cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 17 febbraio 2015, n. 3136

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – rel. Presidente

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere

Dott. LORITO Matilde – Consigliere

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3248/2014 proposto da:

(OMISSIS) S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamnete all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in, (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1490/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 28/11/2013 R.G.N. 1622/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/12/2014 dal Consigliere Dott. FEDERICO ROSELLI;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 28 novembre 2013 la Corte d’appello di Milano confermava la decisione del Tribunale, a sua volta confermativa dell’ordinanza di accoglimento del ricorso, proposto da (OMISSIS) ai sensi della Legge 28 giugno 2012, n. 92, articolo 1, comma 48, contro la datrice di lavoro s.p.a. (OMISSIS) ed inteso alla dichiarazione di illegittimita’ del licenziamento intimatogli il 12 giugno 2012 in conseguenza di una sentenza penale, emessa su patteggiamento, di condanna alla reclusione di un anno e undici mesi e ad una multa di 330,00 euro per l’imputazione di usura ed estorsione.

Il licenziamento era fondato sugli articoli 2104 e 2105 c.c., richiamati dall’articolo 52 del c.c.n.l. di categoria.

La Corte osservava che, trattandosi di reato non commesso nell’esercizio delle mansioni lavorative, occorreva valutare la sua idoneita’ ad interrompere il legame fiduciario necessariamente intercorrente tra datore e prestatore di lavoro, con riferimento alle specifiche mansioni affidate al secondo. Nella specie il (OMISSIS), operaio, era addetto ad una macchina di timbratura e smistamento di corrispondenza chiusa ne’ gli era stata mai contestata alcuna condotta illecita in relazione alle sue mansioni. Era poi vero che l’articolo 54 c.c.n.l. prevedeva il licenziamento immediato per condanna penale passata in giudicato e conseguente a fatti non connessi con lo svolgimento del rapporto di lavoro, ma quei fatti dovevano pur sempre essere cosi’ gravi da ledere il detto legame fiduciario, in relazione alla posizione occupata dal reo in azienda.

Contro questa sentenza ricorre per cassazione la s.p.a. (OMISSIS) mentre il (OMISSIS) resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli articoli 156, 158, 159, 161 c.p.c., ossia la nullita’ della sentenza di primo grado emessa da giudice incompetente ossia dallo stesso magistrato che aveva accolto la domanda del lavoratore con l’ordinanza di cui alla Legge n. 92 del 2012, articolo 1, comma 49. Nullita’ che avrebbe dovuto essere rilevata d’ufficio dalla Corte d’appello.

Il motivo e’ inammissibile poiche’ l’asserito vizio della sentenza di primo grado, riconducibile all’articolo 51 c.p.c., n. 4, avrebbe caso mai dovuto essere prevenuto dalla parte interessata con istanza di ricusazione (il nome del giudice dell’opposizione all’ordinanza era conoscibile attraverso il ruolo e l’intestazione del verbale d’udienza) e non comporta comunque nullita’ della sentenza (Cass. 10 settembre 2003 n. 13212, 26 maggio 2003 n. 8197, 22 marzo 2006 n. 6358, 15 giugno 2005 n. 12848).

Il vizio e’ peraltro insussistente.

La fase dell’opposizione ai sensi della Legge n. 92 del 2012, articolo 1, comma 51, non costituisce un grado diverso rispetto alla fase che ha preceduto l’ordinanza: Essa non e’, in altre parole, revisio prioris instantiae ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non piu’ urgente. La Corte costituzionale con sent. n. 326 del 1997 ha dichiarato non fondata la questione avente ad oggetto l’articolo 51 c.p.c., nella parte in cui impone l’obbligo di astensione nella causa di merito al giudice che abbia concesso una misura cautelare ante causarti. Vedi anche Cass. 13 agosto 2001 n. 11070, 12 gennaio 2006 n. 422.

E piu’ recentemente la stessa Corte costituzionale, con ordinanza n. 205 del 2014, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimita’ della Legge n. 92 del 2012. articolo 1, comma 51 e articolo 51 cit., comma 1, n. 4, rilevando “l’improprio tentativo di ottenere, con uso distorto dell’incidente di costituzionalita’, l’avallo dell’interpretazione proposta dal rimettente in ordine ad un contesto normativo che egli pur riconosce suscettibile di duplice lettura”; tanto piu’ che il giudice rimettente riteneva preferibile, e costituzionalmente piu’ compatibile, l’opposta interpretazione, che escludeva il contenuto impugnatorio dell’opposizione all’ordinanza in questione. Detto contenuto impugnatorio e’ stato poi escluso dalle Sezioni unite di questa Corte, che con ordinanza 18 settembre 2014 n. 19674 hanno espressamente definito quella successiva all’opposizione di cui all’articolo 1, comma 51, cit.. Come fase del giudizio di primo grado.

Col secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli articoli 52 e 54 c.c.n.l., articoli 2119 e 2697 c.c., articoli 115 e 116 c.p.c., Legge 20 maggio 1970, n. 300, articolo 7, notando che la sentenza penale di patteggiamento della pena avrebbe dovuto essere equiparata ad una sentenza di condanna e che il reato di estorsione, accertato nei confronti del lavoratore, era di gravita’ tale da interrompere il legame fiduciario con la datrice di lavoro, e percio’ da giustificare il licenziamento.

Il motivo e’ improcedibile nella parte in cui invoca clausole del contratto collettivo nazionale, non depositato ai sensi dell’articolo 369 cpv. c.p.c.. Esso e’ inammissibile nella parte in cui parifica la sentenza penale di condanna su patteggiamento al giudicato di condanna, giacche’ la parificazione, per quanto qui interessa, non e’ stata negata dalla Corte d’appello.

Esso e’ invece fondato in relazione al parametro normativo dell’articolo 2119 c.c..

Anche una condotta illecita estranea all’esercizio delle mansioni del lavoratore subordinato puo’ avere rilievo disciplinare poiche’ egli e’ assoggettato non solo all’obbligo di rendere la prestazione bensi’ anche agli obblighi accessori di comportamento extralavorativo tale da non ledere ne’ gli interessi morali o patrimoniali del datore ne’ la fiducia che, in diversa misura e in diversi modi, lega le parti di un rapporto di durata.

Detta condotta indisciplinata comporta la sanzione espulsiva soltanto se presenti caratteri di gravita’ che debbono essere apprezzati, tra l’altro, in relazione alla natura dell’attivita’ svolta dall’impresa datrice di lavoro, attivita’ in cui s’inserisce la prestazione resa dal lavoratore subordinato. Comportamenti illeciti di questo, che possono essere considerati non di gravita’ tale da giustificare l’espulsione da un’azienda svolgente un’attivita’ puramente privatistica, possono al contrario rompere il legame fiduciario ed il connesso requisito di affidabilita’ che sta alla base di un rapporto di lavoro costituito per l’espletamento di un servizio pubblico, ancorche’ in regime giuridico privatistico.

E’ infatti noto che l’attivita’, dello Stato o degli enti pubblici, intesa a soddisfare pubblici interessi, assenti nei fini dei medesimi soggetti pubblici, puo’ essere svolta attraverso attivita’ costituenti diretta manifestazione dell’autorita’ degli stessi soggetti ossia come attivita’ della pubblica amministrazione, che si trova in posizione di supremazia nell’interesse generale della collettivita’, oppure attraverso un’attivita’ privatistica, caratterizzata dalla posizione di parita’ del soggetto che opera per la soddisfazione dell’interesse pubblico e soggetti collaboratori ovvero fruitori del servizio. Quest’attivita’ privatistica puo’ essere svolta, come avviene spesso e in particolare per il servizio postale, mediante la costituzione di societa’ con capitale prevalentemente o totalmente pubblico.

La natura privatistica di questi soggetti societari spiega perche’ essi debbano operare in regime di concorrenza oppure perche’ siano assoggettati al comune regime della contribuzione previdenziale (Cass. 10 dicembre 2013 n. 27513) o delle garanzie legislative a tutela dei lavoratori contro situazioni di precariato (Cass. 18 ottobre 2013 n. 23702).

Tuttavia l’impegno di capitale pubblico e la pubblicita’ del fine perseguito, che sottomettono l’attivita’ svolta ai principi di imparzialita’ e di buon andamento di cui agli articoli 3 e 97 Cost., non e’ senza riflesso nei doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, che debbono assicurare affidabilita’, nei confronti del datore di lavoro e dell’utenza, anche nella condotta extralavorativa.

Erroneamente percio’ il giudice d’appello ha ritenuto che la pena per usura ed estorsione non ostasse al proseguimento del rapporto di lavoro dell’l’agente postale.

Cassata la sentenza impugnata, la non necessita’ di nuovi accertamenti o apprezzamenti di fatto permettono di decidere nel merito col rigetto della domanda originaria.

Le spese possno essere compensate in considerazione dell’incertezza iniziale della lite, incertezza che quasi sempre si connette all’interpretazione-applicazione di una clausola generale come quella di giustificato motivo di licenziamento e che qui spiega l’alterno esito dei gradi di merito.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Spese compensate per l’intero processo.

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