564/2011 proposto da:
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5554/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 06/07/2010 r.g.n. 8500/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/10/2014 dal Consigliere Dott. GIOVANNI AMOROSO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con ricorso depositato il 25.9.2008 (OMISSIS) proponeva appello avverso la sentenza emessa in data 26.10.2007, con cui il Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro aveva rigettato le sue domande nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze aventi ad oggetto la dichiarazione di illegittimita’ del licenziamento intimatole con ordine al Ministero di reintegrarla nel posto di lavoro e di corrisponderle le retribuzioni globali di fatto dal licenziamento alla reintegra. Contestava la motivazione del primo giudice e chiedeva la riforma della sentenza con l’accoglimento delle proprie domande.
L’appellato Ministero si costituiva, contestando la fondatezza dell’impugnazione e chiedendone quindi il rigetto.
La Corte d’appello di Roma con sentenza del 15 giugno 2010 – 6 luglio 2010 ha rigettato l’impugnazione condannando la parte appellante alle spese di del grado.
2. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione l’originaria ricorrente con due motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso e’ articolato in due motivi.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio nonche’ violazione e falsa applicazione degli articoli 2727 e 2729 c.c.. Evidenzia la ricorrente che le e’ stato contestato non gia’ di aver commesso determinati fatti, ma di essere stata condannata alla pena di un anno e otto mesi di reclusione con sentenza cosiddetta di patteggiamento. Ma la sentenza di patteggiamento non ha efficacia nel giudizio civile e quindi era mancata la prova dei fatti addebitati.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione nonche’ violazione e falsa applicazione degli articoli 2119, 1175, 1375 e 2697 c.c., Il collegio ha omesso di considerare che nulla aveva dedotto il Ministero quanto al momento in cui aveva preso conoscenza della sentenza di patteggiamento del 1998 e non aveva spiegato perche’ aveva atteso fino al 6 novembre 2003 per chiedere notizie quanto alla irrevocabilita’ di tale pronuncia.
2. Il ricorso – i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente – e’ infondato.
3. Con riferimento alla sentenza di applicazione della pena a richiesta, questa Corte (Cass., sez. lav., 30 luglio 2001, n. 10393) ha affermato che la Legge 27 marzo 2001, n. 97, ha riconosciuto efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare alla sentenza penale irrevocabile di condanna ed ha patimenti riconosciuto efficacia di giudicato anche alla sentenza di patteggiamento, avendo modificato le norme (articolo 653 e 445 c.p.p.) che dettano in generale la disciplina degli effetti del giudicato penale nel giudizio disciplinare; tale nuova regolamentazione quindi e’ legittimamente applicabile ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Cio’ vale anche allorche’ sia la contrattazione collettiva a far riferimento alla sentenza penale di condanna. Cfr. Cass., sez. lav., 26 marzo 2008, n. 7866, che ha affermato che, benche’ la sentenza pronunciata a norma dell’articolo 444 c.p.p., che disciplina l’applicazione della pena su richiesta dell’imputato, non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se e’ a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell’ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben puo’ il giudice di merito, nell’interpretare la volonta’ delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che le parti contrattuali, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna”, si stano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. “di patteggiamento” ex articolo 444 c.p.p., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilita’, ma esonera l’accusa dell’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena; e’ altresi’ ben possibile che il licenziamento venga irrogato prima dell’irrevocabilita’ della sentenza di patteggiamento.
Questa scelta del legislatore ha poi superato il vaglio di costituzionalita’.
Gia’ Corte cost. n. 186 del 2004 ha osservato che “con le novita’ introdotte dalla Legge n. 97 del 2001, sia la sentenza penale irrevocabile di condanna, sia la sentenza di applicazione della pena su richiesta sono destinate ad esplicare effetti nel giudizio disciplinare”; si e’ rilevato che, in tal modo, il legislatore ha inteso assicurare “non solo una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed esito del procedimento amministrativo, ma, soprattutto, una linea di maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell’azione amministrativa”.
Successivamente poi Corte cost. n. 336 del 2009 ha dichiarato non fondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 445 c.p.p., comma 1 bis e articolo 653 c.p.p., comma 1 bis, sollevata, in riferimento all’articolo 3 Cost., comma 2, articolo 24 Cost., comma 2 e articolo 111 Cost., comma 2, nella parte in cui, equiparata la sentenza di cui all’articolo 444 stesso codice ad una sentenza di condanna, prevede che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare davanti alle pubbliche autorita’ quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceita’ penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.
Piu’ recentemente Cass., sez. lav., 10 marzo 2010, n. 5806, ha affermato che in tema di effetti del giudicato penale nel giudizio per responsabilita’ disciplinare dei dipendenti pubblici, l’efficacia di giudicato delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti (patteggiamento) deve intendersi limitata all’accertamento dell’insussistenza, allo stato, delle cause di non punibilita’ ovvero di estinzione del reato di cui all’articolo 129 c.p.p., cui e’ sottesa anche l’esistenza di elementi sufficienti a giustificare l’inizio dell’azione penale e non impedisce, nel giudizio civile per responsabilita’ disciplinare, un’istruttoria probatoria che vada al di la’ del limitato accertamento contenuto nella sentenza penale. Ne discende che legittimamente l’Amministrazione puo’ promuovere il procedimento disciplinare contestando al dipendente, nel termine della Legge n. n. 97 del 2001, ex articolo 5, comma 4, la condotta oggetto di imputazione nel giudizio penale conclusosi con sentenza di applicazione della pena a richiesta ed applicare la sanzione disciplinare disattendendo le controdeduzioni difensive del dipendente; tuttavia, l’ambito del giudicato penale non impedisce al dipendente di svolgere, nel giudizio civile vertente sulla responsabilita’ disciplinare, le difese tendenti all’accertamento di elementi di fatto che non contrastino con il giudicato penale.
In conclusione la sentenza di applicazione di pena a richiesta dell’imputato, ed. sentenza di patteggiamento, ha valenza indiziaria in ordine ai fatti addebitati, fermo restando la possibilita’ per il lavoratore di articolare mezzi di prova per contestare i gravi indizi di colpevolezza che sono a fondamento della ed. sentenza di patteggiamento.
La giurisprudenza successiva ha dato continuita’ a questi principi ribadendo la possibilita’ che la sentenza penale di patteggiamento sia posta a fondamento del licenziamento per giusta causa (Cass., sez. lav., 30 gennaio 2013, n. 2168; 18 febbraio 2011, n. 4060).
4. Di tali principi la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione, come anche del principio della immediatezza della contestazione, non pregiudicato dall’intervallo di tempo necessario all’accertamento della condotta del lavoratore. Tale principio non puo’ considerarsi violato dal datore di lavoro il quale, avviate le proprie indagini senza pervenire ad un sicuro accertamento di colpevolezza, abbia scelto ai fini di un corretto accertamento del fatto di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale, e quindi contesti l’addebito solo quando a seguito delle scelte processuali del lavoratore nel procedimento penale, conclusosi con sentenza di applicazione della pena a richiesta dell’imputato, abbia acquisito piena consapevolezza della riferibilita’ dei fatti al dipendente.
Nella specie il Ministero ha avuto conoscenza ufficiale della sentenza solo con la nota della Procura Generale del 13.11.2003, mentre la precedente nota del 6.11.2003 di richiesta alla Procura, pur facendo riferimento nell’oggetto alla sentenza del 5.11.1998, non dimostrava la conoscenza del contenuto della sentenza e, anzi, confermava che il Ministero non era a conoscenza del suo carattere definitivo, e cioe’ del suo passaggio in giudicato. Pertanto la contestazione del 12 gennaio 2004 era intervenuta solo due mesi dopo la conoscenza della definitivita’ dell’accertamento penale e quindi non era tardiva.
La Corte d’appello ha poi ben motivato quanto alla sussistenza della giusta causa del licenziamento, tenendo conto del comportamento della lavoratrice in sede penale ed integrandolo con la mancata specifica contestazione, da parte della stessa dipendente, degli addebiti in sede civile.
5. Il ricorso va quindi rigettato.
Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in euro 100,00 (cento) per esborsi ed in euro 4.000,00 (quattromila) per compensi d’avvocato, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge

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