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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza n. 18612 del 5 agosto 2013

Svolgimento del processo

1. – Il Tribunale di Roma, con sentenza del luglio 2003, rigettava la domanda proposta da D.P.F., S.P. e D.P.P. nei confronti di Z.L. e Z. D., quali eredi di Z.E., per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti, a titolo di responsabilità professionale del dante causa, avvocato.
Il Tribunale osservava che era da escludersi la sussistenza della colpa professionale dell’avv. Z.E. – cui si erano rivolti gli attori al fine di ottenere il ristoro del pregiudizio subito dal minore D.P.P. in conseguenza di un sinistro stradale – per non aver questi proposto azione risarcitoria nel termine biennale di cui all’art. 2947 c.c., comma 2, configurandosi il fatto illecito come reato di lesioni perseguibile a querela, reputando che il termine prescrizionale fosse quello quinquennale (non ancora maturato) in forza di quanto opinato da una parte della giurisprudenza di merito e di legittimità prima dell’intervento delle Sezioni Unite civili che, con la sentenza n. 5121 del 2002, avevano risolto il contrasto giurisprudenziale in materia nel senso della prescrizione biennale, giacchè, proprio in ragione di siffatto contrasto, non poteva ascriversi ad imperizia e negligenza la condotta del professionista.

2. – D.P.F., S.P. e D.P.P. impugnavano tale decisione e nel giudizio di appello si costituivano gli originari convenuti, nonchè veniva integrato il contraddittorio con la Fondiaria Sai Assicurazioni S.p.A., quale società garante per la responsabilità professionale dell’avv. Z..
L’adita Corte di appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 18 maggio 2007, previa declaratoria di difetto di legittimazione attiva di D.P.F. e di S.P., rigettava il gravame di D.P.P..
La Corte territoriale, in punto di difetto di legittimazione degli anzidetti appellanti, osservava che D.P.P. aveva raggiunto la maggiore età e che i rispettivi genitori, attori in qualità di esercenti la potestà genitoriale sul minore P., non avevano mai chiesto il risarcimento di danni subiti in proprio, ma soltanto quelli patiti dal figlio nel sinistro stradale.
Nel merito, il giudice di appello evidenziava che l’avv. Z., dopo aver ricevuto l’incarico per richiedere il risarcimento dei danni subiti dal minore P. nel sinistro stradale dell’ (OMISSIS), si era attivato con lettere raccomandate inviate alla Unipol S.p.A., società assicuratrice del vettore deceduto nello stesso sinistro, nelle date 12 settembre 1996, 14 e 22 luglio 1999 e 29 marzo 2000 e dopo che la Unipol aveva dedotto la prescrizione del diritto del danneggiato (a seguito dell’estinzione del reato di lesioni colpose per morte del reo) nessuna domanda giudiziale era stata intrapresa dagli attori, “poichè ritenuta infondata e foriera di asseriti ulteriori danni, stante la posizione assunta dalla Unipol”; sicchè, “nessuna pronuncia giudiziale è intervenuta in ordine alla prescrizione del diritto”.
Il giudice di appello, quindi, assumeva che non poteva ravvisarsi responsabilità professionale nella condotta dell’avv. Z., il quale, in forza del mandato, si era immediatamente attivato al fine di ottenere in favore dei propri assistiti il ristoro dei danni, “attività che… ben avrebbe potuto dare luogo, nell’ambito del processo civile, qualora fosse stato intentato, a valutazione interruttiva della prescrizione, risultando peraltro intervenute anche attività inerenti la valutazione medico legale delle lesioni riportate dal danneggiato”. Peraltro, soggiungeva il giudice del gravame, “il contrasto giurisprudenziale inerente il termine prescrizionale e la sua decorrenza, questione che ha trovato componimento nella sentenza delle SS.UU…., non può costituire elemento sul quale fondare la responsabilità del professionista, nel senso che all’epoca dei fatti la questione era ancora aperta e vi erano opzioni interpretative diversificate”.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorrono D.P.P., D.P.F. e S.P., sulla base di tre motivi, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso Z.L. e Z.D., quali eredi dell’avv. Z.E., nonchè la Fondiari-Sai S.p.A., che ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione

1. – Con il primo mezzo è denunciata “violazione dell’art. 100 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5: errata e comunque insufficiente motivazione”.
La Corte territoriale, nell’escludere la sussistenza della legittimazione attiva in capo a D.P.F. e S. P. per non aver costoro proposto in proprio alcuna domanda, avrebbe mancato di considerare che detti attori avevano dedotto che la somma risarcitoria “fosse comprensiva sia delle spese mediche sostenute (ovviamente sborsate dai genitori del minore), sia dei danni c.d. morali (ovviamente spettanti anche ai genitori)”.
2. – Con il secondo mezzo è dedotta “violazione dell’art. 112 c.p.c., e art. 2967 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5: ulteriore vizio di motivazione”.
La Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che il maturarsi del termine prescrizionale dell’azione risarcitoria non fosse un dato certo in assenza di giudizio intrapreso dagli attori, nel quale avrebbero potuto far valere l’attività del difensore come interruttiva della prescrizione stessa, e ciò perchè l’esistenza di atti interruttivi avrebbero dovuto essere provata dai convenuti o, comunque, si trattava di valutazione che lo stesso giudice di appello avrebbe dovuto effettuare e che invece ha del tutto mancato di operare.

3. – Con il terzo mezzo è prospettata “violazione o errata applicazione dell’art. 1176 c.c., comma 2, artt. 2224 e 2236 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3: violazione di norma di diritto”.
Il giudice di appello, nell’escludere la colpa dell’avvocato al quale era stato conferito il mandato, avrebbe violato le norme disciplinanti la responsabilità professionale, giacchè, nell’incertezza sulla questione relativa alla consistenza del termine prescrizionale dell’illecito civile in conseguenza di fatto reato perseguibile a querela (in relazione alla quale, le oscillazioni giurisprudenziali furono risolte dalle Sezioni Unite nel 2002 nel senso della biennalità del termine di prescrizione), il professionista – rimasto inerte per quasi tre anni – avrebbe invece dovuto attenersi a condotta non foriera di rischi di danni al proprio assistito e, dunque, ad atteggiamento prudenziale, tanto più che un siffatto “comportamento (l’introduzione dell’azione nel biennio, o comunque l’interruzione del termine con un atto inopinabilmente efficace a tal fine) non avrebbe comportato inconvenienti di sorta”.
Viene formulato il seguente quesito di diritto: “Se il professionista avvocato, in presenza di opposte soluzioni adottate dalla giurisprudenza in ordine a una fattispecie, abbia o non abbia il dovere di attenersi, nello svolgimento del proprio mandato, alla tesi più rigorosa; e in particolare, allorchè il contrasto riguardi il termine prescrizionale, abbia o non abbia il dovere di comportarsi come se il termine più breve fosse soluzione certa e non opinabile”.
3. – I primi due motivi vanno dichiarati inammissibili, giacchè essi non sono assistiti da alcun quesito (di diritto e/o di fatto) ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., quale norma pienamente operante ratione temporis nella fattispecie, posto che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 18 maggio 2007 e, dunque, nella vigenza della disciplina da essa dettata. Infatti, il citato art. 366 bis, ha iniziato ad esplicare i propri effetti in relazione alle sentenze pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006, data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che l’ha introdotto, e ha cessato di essere applicabile soltanto a decorrere dal 4 luglio 2009 e cioè dalla sua abrogazione ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47.
Invero, i motivi, sebbene rubricati in relazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, veicolano, seppure in modo non del tutto intelligibile, plurime censure, ma anche in siffatta configurazione avrebbero dovuto, per ciascun tipo di censura, articolare il rispettivo e congruente quesito (in tale prospettiva, Cass., sez. un., 9 marzo 2009, n. 5624; Cass., sez. un., 31 marzo 2009, n. 7770; Cass., 12 settembre 2012, n. 15242).
In definitiva, nei motivi è comunque assolutamente carente, in relazione a ciascuna specifica censura che pur si riuscisse ad isolare, o il quesito “di diritto” come sintesi logico-giuridica della questione, sia in riferimento alla censura di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (tra le tante: Cass., sez. un., 5 febbraio 2008, n. 2658; Cass., 25 marzo 2009, n. 7197; Cass., 8 novembre 2010, n. 22704), che in riferimento alla denuncia di error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (tra le altre, Cass., 21 febbraio 2011, n. 4146 e Cass., sez. un., 18 ottobre 2012, n. 17838) o il quesito “di fatto” (quale apposito momento di sintesi, anche quando l’indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della formulata censura) in riferimento al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (tra le molte, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass., 18 novembre 2011, n. 24255).
4. – Il terzo motivo è fondato.
Il giudice del merito ha escluso che potesse costituire elemento su cui fondare la responsabilità professionale del legale – investito di apposito mandato – il contrasto di giurisprudenza sulla consistenza del termine di prescrizione (biennale ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 2, ovvero più lungo ai sensi dello stesso art. 2947, comma 3) dell’azione di risarcimento del danno subito a seguito di sinistro stradale da cui siano derivate lesioni personali perseguibili a querela, “nel senso che all’epoca dei fatti la questione era ancora aperta e vi erano opzioni interpretative diversificate”.

Tale statuizione confligge con il principio – enunciato da Cass., 18 luglio 2002, n. 10454, in un caso che presenta stretta analogia con quello attualmente all’esame – al quale il Collegio intende dare continuità e secondo cui “le obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo. Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall’art. 1176 c.c., comma 2, che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tale profilo, rientra nella ordinaria diligenza dell’avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine. Non ricorre tale ipotesi, con la conseguenza che il professionista può essere chiamato a rispondere anche per semplice negligenza, ex art. 1176 c.c., comma 2, e non solo per dolo o colpa grave ai sensi dell’art. 2236 c.c., allorchè l’incertezza riguardi non già gli elementi di fatto in base ai quali va calcolato il termine, ma il termine stesso, a causa dell’incertezza della norma giuridica da applicare al caso concreto. Parimenti, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa all’applicabilità del termine di prescrizione in caso di mancata proposizione della querela non esime il professionista dall’obbligo di diligenza richiesto dall’art. 1176 c.c.“.
In definitiva, l’opinabilità stessa della soluzione giuridica impone al professionista una diligenza ed una perizia adeguate alla contingenza, nel senso che la scelta professionale deve cadere sulla soluzione che consenta di tutelare maggiormente il cliente e non già danneggiarlo e, dunque, nella specie, egli è tenuto ad un comportamento (introduzione del giudizio o compimento di atti interruttivi idonei) che sia riferito alla decorrenza del termine più breve.
In tale prospettiva, dunque, la misura della diligenza richiesta al legale è connotata proprio dall’esistenza del contrasto giurisprudenziale – al dilà della soluzione che poi lo verrà a comporre (peraltro, nella specie, si è trattato di contrasto diacronico permanente sino alle più recenti Sezioni unite del 2008, sentenza n. 27337, con le quali si optato per l’applicabilità del termine prescrizionale più lungo nel caso di reato perseguibile a querela) – non potendo la compresenza di approdi giurisprudenziali non collimanti tra loro essere per ciò stesso evocata ad esimente della colpa grave, come diversamente potrebbe accadere, se del caso (e cioè ove ricorrano le circostanze di fatto idonee allo scopo), nella ben diversa ipotesi di overruling, ovverosia di mutamento giurisprudenziale, nell’interpretazione di una norma o di un sistema di norme, inatteso o comunque privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi (quali possono essere quelli di un, sia pur larvato, dibattito dottrinale o di un qualche significativo intervento giurisprudenziale sul tema; cfr. Cass., sez. un., 12 ottobre 2012, n. 17402), e sino a quando esso possa ancora reputarsi tale, in ragione dell’onere di costante informazione del difensore sulla giurisprudenza (in siffatta ottica, si veda Cass., 7 febbraio 2011, n. 3030).
3. – Vanno, dunque, dichiarati inammissibili i primi due motivi del ricorso ed accolto il terzo.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere cassata e la causa rinviata alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che si atterrà a lprincipio di diritto innanzi enunciato (al punto 4) e che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibili i primi due motivi del ricorso ed accoglie il terzo motivo;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 luglio 2013.

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