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Il diritto era infatti unico e riguardava gli incrementi della azienda, materiali ed immateriali; la attribuzione di quote differenti costitutiva, dunque, violazione dell’articolo 230 bis cod. civ..
Il criterio che la sentenza poneva a fondamento della diversa misura delle quote era comunque illogico, in quanto il valore del titolo abilitativo della dott. (OMISSIS) era stato gia’ calcolato nel valore iniziale della azienda, sul quale egli non aveva diritti e non poteva essere nuovamente considerato in suo danno; inoltre la attivita’ di farmacia si svolgeva con tipiche modalita’ imprenditoriali e non come esercizio di una professione intellettuale.
2. Con il secondo motivo il ricorrente principale ha dedotto – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’articolo 230 bis cod. civ. in ordine alla valutazione complessiva degli incrementi operata in sentenza, in adesione alla consulenza svolta nel secondo grado.
Ha esposto che il consulente aveva determinato tanto il valore finale che il valore iniziale della azienda operando una media matematica dei valori ottenuti con due criteri di stima diversi: il criterio misto patrimoniale-reddituale ed il criterio dei multipli di mercato (quest’ultimo consistente nella media annua del fatturato di un triennio moltiplicata per il coefficiente multiplo di mercato).
Nell’applicare il criterio dei multipli di mercato per determinare il valore iniziale della azienda, tuttavia, il consulente aveva dato atto di non essere in possesso dei dati del fatturato dei tre anni che precedevano (l’acquisito della farmacia e) la costituzione della impresa familiare ed aveva tenuto conto del fatturato percio’ dei tre anni successivi alla costituzione della impresa familiare (1987/1989); tale metodologia di stima non era corretta e rendeva inattendibile il valore ottenuto, falsandolo in eccesso.
In assenza del fatturato dei tre anni antecedenti alla costituzione della impresa familiare non poteva essere ottenuta la omogeneita’ dei criteri di stima dei valori iniziale e finale della azienda; la sentenza aveva finito in realta’ per riconoscergli un credito significativamente inferiore a quello effettivo.
3. Con il terzo motivo il (OMISSIS) ha dedotto – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’articolo 429 c.p.c., comma 3, in riferimento al mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sulle somme liquidate in capitale per incrementi (materiali ed immateriali).
Il ricorrente ha assunto che gli accessori avrebbero dovuto essergli riconosciuti dalla data di scioglimento della impresa familiare.
4. Con il quarto motivo il ricorrente ha denunziato – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 – vizio della motivazione su un punto decisivo.
Ha lamentato la insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione quanto alla determinazione della percentuale della sua partecipazione agli incrementi; ha dedotto che la determinazione della quota degli utili del 49% riguardava anche gli incrementi, pur immateriali.
In ogni caso gli argomenti logici spesi in sentenza per determinare in misura del 20% la quota della sua partecipazione all’avviamento erano erronei: del titolo concessorio e della attivita’ del professionista si era gia’ tenuto conto nella determinazione della sua quota di partecipazione agli utili e si trattava, comunque, della attivita’ di una impresa commerciale.
5. con il quinto motivo il (OMISSIS) ha dedotto – ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 – vizio della motivazione su un punto decisivo, richiamando quanto gia’ esposto nel secondo motivo in ordine alla erroneita’ dei criteri di stima seguiti dal consulente dell’ufficio.
Il primo motivo del ricorso principale e’ fondato.
La sentenza impugnata ha accertato che le parti nell’atto costitutivo della impresa familiare avevano negozialmente determinato la quota di partecipazione del (OMISSIS) agli utili ed agli incrementi materiali della impresa familiare nella misura del 49%; ha aggiunto che – anche a volere attribuire alla previsione carattere non-negoziale – essa forniva, comunque, la prova del valore della collaborazione prestata dal partecipante.
Tale statuizione e’ conforme alla consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cassazione civile, sez. lav., 16/03/2016, n. 5224; Cassazione civile, sez. lav., 20/03/2007, n. 6631; Cassazione civile, sez. lav., 20/06/2003, n. 9897; 17/06/2003, n. 9683), formatasi in relazione al valore delle dichiarazioni rese a fini fiscali ai sensi della L. n. 576 del 1975, articolo 9 ed estensibile alla fattispecie di causa, nella quale la quota di partecipazione agli utili della impresa familiare veniva fissata nell’atto costituivo dell’impresa familiare e restava pacificamente invariata nel corso degli anni di svolgimento della collaborazione familiare.
La richiamata giurisprudenza ha chiarito che la predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili, nelle forme prescritte, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verita’ – come e’ sufficiente ai fini fiscali – o di un negozio giuridico, puo’ risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare-imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere gli utili – della dimostrazione dell’entita’ della propria quota di partecipazione ai proventi in proporzione alla quantita’ e qualita’ del lavoro prestato.
La sentenza impugnata ha invece violato l’articolo 230 bis cod. civ..
nella parte in cui ha ritenuto che la quota di partecipazione del familiare che collabora nella impresa familiare possa essere diversa per gli utili e gli incrementi materiali – da un lato – e per gli incrementi immateriali – dall’altro.
Il diritto attribuito al familiare dall’articolo 230 bis cod. civ. e’ invece unitario ed, in particolare, e’ ugualmente commisurato sia per gli utili che per gli incrementi unicamente alla “quantita’ e qualita’ del lavoro svolto” e cioe’ all’apporto di lavoro del familiare nella conduzione complessiva della impresa.
In altri termini, il criterio di determinazione della quota di partecipazione del familiare e’ quello della quantita’ e qualita’ del lavoro svolto dal familiare-collaboratore nella gestione della impresa e non della sua effettiva incidenza causale sul conseguimento degli utili ed incrementi, che rappresentano soltanto l’effetto e non la misura dell’attivita’ svolta.
In sostanza, cessata l’impresa familiare, la liquidazione della quota spettante al familiare che vi ha collaborato deve avere per dividendo gli utili, i beni acquistati con essi e gli incrementi e per divisore (unico) la quantita’ e qualita’ del lavoro prestato, rispetto alla quale le percentuali indicate nella scrittura di costituzione della impresa assumono quanto meno valore indiziario (cfr. Cass. sez. lav. 29 luglio 2008 nr. 20574).

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