Palazzo-Spada

CONSIGLIO DI STATO

ADUNANZA PLENARIA

ORDINANZA 4 marzo 2015, n. 2

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 22 di A.P. del 2014, proposto da:

Stefania Staibano, Caterina Andrianou, Daniela Palmieri, Maria Erennia Vitullo, Rosa Imperatore, Federico Toni, Tullio Cafiero, Antonio Formato, Silvana Lombardi, Paola Nappa, Donata Martellotta, Maurizio Lo Presti, Fausta Micanti, Daniela Mattera, Amedeo Loffredo, rappresentati e difesi dall’avv. Riccardo Marone, con domicilio eletto presso Luigi Studio Napolitano in Roma, Via Sicilia 50; Michele Mottola, Maria Angela Losi, Pasquale Abete, Amalia De Renzo, Franco Fulciniti, Antonio Fusco, Mario Monaco, rappresentati e difesi dagli avv. Raffaella Veniero, Riccardo Marone, con domicilio eletto presso Luigi Studio Napolitano in Roma, Via Sicilia 50;

contro

Università degli Studi di Napoli Federico II, rappresentato e difeso dall’avv. Angelo Abignente, con domicilio eletto presso Angelo Abignente in Roma, piazza Cairoli, 2;
Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli;
Inps Gestione ex Inpdap, rappresentato e difeso dagli avv. Dario Marinuzzi, Maria Morrone, con domicilio eletto presso Dario Marinuzzi in Roma, Via Cesare Beccaria, 29;

per la revocazione

della sentenza del CONSIGLIO DI STATO – ADUNANZA PLENARIA n. 00004/2007, resa tra le parti, concernente riconoscimento rapporto di pubblico impiego.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Università degli Studi di Napoli Federico II e di Inps Gestione ex Inpdap;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2015 il Cons. Nicola Russo e uditi per le parti gli avvocati Marone Riccardo, Veniero Raffaella, Abignente Angelo, e Marinuzzi Dario;

Ritenuto in fatto:

Con ricorso proposto davanti a questo Consiglio di Stato i ricorrenti, meglio indicati in epigrafe, chiedono la revocazione della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 22 febbraio 2007.

I ricorrenti hanno svolto dal 1983 al 1997 funzioni assistenziali presso il Policlinico dell’Università degli Studi di Napoli Federico II sulla base di contratti a termine aventi ad oggetto l’esplicazione di attività professionale remunerata a gettone. Successivamente, i detti sanitari venivano assunti a tempo indeterminato dallo stesso Policlinico con inquadramento nella categoria del personale non docente di “elevata professionalità”.

Con ricorsi proposto davanti al Tar Campania nel 2004 i ricorrenti – rifacendosi ad una giurisprudenza consolidata sul punto e avente ad oggetto casi analoghi – chiedevano il riconoscimento ab origine dell’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente con l’Università affermando che la qualificazione di “attività professionale” attribuita ai compiti espletati dissimulava un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato. Si chiedeva quindi il riconoscimento del diritto al versamento dei relativi contributi previdenziali.

Il Tar campano accoglieva in parte il ricorso rilevando che i medici gettonati, per i caratteri dell’attività che avevano espletato andassero assimilati ai “ricercatori universitari” non ponendosi quindi problemi in ordine alla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo.

Diversamente, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, pronunciandosi in sede di appello con la sent. n. 4/2007, riteneva applicabile alla controversia l’art. 45, co. 17 del D.lgs n. 80 del 1998 (poi confluito nell’attuale art. 69, co. 7. del T.U. n. 165 del 2001) il quale disponeva per le liti relative al pubblico impiego “privatizzato” che “le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”. Pertanto, la disposizione legislativa attribuiva alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative al periodo in cui il rapporto aveva ancora carattere pubblicistico (i.e. fino al 30 giugno 1998) subordinando l’esperimento di tale contenzioso al termine decadenziale del 15 settembre 2000.

Nulla espressamente prevede detta norma circa la sorte delle controversie proposte successivamente a tale data.

Ed invero, alle origini la giurisprudenza aveva ritenuto che la disposizione fosse rivolta a fissare la giurisdizione del giudice ordinario per i ricorsi proposti dopo la data del 15 settembre 2015. Tuttavia, successivamente è prevalso, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ed in quella amministrativa, il diverso orientamento che ricollegava alla scadenza di tale termine la radicale perdita del diritto a far valere, in ogni sede, ogni tipo di contenzioso. Anche la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della nuove disposizioni così interpretate, aveva avallato tale orientamento ritenuto coerente con le esigenze organizzative connesse al trapasso da una giurisdizione all’altra (Cort cost. Ordd. nn. 214/2004; 213/2005; 382/2005; 197/2006).

L’Ad. Plen. n. 4/2004 cit. si uniformava a tale ultimo indirizzo e, nel caso di specie, pronunciava l’inammissibilità per tardività di tutti i ricorsi originariamente proposti in primo grado dopo il 15 settembre 2000 annullando le sentenze del Tar. Per il solo ricorrente che invece aveva proposto il proprio ricorso anteriormente alla detta data, l’Adunanza Plenaria riconosceva sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo e confermava anche nel merito la sentenza del Tar campano.

Alcuni dei ricorrenti soccombenti nel giudizio di appello definito con la detta Ad. Plen. n. 4/2004 ricorrevano alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. I giudici europei, con due sentenze del 4 febbraio 2014 (Staibano c. Italia e Mottola c. Italia) divenute definitive il 4 maggio 2014, riconoscevano sussistere una violazione degli obblighi convenzionali commessa dallo Stato italiano.

In sintesi, la Corte di Strasburgo rilevava una duplice violazione dei diritti dei ricorrenti. In primo luogo, veniva accertata la violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione relativamente al diritto di accesso ad un tribunale. Affermava la Corte che, seppur il diritto di accesso ad un tribunale non sia assoluto, potendo in astratto risultare condizionato o limitato, nel caso di specie il diritto di accesso a un tribunale era risultato leso nella sua sostanza.

In secondo luogo, la Corte di Strasburgo rilevava una violazione dell’art 1 del protocollo n. 1 della Convenzione. I giudici europei ritenevano i ricorrenti titolari di un “bene”, ai sensi dell’art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione, avendo il diritto di credito dei ricorrenti una base sufficiente nel diritto interno, in quanto confermato da consolidata giurisprudenza; gli stessi erano pertanto titolari di un’aspettativa legittima al versamento dei contributi al pari dei loro colleghi. “La corte considera – si legge nella sentenza – che lo Stato non abbia garantito un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco, e che la decisione del Consiglio di Stato ha svuotato di ogni sostanza l’aspettativa legittima dei ricorrenti. Gli interessati hanno dovuto dunque sopportare un onere eccessivo ed esorbitante” ed “il Consiglio di Stato ha, de facto, privato i ricorrenti di ogni possibilità di far valere il proprio diritto di credito relativo al trattamento pensionistico”.

Relativamente invece alla domanda di “equa soddisfazione” formulata dai ricorrenti ai sensi dell’art. 41 della Carta CEDU, la Corte europea non si è pronunciata, ritenendo “che allo stato attuale non vi sia luogo per decidere sull’applicazione dell’art. 41. Di conseguenza, si riserva la decisione e fisserà l’ulteriore procedimento tenuto conto della possibilità che il Governo e i ricorrenti addivengano ad un accordo”.

Alla luce delle dette sentenze della corte di Strasburgo, gli odierni ricorrenti – soccombenti nel giudizio di appello definitosi con sent. Ad. Plen. n. 4/2007 e alcuni dei quali parti del giudizio instauratosi davanti la corte di Strasburgo – si rivolgono ora a questo Consiglio di Stato chiedendo la revocazione della sentenza n. 4/2007 cit.

6.1 Con riguardo all’ammissibilità del ricorso per revocazione, i ricorrenti chiedono che questo Collegio dia un’interpretazione costituzionalmente orientata di detta disposizione e degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c.

I ricorrenti richiamano al riguardo la sentenza della Corte cost. n. 113 del 7 aprile 2011 che in materia penale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. “nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza penale o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti dell’uomo”.

I ricorrenti ritengono pertanto che, analogamente a quanto previsto nella disciplina del processo penale a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale del 2011, anche nel processo amministrativo debba ammettersi la revocazione della sentenza passata in giudicato e che ciò discenderebbe da una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c.

In via subordinata, i ricorrenti chiedono che si sollevi questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 c.p.a e degli artt. 395 e 396 c.p.c. per violazione degli artt. 111 e 117, co. 1 Cost.

6.2 Nel merito del ricorso per revocazione, i ricorrenti chiedono al Consiglio di Stato di “prendere atto della sentenza della Corte europea per i diritti umani e da essa trarre tutte le conseguenze che, nell’ordinamento italiano, ne derivano ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost come interpretato dalla Corte costituzionale. Si chiede, pertanto, in conformità al sistema di tutela dei diritti convenzionali previsto come interpretato dalla Corte europea, che i ricorrenti vengano rimessi nei termini di legge e che a loro venga applicato l’art. 45, co. 17 del decreto legislativo n. 80 del 1998, oggi art. 69 co. 7 del T.U. n. 165/2001, nella sola interpretazione resa possibile dalla sentenza della corte europea, e cioè nel senso della perdurante giurisdizione amministrativa, delle controversie riguardanti vicende del pubblico impiego, precedenti la traslazione della giurisdizione”.

Pertanto, i ricorrenti chiedono che il giudice amministrativo dia “una diretta applicazione al giudicato della corte europea” senza passare per il controllo di costituzionalità (sul punto i ricorrenti richiamano il precedente Corte Cass. SS.UU. 19 luglio 2002 n. 10542) della norma ora contenuta nel d.lgs n. 165/2001.

In via subordinata, chiedono i ricorrenti che questo Collegio sollevi questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all’art. 69 co. 7 del T.U. n. 165/2001 per contrasto con gli artt. 11 e 117 1. co. Cost.

6.3. Così riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo, i ricorrenti insistono affinché il rapporto professionale da loro instaurato con l’Università dal 1983 al 1997 venga dichiarato nullo ex art. 2126 c.c. per violazione dei principi generali in tema di assunzione dei pubblici dipendenti determinando il sorgere del diritto al pagamento di tutte le differenze retributive e previdenziali.

Concludono i ricorrenti chiedendo la revocazione della sentenza n. 4/2007 e, nel merito, il rigetto degli appelli allora proposti dalle Amministrazioni e la conferma delle sentenze del Tar campano che aveva condannato le Amministrazioni convenute al pagamento della contribuzione previdenziale e dell’indennità di fine rapporto.

Si è costituito in giudizio l’INPS.

L’Istituto ritiene inammissibile il ricorso per revocazione in quanto non rientra in alcuno dei casi contemplati dall’art. 106 c.p.a., sostenendo che il giudicato interno non possa essere travolto da una pronuncia della Corte di Strasburgo. Con riferimento alla presunta illegittimità costituzionale dell’art. 69 co. 7 del d.lgs. n. 165/2001, ritiene l’INPS che la stessa è inammissibile in quanto “andava sollevata nel giudizio amministrativo di merito” e che comunque sulla legittimità costituzionale della disposizione la Consulta si è più volte espressa.

Si è costituita in giudizio l’Università degli studi di Napoli Federico II. L’Università sostiene l’inammissibilità del ricorso per revocazione in quanto non ricorrerebbero i presupposti ex art. 106 c.p.a. Con riferimento alla presunta illegittimità costituzionale di detto articolo, l’Ente ritiene la questione di costituzionalità inammissibile ed infondata in quanto non supererebbe il vaglio della rilevanza, dal momento che “la riapertura del processo non consentirebbe all’Adunanza Plenaria di entrare nel merito del giudizio reinterpretando il disposto dell’art. 69 D.lgs. n. 165/2001” e, inoltre, “non essendovi stato né essendo in alcun modo sollecitato un intervento del legislatore in tema di revocazione delle sentenze del giudice ordinario e/o amministrativo all’esito della richiamata pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte costituzionale, conformandosi ai suoi precedenti interventi, non potrebbe che limitarsi a siffatto sollecito, astenendosi da qualsiasi intervento additivo”.

Nel merito del ricorso, l’Università ritiene che il Consiglio di Stato non possa autonomamente disapplicare l’art. 69 co. 7 del d.lgs 165/2001 qualora ritenuto in contrasto con la Convenzione (si richiamano sul punto Corte cost. n. 348 e 349 del 2007). Circa la possibilità che questo Collegio sollevi questione di legittimità costituzionale della norma, l’Ente ribadisce come la Corte costituzionale si sia già espressa su tale questione e che, comunque, gli artt. 97, 11 e 25 Cost ostacolerebbero alla riscrittura della disposizione così come chiesta dalla Corte sovranazionale. Infine, l’Università ritiene nel merito infondata la pretesa dei ricorrenti, non avendo gli stessi dimostrato la sussistenza dei presupposti necessari affinché possa riconoscersi la loro prestazione come assimilabile ad un rapporto di pubblico impiego.

Alla pubblica udienza del 28 gennaio 2015, in prossimità della quale le parti hanno depositato memorie a sostegno delle proprie argomentazioni e richieste, la causa è stata trattenuta in decisione.

Considerato in diritto:

Deve in primo luogo esaminarsi l’ammissibilità del ricorso per revocazione proposto. Sul punto, il Collegio ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 106 c.p.a. e gli artt. 395 e 396 c.p.c.

Si deve anzitutto chiarire che questo Consiglio di Stato, così come ogni giudice comune, non può autonomamente disapplicare la norma interna che ritenga incompatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, analogamente a quanto previsto per il diritto dell’Unione Europea (a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia Simmenthal del 1978 e della Corte Cost. n. 170/1984).

Infatti, nonostante taluni orientamenti giurisprudenziali e dottrinari di segno contrario, il giudice delle leggi ha più volte chiarito come sulle norme interne contrastanti con le norme pattizie internazionali, ivi compresa la CEDU, spetti esclusivamente alla stessa Corte costituzionale il sindacato di costituzionalità accentrato (cfr. Corte cost., 348 e 349 del 2007; n. 39/2008; nn. 311 e 317 del 2009; nn. 138 e 187 del 2010; nn. 1, 80, 113, 236, 303, del 2011).

Le norme della CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono rilevanza nell’ordinamento italiano quali norme interposte. Alla CEDU è riconosciuta un’efficacia intermedia tra legge e Costituzione, volta ad integrare il parametro di cui all’art. 117 co.1 Cost. che vincola i legislatori nazionali, statale e regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali assunti dallo Stato.

Tale posizione non muta anche a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che all’art. 6 prevede una adesione dell’Unione Europea alla Convenzione CEDU. Anche tale innovazione non ha “comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la concezione delle norme interposte” (Corte cost. n. 80/2011).

Di conseguenza, qualsiasi giudice, allorché si trovi a decidere di un contrasto tra la CEDU e una norma di legge interna, sarà tenuto a sollevare un’apposita questione di legittimità costituzionale.

Rimane salva l’interpretazione “conforme alla convenzione”, e quindi conforme agli impegni internazionali assunti dall’Italia, delle norme interne. Tale interpretazione, anzi, si rende doverosa per il giudice che, prima di sollevare un’eventuale questione di legittimità, è tenuto ad interpretare la disposizione nazionale in modo conforme a costituzione (ex multis, Corte cost., 24 luglio 2009, n. 239, punto 3 del considerato in diritto).

Nel caso ora in esame, risulta esservi una tensione tra le norme interne che disciplinano la revocazione della sentenza amministrativa passata in giudicato e l’obbligo assunto dall’Italia di conformarsi alle decisioni della Corte di Strasburgo (art. 46 CEDU).

Infatti, allorché, come nel caso di specie, i giudici europei abbiano accertato con sentenza definitiva una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, sorge per lo Stato l’obbligo di riparare tale violazione adottando le misure generali e/o individuali necessarie. La finalità di tali misure è quella della “restitutio in integrum” in favore dell’interessato, ossia porre il ricorrente in una situazione analoga a quella in cui si troverebbe qualora la violazione non vi fosse stata (cfr. Corte cost. 113/2011 e la giurisprudenza CEDU ivi richiamata).

Nel caso in cui, la violazione commessa dallo Stato sorga proprio a causa della sentenza passata in giudicato, anche in questo caso non viene meno l’obbligo per lo Stato, complessivamente considerato, di conformarsi alla sentenze di Strasburgo. Sul punto, la Corte europea e gli organi del Consiglio d’Europa hanno peraltro progressivamente individuato la “riapertura” del processo quale soluzione maggiormente idonea a garantire la restitutio in integrum a favore delle vittime delle violazioni non altrimenti rimediabili (cfr. Raccomandazione R(2000)2 del 19 gennaio 20000 del Comitato dei Ministri). In questi casi, la rimozione del giudicato formatosi risulta indispensabile per rimuovere la violazione dei diritti commessa dallo stato-giudice nel corso del processo.

Tale obbligo di riapertura dei processi iniqui è stato con maggior forza affermato dalle istituzioni del Consiglio d’Europa con riferimento ai processi penali, dove chiaramente i valori in gioco, in primis quello della libertà personale, rendono del tutto intollerabile il perdurare di violazioni di diritti fondamentali degli imputati e/o dei condannati accertate in via definitiva dalla corte sovranazionale. Ciò ha portato molti Stati aderenti alla Convenzione a prevedere la possibilità di riapertura dei processi attraverso norme legislative o interventi giurisprudenziali.

Anche l’Italia si è posta in tale solco culminato con la sentenza della Corte cost. n. 113/2011 che con sentenza additiva ha previsto la possibilità di revisione del processo penale ex art. 630 c.p.p. qualora ciò si renda necessario per conformarsi ad una sentenza definitiva della corte europea dei diritti umani.

Questo Collegio ritiene che un contrasto tra le norme processuali interne e l’obbligo gravante sullo Stato di conformarsi alle sentenze CEDU possa sussistere anche nel caso di specie in cui è in discussione l’ammissibilità del ricorso per la revocazione di una sentenza del giudice amministrativo.

Infatti, le raccomandazioni del Consiglio d’Europa circa la riapertura dei processi, seppur dedicano particolare enfasi al processo penale, non escludono dall’ambito della raccomandazione stessa i processi civili o amministrativi. Gli stati, infatti, sono incoraggiati a “riaprire” i processi nel caso in cui ricorrano due condizioni: a) la parte lesa continui a soffrire serie conseguenze negative a causa della sentenza nazionale le quali non possono essere adeguatamente rimediate attraverso la “just satisfaction” accordata dalla Corte europea ex art 41 CEDU e non possono essere rimosse se non attraverso una riapertura del processo stesso; b) la Corte CEDU abbia riconosciuto la sentenza domestica quale fonte di una violazione degli obblighi convenzionali per ragioni sostanziali o procedurali (par. II, Raccomandazione R(2000)2 del 19 gennaio 20000 del Comitato dei Ministri).

Nel caso di specie, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la sentenza passata in giudicato di questa Adunanza Plenaria n. 4/2004 fosse fonte, come sopra evidenziato, di una duplice violazione dei diritti convenzionali, segnatamente del diritto di accesso ad un Tribunale (art. 6 CEDU) e del diritto alla proprietà (art. 1 Prot. n. 1 CEDU) che veniva in rilievo con riferimento alle prestazioni previdenziali che i ricorrenti assumono essere loro spettanti.

Qualora non fosse ammissibile la revocazione del giudicato, l’ordinamento italiano non fornirebbe ai ricorrenti alcuna possibilità per veder rimediata la violazione dei diritti fondamentali dagli stessi subita.

In particolare, i ricorrenti si vedrebbero definitivamente negato il diritto di azionabilità delle proprie posizioni soggettive che all’epoca tentarono di far valere davanti al giudice amministrativo. Infatti, nel 2004 i ricorrenti si rivolsero al Tar per veder riconosciuti diritti pensionistici che assumevano essere stati lesi e quella vicenda processuale si concluse in grado di appello con la sentenza dell’Adunanza Plenaria che riteneva il ricorso originariamente proposto inammissibile in quanto proposto oltre il termine fissato dal legislatore con l’art. 45 co. 17 del d.lgs n. 80/1998, ora trasfuso in formulazione quasi identica nell’art. 69, co.7 del D.lgs. n. 165/2001, e che la Plenaria interpretava quale termine di decadenza la cui scadenza comportava la radicale perdita del diritto a far valere, in qualsiasi sede, il contenzioso. Sul punto, la Corte di Strasburgo, pur precisando che il diritto di accesso ad un tribunale non è assoluto, ma può essere di volta in volta limitato o condizionato, ha ritenuto che, nel caso di specie, il diritto di accesso ad un tribunale sia stato leso nella sua sostanza essendovi dunque stata una violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione.

Qualora non fosse rimovibile il giudicato, i ricorrenti si vedrebbero definitivamente privati della possibilità di accedere ad un tribunale e, quindi, della possibilità di far valere i diritti pensionistici che assumono essere loro spettanti. Peraltro, sul punto la Corte europea ha rilevato una violazione dell’art. 1 del prot. 1 della Convenzione, ritenendo che i ricorrenti fossero titolari di un “bene” in quanto il diritto di credito vantato dagli stessi aveva una base sufficiente nel diritto interno. Con la sentenza n. 4/2014, il Consiglio di Stato, afferma la Corte europea, ha privato i ricorrenti di ogni possibilità di far valere il loro diritto relativo al trattamento pensionistico, creando così un’ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della proprietà tale da configurare una violazione dei diritti convenzionali.

Peraltro, incidentalmente si evidenzia che, sebbene la Corte costituzionale abbia in più occasioni dichiarato inammissibili questioni di legittimità costituzionale della norma attualmente contenuta al detto art. 69, co.7 del D.lgs. n. 165/2001, mai è stata fino ad oggi sottoposta all’attenzione del giudice delle leggi la questione relativa alla costituzionalità di detta norma con riferimento all’art. 117 co. 1 Cost. e alle norme interposte fornite dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Anche davanti al giudice amministrativo, così come a quello civile, viene in rilievo la tutela di diritti fondamentali che, in caso di vizi processuali o sostanziali, possono essere compressi o limitati in modo da non risultare tollerabile per uno stato di diritto e generare una responsabilità dello Stato per violazione degli obblighi convenzionali assunti. Qualora la Corte CEDU accerti che una tale violazione vi è stata, possono darsi casi in cui la rimozione del giudicato si appalesi quale unico mezzo utile per rimuovere le perduranti violazioni di diritti fondamentali, analogamente a quanto si è riconosciuto nell’ambito del processo penale.

Infatti, molti Stati aderenti alla Convenzione hanno previsto la possibilità di riaprire i processi non solo in ambito penale ma anche civile ed amministrativo (ad es. in Germania è stata di recente introdotta al riguardo un’apposita disposizione all’art. 580 del Zivilprozessordnung).

Ritiene, pertanto, questo Collegio che le norme processuali nazionali che disciplinano i casi di revocazione delle sentenze del giudice amministrativo – i.e. l’art. 106 c.p.a. e, in quanto richiamato dallo stesso, gli artt. 395 e 396 c.p.c. – si pongano in tensione con il vincolo per il legislatore statale di rispetto degli obblighi internazionali sancito dall’art. 117 co. 1 Cost. e che, nel caso di specie, viene in rilievo con riferimento all’impegno assunto dallo Stato – con la legge di ratifica ed esecuzione 4 agosto 1955, n. 848 – di conformarsi alle sentenze della Corte di Strasburgo. Infatti, non contemplando tra i casi di revocazione quella che si renda necessaria per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, le norme processuali appaiono in contrasto con l’art 46 CEDU che, invece, sancisce tale obbligo per gli Stati aderenti.

Altresì, l’assenza nell’ordinamento italiano di un apposito rimedio volto a “riaprire” il processo giudicato “iniquo” dalla Corte europea sembra potersi porre in contrasto con i principi sanciti dall’art. 111 Cost. e (ritiene di dover aggiungere questo Collegio, in aggiunta alle prospettazioni di parte ricorrente) con l’art. 24 Cost. Infatti, le garanzie di azionabilità delle posizioni soggettive e di equo processo previste dalla nostra Costituzione non sono inferiori a quelle espresse dalla CEDU e può argomentarsi un contrasto tra le dette norme costituzionali e le previsioni legislative che non consentono la revocazione del giudicato di cui è stata accertata in sede CEDU l’ “ingiustizia” per violazione di un diritto fondamentale come quello di accesso ad un Tribunale.

Come sopra detto, questo Collegio non può autonomamente disapplicare le norme interne incompatibili con la Convenzione europea. Altresì non si ritiene che nel caso di specie il contrasto tra le norme processali interne e quelle convenzionali possa essere risolto tramite un’”interpretazione adeguatrice”. Basti dire che i casi di revocazione delle sentenze amministrative ammessi dal nostro ordinamento sono tassativamente elencati dal combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. Un’interpretazione volta ad ammettere un ulteriore caso di revocazione quale quello di cui qui si discute non è configurabile alla stregua di alcun canone ermeneutico e comporterebbe un intervento oltremodo creativo del giudice tale da usurpare il ruolo spettante al Legislatore o al Giudice delle leggi.

Ritiene, dunque, il Collegio di dover sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 117 co.1, 111 e 24 Cost nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46 par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.

La questione è rilevante nel presente giudizio in quanto dalla soluzione della stessa dipende l’ammissibilità del ricorso per revocazione proposto.

La rilevanza della questione non viene meno alla luce del fatto che la Corte Costituzionale già ha avuto modo di dichiarare in più occasioni la non fondatezza di questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la disposizione contenuta attualmente all’art. 69, co. 7 del D.lgs. n. 165/2001. Infatti, la questione attinente all’interpretazione ed alla legittimità costituzionale di detta norma riguarda una eventuale fase successiva dell’iter logico di decisione che deve seguire questo Collegio. Una volta che verrà eventualmente ritenuto ammissibile il ricorso per revocazione proposto nella fase rescindente, si dovranno valutare, nella fase rescissoria, se, nel merito, vi siano i presupposti per la revocazione della sentenza n. 4/2007 di questa Adunanza Plenaria.

Per quanto sopra detto, inoltre, la questione non appare manifestamente infondata.

In conclusione, il presente giudizio deve essere sospeso e gli atti vanno trasmessi alla Corte Costituzionale.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe,

visti gli artt. 134 Cost., art. 1 della l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art 23 della l. 111 marzo 1953 n. 87,

dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli artt. 106 del Codice del processo amministrativo (L. n. 104/2010) e 395 e 396 del Codice processuale civile, in relazione agli artt. 117 co.1, 111 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Dispone la sospensione del presente giudizio e ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

Ordina che a cura della Segreteria dell’Adunanza Plenaria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *