Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 10 novembre 2017, n. 26676. Cosa occorre per legittimare il licenziamento da scarso rendimento

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A conferma di cio’ soccorrevano i diversi documenti, all’uopo citati e distintamente esaminati, che peraltro non avevano trovato alcuna smentita nelle prove testimoniali esperite.
Venivano altresi’ analizzate ulteriori circostanze di fatto, che, a giudizio della Corte capitolina, escludevano che si potesse tener conto degli standard invocati dall’azienda e segnatamente di 12/15 macchine vendute per mese da ogni venditore, sulla base di 60/80 trattative incardinate, laddove per il (OMISSIS) la condizione erra nettamente diversa alla stregua delle precisate concrete emergenze rilevate, evidenziando ancora che non era condivisibile, perche’ non corretta, l’operazione effettuata dall’azienda, di comparare dati tra loro non omogenei. Pertanto, era difficile sostenere che vi fosse prova di una negligenza e di una inattivita’ da parte del (OMISSIS), il quale comunque risultava documentalmente aver redatto 27 preventivi. Per giunta, da tutta la corrispondenza intercorsa con la dirigenza, e segnatamente dai report pretesi con cadenza settimanale, emergeva che il (OMISSIS) non era mai stato inattivo, dedicandosi in maniera prevalente ad un compito che, cosi’ come voluto da parte datoriale, non era stato mai praticato. Per queste ed ulteriori, specifiche e dettagliate, valutazioni di merito, dunque, la Corte distrettuale, riteneva, pure a voler leggere la vicenda secondo le indicazioni fornite nell’atto di gravame, di dover comunque pervenire al medesimo convincimento espresso dal giudice di primo grado, di guisa che tutte le contestazioni risultavano infondate, donde l’illegittimita’ delle applicate sanzioni conservative ed espulsiva.
Non resta, quindi, che prendere atto di tali motivate e ragionevoli considerazioni espresse dai giudici del merito (cfr. tra l’altro Cass. lav. n. 1632 del 22/01/2009, secondo cui in tema di licenziamento per scarso rendimento, la negligenza puo’ essere provata anche solo attraverso presunzioni e tale prova, concernente l’inadempimento del lavoratore, costituisce una valutazione di fatto che spetta al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimita’ se congruamente motivata. Conforme Cass. n. 6747 del 2003).
Inoltre, nella sua valutazione in punto di diritto la Corte territoriale si e’ correttamente attenuta ai principii fissati in materia dalla giurisprudenza di legittimita’ (v. infatti la succitata pronuncia di Cass. lav. n. 1632 del 22/01/2009, secondo la quale pure e’ legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento soltanto qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attivita’ resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attivita’ tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione. Conformi Cass. lav. n. 18678 del 04/09/2014 e. n. 3876 del 22/02/2006 – giurisprudenza tutta condivisa anche dalla piu’ recente pronuncia di questa Corte, n. 18317 del 9 giugno / 19 settembre 2016.
V. altresi’ Cass. lav. n. 401 del 17/01/1981, secondo cui, qualora in taluni rapporti di lavoro subordinato assuma rilievo anche il risultato della prestazione, come il conseguimento di un determinato livello quantitativo minimo di affari, vendite eccetera, entro prefissati periodi di tempo, con la correlativa previsione da parte del contratto collettivo o individuale, del mancato risultato periodicamente richiesto quali ipotesi di grave inadempimento che legittima la risoluzione motivata del rapporto per scarso rendimento, il datore di lavoro – che intenda far valere tale scarso rendimento come notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro- non puo’ limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l’oggettiva sua esigibilita’, avuto riguardo alla normale capacita ed operosita’ della maggioranza dei lavoratori di pari qualificazione professionale ed addetti alle medesime mansioni, ma deve altresi’ provare che la causa dello scarso rendimento deriva da negligenza nell’espletamento della prestazione lavorativa. Pertanto, in mancanza di prova di un difetto di attivita’ da parte del lavoratore, il solo dato del mancato raggiungimento degli obiettivi programmati dal datore di lavoro non legittima la risoluzione del rapporto per scarso rendimento. In senso conforme, Cass. lav. n. 6405 del 25/11/1982).
Le anzidette considerazioni, soprattutto per quanto concerne l’insindacabilita’ degli accertamenti e delle valutazioni in punto di fatto operati dai giudici di merito, come gia’ detto, per di piu’ concordemente in primo ed in secondo grado, bene all’evidenza valgono anche in ordine al secondo motivo di ricorso, essendo stato ritenuto acclarato comunque, tramite apposita c.t.u., il nesso di causalita’ tra gli anzidetti illegittimi provvedimenti disciplinari ed il lamentato, quindi riconosciuto, danno biologico (v. tra l’altro anche Cass. 3 civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non da’ luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ne’ in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’articolo 132 c.p.c., n. 4, – da’ rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante). Non si rileva, inoltre, alcuno specifico errore, in punto di diritto, per quanto attiene all’applicazione delle norme di legge in tema di nesso eziologico, la cui violazione peraltro non e’ stata neanche ritualmente dedotta dall’appellante, mentre e’ assolutamente inconferente nella specie il richiamo dell’articolo 2697 c.c., che disciplina il solo onere probatorio (nella specie peraltro indiscutibilmente a carico di parte datoriale), e non gia’ la valutazione di quanto comunque acquisito in sede istruttoria.
Stante l’infondatezza/inammissibilita’ del ricorso, la societa’, essendo rimasta soccombente, va condannata alle relative spese ed e’, inoltre, tenuta, come per legge, al versamento dell’ulteriore contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la societa’ ricorrente al rimborso delle spese, che liquida, a favore del controricorrente, in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. articolo 13, comma 1 bis.

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