Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 dicembre 2016, n. 25378

La facoltà attribuita dall’art. 72, comma 11, d.l. n. 112/2008, conv. in l. n. 133/2008, alle pubbliche amministrazioni di poter risolvere il rapporto di lavoro nel caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, deve essere esercitata, anche in difetto di adozione di un formale atto organizzativo, avendo riguardo alle complessive esigenze dell’Amministrazione, considerandone la struttura e la dimensione, in ragione dei principi di buona fede e correttezza, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 12 dicembre 2016, n. 25378

Svolgimento del processo

1 – La Corte di Appello di Roma ha respinto l’impugnazione proposta da A.A.M.I. avverso la sentenza del locale Tribunale che aveva rigettato le domande formulate nei confronti della Agenzia delle Entrate, volte ad ottenere la dichiarazione di “nullità, inefficacia e/o illegittimità del licenziamento adottato… con nota del 1 giugno 2009” e la condanna della Agenzia alla reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato ed al risarcimento dei danni, quantificati in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del recesso sino a quella della effettiva riammissione in servizio.
2 – La Corte territoriale, premesso che la Agenzia si era avvalsa il 2 dicembre 2008 della facoltà di risolvere il rapporto di lavoro con i dipendenti che avessero raggiunto la anzianità contributiva di 40 anni, ha evidenziato che:
a) la sussistenza dei requisiti doveva essere verificata sulla base della normativa vigente all’epoca, non rilevando che in pendenza del preavviso il legislatore avesse sostituito la anzianità contributiva con la anzianità massima di servizio effettivo;
b) in ogni caso il Tribunale aveva evidenziato che il d.l. n. 78 del 2009, che aveva ripristinato il requisito della anzianità contributiva, aveva anche fatte salve le cessazioni dal servizio ed i preavvisi disposti sulla base della formulazione originaria della norma prima dell’entrata in vigore della legge n. 15 del 2009;
c) detto capo della decisione non era stato oggetto di specifico motivo di gravame, sicché sul punto si era formato giudicato interno;
e) il legislatore aveva previsto una fattispecie risolutiva, senza imporre oneri procedimentali e senza richiedere che le amministrazioni indicassero le ragioni del recesso;
f) la Agenzia, peraltro, pur non essendo a ciò tenuta, aveva precisato che la facoltà veniva esercitata in considerazione del “programma di vasto ricambio generazionale” in concomitanza con “i processi di ridimensionamento degli assetti organizzativi”, tali da comportare la risoluzione dei rapporti con tutti i dipendenti in possesso del requisito;
g) non sussisteva la asserita violazione della direttiva 2000/78/CE, innanzitutto perché non veniva in rilievo l’età, bensì la anzianità contributiva, ed inoltre perché l’art. 6 della direttiva citata consente trattamenti diversificati in presenza di legittime ragioni oggettive, sicuramente ravvisabili nella fattispecie;
h) manifestamente infondata doveva ritenersi la questione di legittimità costituzionale prospettata dall’appellante perché il legislatore aveva perseguito obiettivi economici, amministrativi ed occupazionali sulla scorta di valutazioni di opportunità politica ed inoltre non aveva leso il principio di buon andamento della pubblica amministrazione né aveva violato il precetto dettato dall’art. 3 Cost., in quanto la diversità di trattamento non appariva né illogica né irrazionale.
3 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso A.A.M.I. sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. La Agenzia delle Entrate ha resistito con tempestivo controricorso.

Motivi della decisione

1.1 – Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 n. 5 c.p.c., “violazione e falsa applicazione dell’art. 97 cost. e degli artt. 1175 e 1375 c.c.”. Rileva che il potere conferito alle amministrazioni dall’art. 72, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008 è discrezionale ma non arbitrario, sicché è necessario che le amministrazioni valutino le esigenze amministrative che possano giustificare la risoluzione del rapporto, indichino i criteri da osservare nella scelta dei dipendenti da licenziare e motivino adeguatamente il provvedimento di recesso. Aggiunge che nella specie la Agenzia aveva fatto ricorso ad una motivazione stereotipata e non aveva assolto all’onere della previa valutazione delle esigenze organizzative e dell’effettivo fabbisogno del personale.
1.2 – La seconda censura addebita alla sentenza impugnata la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., dell’art. 72, comma 11, del d.l. 112/2008 e dell’art. 11 delle preleggi”. Sostiene la ricorrente che il recesso, sebbene comunicato il 2 dicembre 2008, era destinato a produrre effetti solo il 2 giugno 2009, dopo il decorso del periodo di preavviso, e a quella data la normativa era stata modificata dal legislatore, il quale aveva sostituito la anzianità contributiva con la anzianità massima di servizio effettivo di 40 anni. La legittimità del recesso doveva essere valutata alla luce dello ius superveniens e doveva essere esclusa per carenza del requisito richiesto dalla legge n. 15 del 2009. Aggiunge che la Corte di Appello aveva errato nel ritenere l’efficacia sanante del d.l. n. 78 del 2009, perché lo stesso aveva reintrodotto l’anzianità contributiva solo a decorrere dal 2 luglio 2009, quando già il rapporto con la ricorrente era cessato. Precisa, inoltre, che, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, era stato formulato al riguardo uno specifico motivo di appello, che aveva impedito la formazione del giudicato interno. Infine assume che il requisito contributivo doveva sussistere già il 2 dicembre 2008 e da ciò fa derivare la inapplicabilità dell’art. 17, comma 35 decies, del d.l. 1 luglio 2009 n. 78 che, a suo dire, avrebbe fatti salvi gli effetti delle sole cessazioni dal servizio conformi ai requisiti richiesti dalla norma applicabile ratione temporis.
1.3 – Il terzo motivo ripropone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72 del d.l. n. 112 del 2008, per contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost.. Sostiene la ricorrente di avere richiesto la ricongiunzione onerosa dei periodi assicurativi confidando sui benefici che, secondo la normativa all’epoca vigente, ne sarebbero derivati. Il legislatore, valorizzando ai fini del recesso la anzianità contributiva anziché quella effettiva, aveva leso il principio del legittimo affidamento nella sicurezza giuridica, perché il riscatto si era rivelato fonte di pregiudizio.
1.4 – Infine il quarto motivo sollecita la “disapplicazione dell’art. 72 del d.l. n. 112/2008 in ragione del contrasto con la direttiva 2000/78/CE”. Premesso che la disposizione realizza una discriminazione indiretta in ragione dell’età, perché colpisce necessariamente i lavoratori più anziani, la ricorrente richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia per sostenere che l’art. 6 della direttiva consente la deroga al principio di non discriminazione solo qualora le misure, oltre ad essere giustificate da ragioni obiettive, siano anche appropriate e necessarie. La mera esigenza di contenere la spesa pubblica non può essere ricondotta alle ipotesi derogatorie, tanto più che il d.lgs. n. 165 del 2001 prevede altre misure che consentono alle pubbliche amministrazioni di eliminare gli esuberi attraverso il collocamento in mobilità, finalizzato alla ottimale riallocazione del personale.
2 – L’esame dei singoli motivi deve essere preceduto dalla ricostruzione degli interventi normativi che hanno interessato l’istituto, più volte modificato dal legislatore.
La facoltà della Pubblica Amministrazione di risolvere unilateralmente il rapporto di impiego al raggiungimento della massima anzianità contributiva è stata prevista dall’art. 72, comma 11, primo e secondo periodo, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, poi convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 112, che, nel testo originario prevedeva: “Nel caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 possono risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi. Con appositi decreti” (…) “sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei principi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza e difesa (n.d.r., a cui, in sede di conversione, si aggiungeva quello “affari esteri”), tenendo conto delle rispettive peculiarietà ordina mentali”.
L’art. 72, comma 11, veniva successivamente novellato dall’art. 6, comma 3, della legge 4 marzo 2009, n. 15, che ne modificava il testo, sostituendo il requisito del compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni, con il requisito del “compimento dell’anzianità massima di servizio di 40 anni”.
Entrambe le formulazioni della norma, succedutesi in breve arco temporale, si limitavano a richiedere il requisito, in un caso della massima anzianità contributiva, nell’altro della massima anzianità di servizio, senza imporre ulteriori condizioni, quanto alla formazione della volontà negoziale dell’Amministrazione, e senza richiedere in modo espresso il rispetto dell’obbligo motivazionale. La determinazione di specifiche modalità applicative era, infatti, espressamente prevista solo per il personale dei comparti sicurezza, difesa ed affari esteri, in ragione delle peculiarietà dei rispettivi ordinamenti.
Successivamente, l’art. 17, comma 35-novies, del d.l. 10 luglio 2009 n. 78 convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, sostituiva il comma 11 dell’art. 72. Si faceva riferimento (anni 2009, 2010, 2011) al requisito della massima anzianità contributiva; si confermava il preavviso; si precisava la unilateralità del recesso collegandolo all’esercizio del potere di organizzazione esercitato ai sensi dell’art. 5, comma 2, del T.U., con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro; si prevedeva l’applicabilità della disciplina anche per il personale dirigenziale. L’adozione di specifici criteri e modalità applicative continuava ad essere prevista solo per i comparti sicurezza, difesa e affari esteri.
Il comma 35 decies stabiliva, inoltre, che “Restano ferme tutte le cessazioni dal servizio per effetto della risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro a causa del compimento dell’anzianità massima contributiva di quaranta anni, decise dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in applicazione dell’articolo 72, comma 11, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della legge 4 marzo 2009, n. 15, nonché i preavvisi che le amministrazioni hanno disposto prima della medesima data in ragione del compimento dell’anzianità massima contributiva di quaranta anni e le conseguenti cessazioni dal servizio che ne derivano”.
Le condizioni richieste per il recesso sono rimaste immutate anche nelle successive novelle, fino all’intervento dell’art. 1, comma 5, del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, in ragione del quale il vigente art. 72, comma 11, primo periodo, prevede che “Con decisione motivata con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi, le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, incluse le autorità indipendenti, possono, a decorrere dalla maturazione del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento” (…) “risolvere il rapporto di lavoro e il contratto individuale anche del personale dirigenziale, con un preavviso di sei mesi e comunque non prima del raggiungimento di un’età anagrafica che possa dare luogo a riduzione percentuale” (…).
La ricostruzione della disciplina va completata con il richiamo all’art. 16, comma 11, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che, ha stabilito: “In tema di risoluzione del rapporto di lavoro l’esercizio della facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni prevista dal comma 11 dell’articolo 72 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, non necessita di ulteriore motivazione, qualora l’amministrazione interessata abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo”.
3 – Le disposizioni sopra citate sono già state interpretate da questa Corte con la sentenza n. 21626 del 23.10.2015, che ha affermato il carattere innovativo e non interpretativo dell’art. 16 del d.l. n. 98/2011, e con la sentenza n. 11595 del 6 giugno 2016 con la quale, ribadito il principio, si è precisato che “se è chiaro che il requisito della adozione dell’atto generale organizzativo (sostitutivo dell’ulteriore motivazione) è frutto di scelta innovativa (come detto dalla citata pronunzia del 2015), altrettanto chiaro e condiviso è che l’obbligo motivazionale solo de futuro sostituito dall’atto generale – sussisteva già a regolare l’originaria risoluzione di cui all’art. 72 comma 11 del d.l. del 2008”.
A dette conclusioni la Corte è pervenuta dopo avere sottolineato la necessità di interpretare la normativa che qui viene in rilievo, non solo alla luce dei principi costituzionali consacrati nell’art. 97 Cost., ma anche e soprattutto della direttiva 2000/78 CE, perché il compimento della massima anzianità contributiva necessariamente si correla all’età del lavoratore, con la conseguenza di rendere applicabile la richiamata direttiva nella parte in cui prevede che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscono discriminazione solo qualora “siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.
È stato, quindi, affermato che “La facoltà attribuita dall’art. 72, comma 11, del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, alle Pubbliche amministrazioni di poter risolvere il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi, nei caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, deve essere esercitata, anche in difetto di adozione di un formale atto organizzativo, avendo riguardo alle complessive esigenze dell’Amministrazione, considerandone la struttura e la dimensione, in ragione dei principi di buona fede e correttezza, imparzialità e buon andamento, che caratterizzano anche gli atti di natura negoziale posti in essere nell’ambito del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato. L’esercizio della facoltà richiede, quindi, idonea motivazione, poiché in tal modo è salvaguardato il controllo di legalità sulla appropriatezza della facoltà di risoluzione esercitata, rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguite nell’ambito di politiche del lavoro. Tale motivazione, si aggiunge, si rende ancor più necessaria in mancanza di un atto generale di organizzazione perché costituisce il solo strumento di conoscenza e verifica delle ragioni organizzative che inducono l’Amministrazione ad adottare atti di risoluzione contrattuale. In mancanza, la risoluzione unilaterale dei rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato viola le norme imperative che richiedono la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa (art. 5, comma 2, dlgs. n. 165 del 2001), l’applicazione dei criteri generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cc), e i principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., nonché l’art. 6, comma 1, della direttiva 78/2000/CE”.
4 – La sentenza impugnata, nella parte in cui afferma la non necessità della motivazione e la non pertinenza del richiamo alla direttiva 2000/78/CE non è conforme a detti principi di diritto, ribaditi da Cass. 14.9.2016 n. 18099 e da Cass. 23.9.2016 n. 18723, ai quali il Collegio intende dare continuità.
La Corte territoriale, peraltro, in relazione ad entrambe le questioni ha fondato la pronuncia di rigetto su una duplice ratio decidendi, avendo evidenziato che i motivi del recesso, sebbene non necessari, erano stati esplicitati dalla Agenzia e che la violazione della direttiva doveva in ogni caso essere esclusa, in quanto il trattamento diversificato risultava giustificato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 6, da una finalità legittima “di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale”.
L’Agenzia delle Entrate, infatti, nel comunicare alla A. la volontà di avvalersi della facoltà prevista dall’art. 72 del d.l. n. 112 del 2008, non si era limitata a richiamare la norma di legge bensì aveva esplicitato le ragioni della scelta “legata al programma di vasto ricambio generazionale perseguito dall’Agenzia, anche in concomitanza con i processi di ridimensionamento degli assetti organizzativi conseguenti all’applicazione dell’art. 74 del succitato decreto legge n. 112/2008” ed aveva chiarito che era stata assicurata “a tutti gli interessati la massima omogeneità di trattamento, facendo quindi prevalere necessariamente un principio di rigorosa uniformità decisionale, tale da precludere… qualunque percezione di incoerenza, contraddittorietà o ingiustificata disparità di trattamento” (pag. 2 del ricorso).
La motivazione è, quindi, chiara nell’individuare le finalità perseguite dalla Amministrazione e nell’ascrivere il recesso, oltre che alla politica di ricambio generazionale, alla attuazione degli obblighi imposti dall’art. 74 del d.l. 112/2008, che, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis, imponeva alle Agenzie di adottare entro il 30 novembre 2008 provvedimenti finalizzati a: ridimensionare gli assetti organizzativi esistenti, secondo principi di efficienza, razionalità ed economicità, operando la riduzione degli uffici dirigenziali di livello generale e di quelli di livello non generale;… a ridurre il contingente di personale adibito allo svolgimento di compiti logistico-strumentali e di supporto in misura non inferiore al dieci per cento…. alla rideterminazione delle dotazioni organiche del personale non dirigenziale, apportando una riduzione non inferiore al dieci per cento della spesa complessiva relativa al numero dei posti di organico di tale personale…..
Altrettanto chiara è la lettera di recesso nel chiarire che la Agenzia aveva deciso di risolvere tutti i rapporti con il personale in possesso del requisito dell’anzianità contributiva, al fine di garantire uniformità di trattamento, il che esclude la necessità di stabilire i criteri di scelta, oggettivi e predeterminati, ai quali ha fatto riferimento la ricorrente nel motivo di ricorso.
Le ulteriori considerazioni che si leggono nella prima censura sul carattere stereotipato della motivazione e sulla erroneità della valutazione espressa dalla Corte territoriale non possono essere apprezzate in questa sede, perché attengono al giudizio riservato al giudice di merito ed esulano dai ristretti limiti del controllo di legittimità consentito ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c..
4.1 – Nelle decisioni di questa Corte richiamate al punto 3 si è anche precisato che proprio l’obbligo di motivazione, nella specie assolto, consente di escludere la ipotizzata violazione della direttiva 2000/78/CE e di ricondurre l’art. 72 del d.l. n. 112 del 2008 nell’ambito delle eccezioni consentite dall’art. 6 della stessa direttiva che legittima gli Stati membri a prevedere “che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.
In particolare la sentenza n. 11595 del 2016, da intendersi qui integralmente richiamata, ha esaminato la giurisprudenza della Corte di Giustizia ed ha evidenziato che la stessa “non lascia adito a dubbi interpretativi, poiché una disparità di trattamento in ragione dell’età, (come quella oggetto della disciplina in esame, nei termini sopra precisati), non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata da una finalità legittima, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Peraltro, una mancanza di precisione della normativa, riguardo allo scopo perseguito, non ha la conseguenza di escludere automaticamente che quest’ultima possa essere giustificata ai sensi della disposizione suddetta. In mancanza di una tale precisazione, è importante che altri elementi, attinenti al contesto generale della misura interessata, consentano l’identificazione dell’obiettivo cui tende quest’ultima, al fine di esercitare un controllo giurisdizionale, quanto alla sua legittimità, e al carattere appropriato e necessario dei mezzi adottati per realizzare detto obiettivo (sentenze Palacios de la Villa, C-411/05, C-Vital Pèrez C-416/13)”.
Ne ha desunto la non necessità del rinvio pregiudiziale, rilevando che l’interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di Giustizia, sia in sede di rinvio pregiudiziale, sia in sede di procedura d’infrazione (Corte cost., sentenze n. 168 del 1991, n. 389 del 1989, n. 113 del 1985 e n. 227 del 2010), ha efficacia ultra partes, con la conseguenza che alle sentenze dalla stessa rese va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità (Cass., n. 22577 del 2012).
In presenza di una interpretazione consolidata e in termini o di una norma comunitaria che non lascia adito a dubbi interpretativi, il giudice di ultima istanza non ha, quindi, l’obbligo di disporre il rinvio pregiudiziale (tra le altre: Cass., Sez. Un., 24 maggio 2007, n. 12067; Cass., ord. n. 22103 del 2007; Cass., n. 4776 del 2012; Cass., n. 26924 del 2013, Cass. n.13603 del 2011).
Le considerazioni che precedono comportano la infondatezza del quarto motivo di ricorso, posto che la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha da tempo chiarito che costituiscono finalità legittima di politica sociale sia la promozione delle assunzioni dei più giovani (sentenza Torsten Hornfeldt in causa C-141/11), sia, nell’ambito dell’impiego pubblico, “la finalità consistente nell’instaurare una ripartizione equilibrata delle fasce di età tra giovani funzionari e funzionari più anziani al fine di favorire l’occupazione e la promozione dei giovani, di ottimizzare la gestione del personale e, al tempo stesso, di prevenire le eventuali controversie vertenti sull’idoneità del dipendente ad esercitare la sua attività dopo una certa età, il tutto mirando ad offrire un servizio di qualità” (Commissione Europea Ungheria in causa C- 286/12).
Le finalità che si desumono dal combinato disposto degli artt. 72 e 74 del d.l. 112 del 2008 sono, dunque, legittime e lo strumento utilizzato, oltre a realizzare un contemperamento degli interessi in gioco, prevedendo la possibilità del recesso solo nei confronti dei dipendenti in possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione, appare anche necessario al perseguimento dell’obiettivo che, certo, non potrebbe essere realizzato attraverso i meccanismi della mobilità, richiamati dalla ricorrente.
4.2 – Non si ravvisa l’eccepita illegittimità costituzionale della normativa in relazione alla asserita disparità di trattamento fra dipendenti che hanno riscattato precedenti periodi lavorativi e dipendenti che di detta facoltà non si sono avvalsi. Le due situazioni non sono comparabili perché solo i primi, sia pure attraverso lo strumento del riscatto, risultano in possesso dei requisiti necessari per l’accesso alla pensione. D’altro canto non è ipotizzabile alcuna lesione del principio del legittimo affidamento poiché nella specie non viene in rilievo una disposizione retroattiva né si è a fronte di un “regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi anteriori”.
5 – È infondato anche il secondo motivo con il quale si assume che la facoltà di recesso poteva essere esercitata dall’Agenzia solo dopo il compimento della massima anzianità contributiva.
Il Collegio intende dare continuità all’orientamento già espresso da questa Corte con la sentenza n. 12488 del 2015, con la quale si è osservato che l’art. 72, nella parte in cui consente la risoluzione del rapporto “a decorrere dal compimento dell’anzianità massima contributiva di quaranta anni” non vuol dire che il recesso possa e debba essere comunicato soltanto dopo il raggiungimento della predetta anzianità, “non deponendo in tal senso né la lettera né la ratio della norma. Del resto la previsione dello specifico preavviso assolve alla funzione di rendere edotto il dipendente della volontà dell’amministrazione di risolvere il rapporto al raggiungimento del detto requisito”.
Non rileva che il principio sia stato affermato in relazione all’art. 72, come modificato dall’articolo 17, comma 35-novies, del d.l. 1 luglio 2009, n. 78, poiché le diversità letterali con la disposizione applicabile alla fattispecie ratione temporis non sono tali da giustificare una diversa conclusione.
È quindi da escludere che il recesso possa essere ritenuto illegittimo solo perché alla data del 2 dicembre 2008 la A. non aveva ancora maturato i 40 anni di contribuzione, essendo incontestato che il requisito previsto dalla norma all’epoca vigente sarebbe stato integrato al momento dello scioglimento del rapporto.
5.1 – Quanto, poi, alla rilevanza dello ius superveniens è necessario premettere che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che si fosse formato giudicato interno sul capo della sentenza di primo grado che aveva ritenuto insussistente il profilo di illegittimità dedotto nell’atto introduttivo.
Deve essere qui ribadito che “la locuzione giurisprudenziale minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma, che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di impugnazione, nondimeno la censura motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perché impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione” (Cass. 4.2.2016 n. 2217 e negli stessi termini Cass. 9.6.2016 n. 11868).
Ne discende che nella fattispecie il motivo di appello con il quale la A. ha riproposto l’eccezione di illegittimità del recesso per violazione della legge n. 15 del 2009, ha determinato l’effetto devolutivo in relazione a tutte le questioni giuridiche connesse con il tema ancora controverso, non essendo sufficiente a determinare il passaggio in giudicato del capo della decisione l’assenza di una specifica censura avente ad oggetto la interpretazione data dal Tribunale all’art. 17, comma 35 decies, del d.l. 10.7.2009 n. 78, convertito dalla legge 3 agosto 2009 n. 102.
5.2 – La Corte territoriale, peraltro, anche in tal caso ha fondato la pronuncia di rigetto su una duplice ratio, poiché non si è limitata a rilevare, erroneamente, la formazione del giudicato interno, ma ha aggiunto, innanzitutto, che la legittimità del recesso doveva essere valutata alla luce della normativa vigente alla data della intimazione e che, in ogni caso, ogni questione sulla rilevanza dello ius superveniens era stata risolta dal legislatore con la norma sopra richiamata.
Detto ultimo argomento è, ad avviso del Collegio, risolutivo poiché come si è evidenziato al punto 2, il legislatore con la legge n. 102 del 2009, di conversione del d.l. n. 78 del 2009, nel ripristinare l’originario requisito della anzianità contributiva, sostituito con la anzianità di servizio effettivo dalla legge n. 15 del 2009, ha fatto salvi gli effetti delle cessazioni “decise dalle amministrazioni pubbliche….in applicazione dell’art. 72 comma 11, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della legge 4 marzo 2009, n. 15 nonché i preavvisi che le amministrazioni hanno disposto prima della medesima data in ragione del compimento dell’anzianità massima contributiva di quaranta anni e le conseguenti cessazioni dal servizio che ne derivano”.
Il tenore letterale della norma non lascia margine di dubbio sull’ambito della sua applicazione, perché il legislatore ha fatto riferimento non solo ai preavvisi ancora in corso, ai quali si riferisce l’ultima parte della disposizione, ma anche alle “cessazioni decise”, che, in quanto diverse da quelle previste nell’ultimo inciso, non possono che essere i recessi che avevano già spiegato efficacia prima della entrata in vigore della nuova normativa.
La diversa interpretazione prospettata dalla ricorrente, a detta della quale la norma sarebbe applicabile ai soli rapporti di lavoro non esauritisi alla data della sua entrata in vigore, renderebbe priva di senso la prima parte della disposizione, che persegue chiaramente la finalità di rendere insensibili i recessi, intimati in data antecedente l’entrata in vigore della nuova normativa, alla modifica intervenuta sul requisito condizionante l’esercizio della facoltà, modifica che ha interessato un arco temporale assai contenuto, ossia quello compreso fra il 20 marzo 2009, data di entrata in vigore della legge 4.3.2009 n. 15, ed il 5 agosto 2009 (la legge n. 102 del 2009 è, infatti, entrata in vigore il giorno successivo alla pubblicazione nella G.U. del 4.8.2009).
La norma così interpretata, sebbene destinata ad incidere su situazioni pregresse, non appare né irragionevole né arbitraria, sia perché espressione di un principio di carattere generale, quale è quello secondo cui la legittimità di un atto deve essere valutata sulla base della normativa vigente al momento della sua adozione, sia perché considera la peculiarità della fattispecie nella quale, come si è detto, il legislatore, dopo la modifica del requisito, è nuovamente intervenuto a ripristinare la condizione originaria e, quindi, ha voluto saldare fra loro le due normative, eliminando ogni possibile effetto della soluzione di continuità.
6 – In conclusione il ricorso deve essere rigettato, poiché il dispositivo della sentenza impugnata è conforme a diritto e può, quindi, il Collegio limitarsi alla correzione ed alla integrazione ex art. 384 c.p.c. della motivazione nei termini sopra indicati.
La complessità e la novità delle questioni trattate, solo di recente decise da questa Corte, giustificano l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis

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