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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza n. 20891 del 12 settembre 2013

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato nel dicembre 1999 i coniugi A.E. e N.M. convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Napoli, l’avv. A.S.G. per sentirlo condannare al risarcimento dei danni da loro subiti, quantificati in lire 300 milioni per entrambi, per essere stati diffamati e per aver subito la violazione alla loro riservatezza, avendo il predetto legale prodotto, nell’ambito di una procedura fallimentare, un rapporto redatto da un’agenzia di investigazione con il quale, oltre a diffondere dati personali e familiari degli attori, erano attribuiti ai predetti attività illecite e la commissione di reati di abusivismo edilizio; inoltre, dal predetto rapporto emergeva che, contrariamente al vero, l’A. era insegnante non di ruolo e che i coniugi avrebbero avuto numerosi debiti e pendenze da sistemare.

Il convenuto si costituiva chiedendo il rigetto della domanda e deducendo che dopo che due ricorsi per ottenere il fallimento della società di fatto dei predetti coniugi erano stati rigettati per carenza di indizi sullo stato di insolvenza di tale società, egli, quale difensore di L.L. , che vantava un credito per spettanze di lavoro non riscosse, aveva prodotto il già indicato rapporto in data 17 settembre 1998 e i coniugi debitori avevano conciliato la lite con il suo cliente con verbale del 24 settembre 1999, ponendo fine alla procedura fallimentare in corso. Sosteneva inoltre il convenuto che, essendo stata la sua attività svolta per conto del ricordato cliente, di quanto lamentato dagli attori avrebbe dovuto, eventualmente, rispondere il Lubrano e non certo il suo difensore. Rappresentava l’avv. S.G. che il rapporto in questione aveva contenuto informativo e non offensivo, avvalorando dati di fatto documentabili anche in altro modo dal L. . Deduceva, infine, il convenuto che il fatto che l’A. fosse diventata insegnante di ruolo prima del rapporto non poteva arrecare danno alla stessa ed asseriva che non sussisteva alcuna violazione della legge n. 675/96.
Con altro atto di citazione notificato nel maggio del 2000, A.E. , N.M. e l’avv. S.G. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Napoli, l’avv. S.G. e deducevano che il legale convenuto, assumendo che il primo giudizio era stato proposto dai predetti coniugi difesi dal S. per esercitare un’indebita pressione sul suo cliente per non far pagare al N. quanto pattuito, aveva presentato un esposto, datato 18 novembre 1999, al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, sostenendo che della vicenda, concretizzandosi l’ipotesi vari reati, doveva occuparsi non solo il Consiglio dell’Ordine ma anche il Giudice penale. Inoltre, con nota del 13 dicembre 1999, l’avv. S.G. aveva accusato l’avv. S. di aver posto in essere farneticanti ingiurie nei suoi confronti. Gli attori, ritenendo il comportamento dell’avv. S.G. diffamatorio nei loro confronti, chiedevano la condanna di detto legale al risarcimento dei danni che quantificavano in complessivi 900 milioni di lire.
Il convenuto si costituiva chiedendo il rigetto della domanda e deducendo di essersi limitato a presentare un esposto al Consiglio dell’Ordine perché la vicenda fosse esaminata in quella sede; rappresentava che, a seguito dell’esposto, erano stati formulati capi di accusa nei confronti dell’avv. S. , il che induceva a ritenere non palesemente infondato l’esposto, sicché andava escluso il reato di diffamazione per l’esimente di cui all’art. 598 c.p.. In via riconvenzionale, ritenuto diffamatorio l’esposto presentato dall’avv. S. in data 1 dicembre 1999 al predetto Ordine, chiedeva la condanna del S. al risarcimento dei danni in suo favore nella misura ritenuta equa dal Giudice.
Riunite le due cause, il Tribunale, con sentenza del 20 febbraio 2003, rigettava le domande degli attori, dichiarava che non doveva provvedersi su quella riconvenzionale e condannava gli attori in solido al pagamento, in favore dell’avv. S.G. , delle spese di lite.
Avverso tale decisione proponeva appello l’avv. S. . Con distinto atto proponeva impugnazione anche N.M. .
Riuniti i gravami ex art. 335 c.p.c., la Corte di appello di Napoli, con sentenza del 27 giugno 2007, in parziale riforma della sentenza impugnata,

liquidava le spese del primo grado in complessivi Euro 8.000,00, con condanna in solido del S. e dei coniugi N. – A. al pagamento di Euro 7.130,39, a tale titolo, in favore dell’avv. S.G. , mentre per al pagamento del residuo, pari a Euro 869,61, condannava, in solido tra loro, i soli coniugi N. – A. , il tutto oltre accessori come indicato nella sentenza impugnata che confermava nel resto; dichiarava altresì compensate tra le parti in causa le spese del secondo grado di giudizio.
Avverso la sentenza della Corte di merito l’avv. S. e N.M. hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di sette motivi. L’avv. S.G. ha resistito con controricorso contenente ricorso incidentale basato su un unico motivo e ha chiesto, altresì, la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive, nonché la condanna dei ricorrenti al risarcimento del danno di cui al secondo comma dell’art. 89 c.p.c..
L’avv. S.G. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Deve anzitutto procedersi alla riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti contro la stessa sentenza.
2. Seguendo l’ordine logico risulta preliminare l’esame del ricorso incidentale proposto dall’avv. S.G. .
3. Con l’unico motivo il controricorrente ricorrente incidentale lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 89, secondo comma, 82, 83, 84 c.p.c., 2043, 2055, 1387, 1704 c.c., nonché insufficiente ovvero contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c.).
L’avv. S.G. censura la sentenza impugnata nella parte in cui, nel rigettare l’eccezione – da lui sollevata – di carenza di legittimazione passiva in relazione alla domanda risarcitoria proposta nei suoi confronti in ordine al già richiamato rapporto informativo presentato al Tribunale fallimentare, la Corte di merito ha affermato che, se e pur vero che ogni produzione o scritto difensivo presentato all’A.G. viene fatta dal legale in rappresentanza e difesa del suo cliente, non é tuttavia vero che di tanto, se in violazione dell’altrui reputazione o riservatezza, non possa rispondere anche lo stesso difensore, che, in tal caso, si sarebbe reso corresponsabile di tale presunta lesione nei confronti delle controparti e conseguentemente coautore dell’illecito, il che lo renderebbe, ai sensi dell’art. 2055 c.c., solidalmente responsabile, con il cliente per conto e nel nome del quale agiva, del medesimo comportamento lesivo dell’altrui onorabilità e riservatezza.
Ad avviso dell’avv. S.G. se fosse valido il principio affermato dalla Corte di merito, tutti i difensori che esibiscono in giudizio atti o documenti “in violazione della reputazione e riservatezza” della controparte dovrebbero essere coinvolti nomine proprio ex art. 2055 c.c.; il predetto legale evidenzia che l’art. 94 c.p.c. prevede la responsabilità dei rappresentanti processuali per le spese solo in casi eccezionali e che la Corte di appello avrebbe erroneamente interpretato il secondo comma dell’art. 89 c.p.c. pure “richiamato, limitandosi tale norma, ad avviso del predetto avvocato, nel primo comma a far divieto alle parti e ai loro difensori di usare espressioni sconvenienti ed offensive mentre la responsabilità di cui al secondo comma della medesima norma e quella eventualmente di cui all’art. 2043 c.c. seguirebbero i principi generali e, quindi, farebbero capo al rappresentato e non al rappresentante.
Sostiene l’avv. S.G. che la Corte di appello, nel ritenere infondata nel merito la domanda, ha messo in evidenza che il rapporto di cui si discute in causa “non può mai dar luogo né a diffamazione, né a violazione del diritto alla riservatezza dell’attore M..N. , per l’assorbente considerazione che queste informazioni… erano strettamente collegate con l’attività difensiva svolta in quella sede dal difensore del L.L. “. E la Corte di appello avrebbe con evidente contraddizione ricordato che “In tal caso il diritto di difesa (anche costituzionalmente garantito, ex art. 24 della Costituzione), prevale sull’eventuale lesione dell’onorabilità della reputazione e della riservatezza del soggetto cui tali informazioni riservate si riferivano e sussiste l’esimente dell’art. 598 del c.p., anche se detta lesione sia contenuta in scritti, destinati a rimanere riservati e raccolti da fonti anonime”. Ad avviso del già indicato professionista la Corte di appello si sarebbe dovuta fermare alla prima considerazione riportata e dedurne “il difetto di legittimazione passiva del difensore, che era restato nel binario della rappresentanza processuale”. Inoltre, il predetto difensore ritiene che un’ulteriore contraddizione nella motivazione della sentenza impugnata vada ravvisata nella parte in cui si afferma che la tesi della società di fatto era stata svolta dall’avv. S.G. per conto del suo cliente.

Conclusivamente lamenta il controricorrente ricorrente incidentale che la riportata motivazione della sentenza sarebbe inconciliabile con l’affermazione della ipotetica corresponsabilità ex art. 2055 c.c..

3.1. Il motivo è infondato sotto entrambi i profili censurati.
3.2. Per quanto attiene alla lamentata violazione di legge va, infatti, evidenziato che correttamente la Corte di appello ha rigettato l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dall’avv. S.G. . Ed invero va osservato che, come questa Corte ha avuto modo di precisare numerose volte, la legitimatio ad causarti, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento. Da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito alcun esame d’ufficio, poiché la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Fondandosi, quindi, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione all’azione, sulla mera allegazione fatta in domanda, una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea solo, quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso (v., fra le tante, Cass. 30 maggio 2005, n. 14468).
Orbene, in base alla prospettazione attorea e secondo la norma che regola il rapporto dedotto in giudizio (Cass. 7 maggio 2005, n. 6936), che lo stesso controricorrente ricorrente incidentale individua pure nell’art. 2043 c.c., ben può essere esercitata nei confronti del difensore l’azione di risarcimento dei danni per violazione dell’altrui reputazione. Peraltro nel caso di specie si è sicuramente al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 89 c.p.c., in cui il destinatario della domanda di risarcimento del danno è sempre e solo la parte la quale, se condannata, può eventualmente rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive o le condotte diffamatorie, ove ne ricorrano le condizioni; ne consegue che non é conferente il richiamo operato dal controricorrente ricorrente incidentale alla sentenza di questa Corte n. 23333 del 9 settembre 2008, relativa ad una domanda proposta ex art. 89, secondo comma, c.p.c. nei confronti del difensore, della controparte, del quale peraltro era stata chiesta ed ottenuta la chiamata in causa.
Nei confronti del difensore che si assume tenuto al risarcimento del danno arrecato dalla sua offesa occorre agire, come avvenuto nel caso all’esame, con un’azione per responsabilità aquiliana davanti al giudice secondo le norme ordinarie.
Questa Corte ha infatti affermato che, in tema di risarcimento del danno per le espressioni offensive contenute negli atti del processo, l’art. 89 c.p.c. civ. devolve al giudice del processo, cui gli atti si riferiscono, il giudizio circa l’applicazione in concreto delle sanzioni previste; tuttavia – poiché la responsabilità processuale ha natura analoga a quella aquiliana, e, quindi, l’antigiuridicità dei comportamenti non si esaurisce nell’ambito del processo – quando il procedimento, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo) ovvero quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado) ovvero quando la domanda sia avanzata nei confronti non della parte ma del suo difensore, l’azione di danni per responsabilità processuale può essere proposta davanti al giudice competente secondo le norme ordinarie (Cass. 2001, n. 10916; Cass. 18 luglio 2003, n. 11253; Cass. 9 luglio 2009, n. 16121). E nel caso di specie non vi é dubbio che la domanda di risarcimento dei danni è stata proposta nei confronti non della parte ma del suo difensore quale autore (o coautore) dell’illecito.

3.3. Neppure colgono nel segno le censure relative a vizi motivazionali della sentenza impugnata – che si sostanziano, al di là di quanto indicato nella rubrica del motivo, nella sola deduzione della contraddittorietà della motivazione, come emerge dall’illustrazione del motivo e dalla formulazione del c.d. quesito di fatto -, non ravvisandosi alcuna contraddizione tra l’affermata sussistenza della legittimazione passiva del difensore e la pur accertata e ritenuta dal Giudice di merito circostanza che il rapporto informativo di cui si discute in causa era stato utilizzato dall’avv. S.G. a fini esclusivamente difensivi.
A quanto appena evidenziato deve aggiungersi che il vizio di contraddittorietà della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi che sorregge il decisum adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorché – come nel caso all’esame -, dalla lettura della sentenza, non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice (Cass., sez. un., 22 dicembre 2010, n. 25984).
4. Va rigettata pure la richiesta formulata dall’avv. S.G. di cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute nel ricorso per cassazione nonché di condanna al risarcimento dei danni di cui all’art. 89, secondo comma, c.p.c., perché non sussistono i presupposti richiesti dalla norma indicata.
Al riguardo si osserva che, secondo la giurisprudenza di questa Cotte, da cui non vi é motivo di discostarsi, la sussistenza dei presupposti per la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi, prevista dall’art. 89 c.p.c. e che può essere disposta anche nel giudizio di legittimità, rientrando tra i poteri officiosi del giudice, va esclusa allorquando le espressioni in parola non siano dettate da un passionale ed incomposto intento dispregiativo e non rivelino perciò un intento offensivo nei confronti della controparte (o dell’ufficio), ma; conservando pur sempre un rapporto, anche indiretto, con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive, siano preordinate a dimostrare, attraverso una valutazione negativa del comportamento dell’avversario, la scarsa attendibilità delle sue affermazioni (Cass. 20 gennaio 2004, n. 805; Cass. 6 luglio 2004, n. 12309; Cass. 5 maggio 2009, n. 10288). Nella specie le espressioni ritenute offensive, lette nel contesto della vicenda, sicuramente non esulano dalla materia del contendere e dalle esigenze difensive.
5. Il ricorso incidentale va, pertanto, rigettato.
6. Con il primo motivo del ricorso principale i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione dell’art. 598 c.p.; in particolare i predetti censurano la sentenza della Corte di merito per aver la stessa applicato l’esimente di cui all’art. 598 c.p., laddove, ad avviso dell’avv. S. e del N. , tale esimente non sarebbe applicabile qualora le espressioni offensive siano contenute in un esposto inviato al Consiglio dell’Ordine Forense,’non essendo l’autore dell’esposto parte nel successivo giudizio disciplinare e attenendo l’esimente in parola agli scritti difensivi in senso stretto, con esclusione di esposti e denunce, pur se redatti dai soggetti interessati.
7. Con il secondo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 51 c.p., i ricorrenti sostengono che la Corte di merito avrebbe applicato l’esimente di cui all’art. 598 c.p. sulla base di argomenti e ragionamenti che atterrebbero all’esercizio del diritto (art. 51 c.p.) di presentare esposti o denunzie all’autorità giudiziaria, laddove, le predette norme perseguirebbero scopi diversi. Secondo l’avv. S. e il N. la norma dell’art. 51 c.p. sarebbe stata comunque falsamente applicata al caso di specie, occorrendo che la parte che invochi tale esimente “ne provi il fondamento, anche sotto il profilo putativo, e che vi sia correlazione tra quanto narrato e quanto accaduto nella realtà, con l’assoluto rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto riferito, nonché il rigoroso obbligo di rappresentare gli avvenimenti quali sono, risultando inaccettabili i valori sostituivi di esso, quale quello della verosimiglianza”.
8. Con il quarto motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizi motivazionali ed indicano al riguardo come fatto controverso e decisivo l’assenza della qualità di parte del procedimento disciplinare in capo all’avv. S.G. (con riferimento all’art. 598 c.p.) e la verosimiglianza delle accuse, anche sotto il profilo putativo (con riferimento all’art. 51 c.p.). Assumono sostanzialmente i ricorrenti (v. quesito di fatto a p. 9 del ricorso) che la motivazione sarebbe inidonea a giustificare la decisione, stante l’insufficiente motivazione circa la verosimiglianza dei fatti esposti dalla controparte al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e che la medesima motivazione si baserebbe su argomenti e ragioni contrastanti tra loro, in quanto l’art. 598 c.p., che presuppone l’esercizio del diritto di difesa, non sarebbe applicabile all’esercizio del diverso diritto di presentare esposti al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e non sarebbe applicabile nei confronti di chi non sia parte del procedimento disciplinare.

9. I tre motivi che precedono, che per connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono tutti infondati.
9.1. Ed invero il Giudice del merito, pur se ha richiamato l’art. 598 c.p. (talvolta indicato come art. 589 c.p., v. sentenza p. 21), ha pure però precisato che l’esimente prevista da tale articolo costituisce solo una delle applicazioni della norma più generale di cui all’art. 51 c.p. e quest’ultimo articolo sostanzialmente ha applicato, attenendosi così correttamente al principio già affermato da questa Corte con la sentenza del 18 ottobre 2005, n. 20141, espressamente richiamata nella sentenza impugnata, secondo cui in tema di responsabilità per danni derivanti dalla lesione del diritto personale all’onore, nel caso in cui sia presentato un esposto da un avvocato contro un collega al Consiglio locale dell’Ordine forense, per escludere l’antigiuridicità del comportamento è necessario e sufficiente che le offese contenute negli scritti difensivi siano in rapporto di giuridica necessità o utilità con l’esercizio del diritto di presentare esposti (innanzi a detto Consiglio) da parte del soggetto che le ha scritte.
Come precisato nella sentenza richiamata, “è nell’ordine naturale delle cose che il contenuto di un ricorso all’Ordine presentato da un avvocato contro un collega prospetti comportamenti di quest’ultimo idonei ad incidere in qualche modo negativamente sulla reputazione del medesimo (è fin troppo ovvio che se il primo professionista avesse ritenuto del tutto corretto il contegno del secondo non avrebbe presentato l’esposto)”.
Va quindi considerato che l’esposto inviato al Consiglio dell’Ordine (nella specie forense) tende inevitabilmente ad individuare degli scenari deontologici.
Opinando diversamente si verrebbe a negare la stessa possibilità di esercitare il diritto di presentare esposti o comunque di adire l’organo disciplinare per veder accertato un illecito disciplinare, il che é tutelato dall’art. 51 c.p..
Nella già richiamata sentenza è stato infatti precisato che: “Quindi, a meno di non negare il diritto di ogni avvocato di presentare un siffatto esposto contro un collega (tesi la cui insostenibilità è evidente) occorre necessariamente pervenire alla conclusione che per l’esistenza di un comportamento idoneo ad integrare un atto illecito ex art. 2043 c.c. è necessario qualcosa di più oltre alla mera prospettazione al Consiglio del comportamento (del collega) criticato (con conseguente invocazione dell’esercizio del potere disciplinare); è necessario cioè che per il particolare modo con cui viene prospettata la tesi accusatoria (in particolare per la scelta delle espressioni usate) si travalichi il legittimo esercizio del diritto in questione; e cioè che si vada al di là di ciò che è strumentale rispetto all’esercizio del diritto (di per sé incontestabile) di esporre il proprio assunto critico innanzi al Consiglio dell’Ordine”.
Alla luce di quanto appena riportato risulta evidente l’infondatezza della censura proposta con il secondo motivo, non risultando provato il travalicamento del legittimo esercizio del diritto in questione ed evidenziandosi che la valutazione dell’esposto in parola e l’apprezzamento delle espressioni in esso utilizzate costituiscono accertamenti in fatto, riservati al giudice del merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti, come nel caso all’esame, da argomentata e congrua motivazione, esente da vizi logici e giuridici.
In base alle considerazioni che precedono e a quanto già argomentato nel § 3.3. circa il vizio di contraddittorietà della motivazione, vanno disattese anche le ulteriori censure sollevate con il quarto motivo di ricorso, avendo il Giudice del merito congruamente e coerentemente motivato in relazione alle questioni poste in rilievo dai ricorrenti con il mezzo in parola.

Va, infine, evidenziato che é inammissibile il quarto motivo nella parte in cui (v. ricorso p. 15-16) i ricorrenti lamentano il travisamento del fatto (neppure richiamato nell’indicazione del fatto controverso e del c.d. quesito di fatto, v. ricorso p. 9), non potendo tale travisamento costituire motivo di ricorso per cassazione, poiché, risolvendosi in un’inesatta percezione da parte del Giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta gli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c. (Cass. 30 gennaio 2003, n. 1512; Cass. 27 gennaio 2003, n. 1202; Cass. 20 giugno 2008, n. 16809).
10. Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 599 c.p..
I ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui si afferma che le deduzioni difensive dell’avv. S. contenute nella lettera del 1 dicembre 1999 e dirette al Consiglio dell’Ordine, che le aveva richieste, e all’avv. S.G. costituivano una provocazione tale da giustificare, ai sensi dell’art. 599 c.p., le ulteriori espressioni offensive contenute nella lettera del 13 dicembre 1999 inviata dall’attuale ricorrente controricorrente incidentale al Consiglio dell’Ordine.
11. Con il quinto motivo, lamentando omessa insufficiente e contraddittoria motivazione, i ricorrenti assumono che la Corte di merito avrebbe posto a base della decisione argomenti contrastanti circa la sussistenza della provocazione che sarebbe costituita dal contenuto della lettera del 1 dicembre 1999, avendo in particolare il predetto Giudice ravvisato in quello scritto il carattere della provocazione, pur avendo ritenuto che fosse stato “svolto” nell’esercizio del diritto di difesa.
12. I motivi, che per connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono entrambi inammissibili, tendendo sostanzialmente a rimettere in discussione accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione, che nella specie sussiste. Peraltro va evidenziato, in relazione al quinto motivo, che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass., ord., 28 marzo 2012, n. 5024).
13. Con il sesto motivo i ricorrenti lamentano omessa motivazione in relazione alla circostanza della diffusione, da parte dell’avv. S.G. di dati personali che avrebbe violato il diritto alla riservatezza del N. e di tutta la sua famiglia.
13.1. Anche il motivo all’esame é inammissibile.
A prescindere dalla circostanza che gli stessi ricorrenti sono ben consapevoli che sul punto la Corte di merito abbia motivato sicché non sussiste la lamentata omissione, va evidenziato che anche con il mezzo ora all’esame i ricorrenti tendono sostanzialmente ad una rivalutazione del merito, sicché valgono al riguardo le considerazioni già espresse nel secondo periodo del p. 12.
14. Con il settimo motivo l’avv. S. e N.M. denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 90 e 91 c.p.c. e nullità della sentenza (art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.). In particolare i ricorrenti lamentano che la Corte di appello avrebbe condannato il predetto legale al pagamento delle spese processuali in solido con l’A. e il N. anche con riferimento ad una delle due cause riunite in cui lo stesso non era parte ma solo difensore degli attori e sostengono che la violazione delle predette norme comporterebbe la nullità del procedimento e delle sentenza.
14.1. Il motivo,alla cui proposizione é legittimato il solo avvocato S. , riferendosi alla condanna in solido di quest’ultimo alle spese di primo grado, è infondato alla luce della chiara motivazione del Giudice del merito che, a p. 42 della sentenza impugnata, ha precisato che “mentre M..N. , che figura come parte in entrambi i processi sia prima della riunione, sia dopo la stessa, é giusto che sia stato condannato, in solido con la moglie A. , anche lei parte d’entrambi i predetti procedimenti, per le intere somme di cui alla gravata sentenza, non così si può dire solo per l’avv. S. , coinvolto personalmente solo nella seconda azione risarcitoria predetta e tenuto, quindi, in solido con le altre parti predette (per la comunanza delle questioni quivi trattate), solo per le spese, prima della riunione, di quel secondo processo in L. 1.775.000 per diritti ed in L. 250.000 per le spese vive e per quelle successive alla stessa riunione, in L. 1.700.00 per diritti + L. 400.000 per le spese vive. Soltanto per costui, quindi, i diritti ammontano a L. 3.475.000, corrispondenti ad Euro 1.794,69 e le spese vive a L. 650.000, corrispondenti ad Euro 335,70, mentre gli onorari restano anche per costui confermati in Euro 5.000,00, somma che sarebbe stata congrua, pur se tali processi non fossero stati mai riuniti, perfino per una sola della predette vertenze. In conseguenza, solo in molto parziale riforma della gravata sentenza, per le spese del giudizio di prime cure, detto legale, può rispondere in solido con i coniugi predetti, per il complessivo importo d’Euro 7.130,39, mentre per il residuo, in Euro 869,61 (ossia Euro 8.000,00 in tutto, liquidati dal primo giudice – Euro 7.130,39 predetti = Euro 869,61) potranno risponderne, in solido, per la comunanza delle questioni trattate i soli coniugi predetti”.

A tanto va aggiunto che le spèse del secondo grado sono state dalla Corte di appello integralmente compensate tra le parti ancora in causa in quel grado e che il dispositivo della sentenza impugnata rispecchia fedelmente la riportata motivazione.
15. Il ricorso principale deve essere, pertanto, rigettato.
26. Tenuto conto della reciproca soccombenza, le spese del giudizio di cassazione vanno integralmente compensate tra le parti.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta sia il ricorso principale che quello incidentale; compensa per intero tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

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