Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 16 marzo 2016, n. 5230

Fatto

Con sentenza depositata il 1°.10.2012, la Corte d’appello di Milano confermava la statuizione di primo grado che aveva rigettato l`impugnativa proposta da R.P. contro il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla s.r.l. S.S.C. nonché la sua domanda risarcitoria per asserita condotta vessatoria del datore di lavoro.
La Corte di merito, in particolare, rilevava che i fatti oggetto della contestazione disciplinare (e concernenti il rinvenimento nei giorni 8 e 9 settembre 2008 di prodotti alimentari scaduti appartenenti al reparto liquidi di cui era responsabile il ricorrente) dovevano ritenersi provati nella loro materialità e che il ricorrente, pur debitamente formato mediante affiancamento di colleghi più esperti, aveva colpevolmente violato le procedure aziendali predisposte per il monitoraggio dei prodotti posti in vendita; concludeva quindi per la congruità della sanzione espulsiva irrogatagli, che motivava sia in relazione al grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnategli che alla luce di due precedenti disciplinari specifici, e rigettava altresì la domanda di risarcimento del danno per mobbing, non essendo stato provato l’intento persecutoria dei comportamenti lamentati dal ricorrente ai suoi danni e comunque per non essere rinvenibile nella specie quella sequenza di atti vessatori così ripetuti da diventare sistematici, che costituisce caratteristica della condotta di mobbing.
Per la cassazione di questa pronuncia ricorre il lavoratore con ricorso affidato a tre motivi.

Resiste la Diritto

Con il primo motivo, il ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2697 e 2712 c.c., ed altresì degli artt. 2119, 2104, 2106, 1375 e 1175, 1218 e 1455 c.c., nonché del decreto legislativo n. 181/2003, per avere la Corte di merito ritenuto raggiunta la prova del fatto contestatogli e posto a base del recesso (vale a dire, il plurimo rinvenimento di bibite scadute sui banchi di esposizione e nella riserva dell’ipermercato presso cui lavorava quale responsabile di capo reparto liquidi), nonché della sua imputabilità e della sua qualificabilità in termini di grave inadempimento.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2697 e 2712 c.c., ed altresi degli artt. 2119, 2104, 2106, 1375 e 1175 e 1218 c.c., nonché del regolamento CE n. 852/2004 e del decreto legislativo n. 193/2007, per avere la Corte di merito ritenuto che egli fosse stato adeguatamente formato in materia igienico-sanitaria e per aver addebitato a suo carico l’assenza ad un corso di formazione in occasione del quale egli risultava assente per malattia.
Entrambi i motivi sono inammissibili. Questa Corte ha invero chiarito che il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianze, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sé, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, a condizione però che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi (Cass. S.U. n. 9100 del 2015).
Nel caso di specie, viceversa, il ricorrente ha prospettato in entrambi i motivi una pluralità di questioni relative alla valutazione delle prove da parte del giudice di merito, alla ripartizione dell’onere della prova e alla qualificazione dei fatti sotto il loro profilo oggettivo e soggettivo, precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate (pressoché le stesse in entrambi i motivi) e dalla deduzione del vizio di motivazione (peraltro inammissibilmente formulato con riferimento al testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c. vigente anteriormente alla modifica apportata dall’art. 54, d.l. n. 83/2012, cony. con I. n. 13412012), con la conseguenza che la compiuta formulazione del motivo in ordine alle singole questioni richiederebbe un inammissibile intervento integrativo di questa Corte, con l’individuazione per ciascuna delle doglianze dello specifico e corrispondente vizio di violazione di legge o del vizio di motivazione, quest’ultima peraltro ormai rilevante solo nei ristretti termini indicati da Cass. S.U. n. 8053 del 2014 (v. per un caso analogo Cass. n. 21611 del 2013).
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 2, 32 e 41 Cost. e 2087 c.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio per avere la Corte di merito rigettato la domanda dì risarcimento del danno per asserito mobbing sul presupposto che egli non avesse provato l’intento persecutorio dei datore di lavoro e che comunque non fosse ravvisabile in specie quella sequenza di atti vessatori così ripetuti da diventare sistematici, che costituisce caratteristica tipica della condotta di mobbing.
II motivo è in parte inammissibile, in parte infondato. E’ inammissibile nella parte concernente la censura di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in quanto formulata anche stavolta con riferimento al testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c. vigente anteriormente alla modifica apportata dall’art. 54, d.l. n. 83/2012, cit. E’ infondato nella parte concernente la censura di violazione di legge, perché questa Corte di legittimità ha da tempo posto il principio secondo cui l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi costituisce elemento costitutivo della fattispecie di mobbing (cfr. Cass. nn. 17698 dei 2014 e 18836 dei 2013).
Si deve peraltro aggiungere che del tutto inconferente appare il richiamo alle motivazioni di Cass. n. 18927 del 2012, che figurano pedissequamente riprodotte da pag. 62 a pag. 70 del ricorso (ancorché senza indicazione della fonte): il principio di diritto ivi statuito – secondo cui, nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento dei danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati, pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità dei datore di
lavoro – presuppone ovviamente che la questione sia stata validamente introdotta nel giudizio di cassazione, il che a sua volta postula che il ricorrente indichi in quale momento dei giudizio di merito la relativa prospettazione sia stata avanzata, solo così assumendo rilievo l’omessa pronuncia: che è ciò che nella specie, in violazione dei principio di autosufficienza dei ricorso per cassazione, il ricorrente ha invece omesso di fare.
li ricorso, pertanto, va conclusivamente rigettato. Le spese dei giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Sussistono inoltre i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese dei giudizio di cassazione, liquidandole in € 100,00 per esborsi ed € 3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 dei 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

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