Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 8 gennaio 2015, n. 257
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente
Dott. GRILLO Renato – Consigliere
Dott. MULLIRI Guicla – Consigliere
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
indagato articoli 73 e 74 Testo Unico stup., e Legge n. 203 del 1991, articolo 7;
avverso la ordinanza del Tribunale Sez. per il Riesame di Caltanissetta del 17.4.14;
Sentita la relazione del cons. Guicla Mulliri;
Sentito il P.M. nella persona del P.G. Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente
Dott. GRILLO Renato – Consigliere
Dott. MULLIRI Guicla – Consigliere
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
indagato articoli 73 e 74 Testo Unico stup., e Legge n. 203 del 1991, articolo 7;
avverso la ordinanza del Tribunale Sez. per il Riesame di Caltanissetta del 17.4.14;
Sentita la relazione del cons. Guicla Mulliri;
Sentito il P.M. nella persona del P.G. Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Il ricorrente si trova sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere perche’ accusato di aver fatto parte di un’associazione criminosa dedita al traffico di sostanze stupefacenti, aggravata ai sensi della Legge n. 203 del 1991, articolo 7.
Avendo chiesto la sostituzione della misura piu’ severa con quella degli arresti domiciliari, il Tribunale (dinanzi ai quale pende il giudizio di primo grado) ha respinto ed anche il relativo appello – proposto dinanzi al Tribunale – e’ stato rigettato con il provvedimento oggetto del presente gravame.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, l’indagato ha presentato ricorso, tramite difensore, deducendo violazione di legge e vizio della motivazione.
La critica del ricorrente muove dal rilievo che vi sarebbe una evidente discrasia tra le premesse da cui e’ partito il Tribunale e le conclusioni tratte. Ed infatti, i giudici di merito, dopo avere ricordato che – a seguito delle pronunzie nn. 231/11 e 57/13 della Corte costituzionale – la presunzione contenuta nell’articolo 275 c.p.p., comma 3, e’ relativa, di fatto ha operato una valutazione concretamente ancorata alla previgente presunzione assoluta.
Cio’ si afferma di fronte alla constatazione che il Tribunale non ha ritenuto sussistenti, ne’ idonei, i molteplici elementi concreti ed attuali sui quali si era basata l’istanza difensiva (quali il decorso del tempo e la incensuratezza del ricorrente).
Per di piu’, si critica il fatto che il Tribunale abbia evocato a carico del (OMISSIS) comportamenti pericolosi posti in essere solo da altro soggetto (il fratello (OMISSIS)) e considerato anche che il collaboratore di giustizia (OMISSIS) non ha mai menzionato (OMISSIS).
Si fa, inoltre, notare che il Tribunale non ha dato il giusto peso al comportamento carcerario del (OMISSIS) in questi due anni di custodia e si cita, per contro, la recente decisione di questa 5 sez. (n. 4718/14) che, proprio in tema di valutazione delle esigenze cautelari e segnatamente del pericolo di reiterazione, ha censurato un provvedimento di merito nel quale non si era tenuto conto dell’assenza di precedenti penali ne’ della vita anteatta dell’imputato valorizzando, per contro, elementi comportamentali relativi al fatto ascritto che, pero’, non erano da ritenere sussistenti.
In pratica, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuto tenere in maggior considerazione l’incensuratezza del (OMISSIS) ed operare una valutazione effettiva, concreta ed attuale circa l’adeguatezza della presente misura.
Al contrario, il Tribunale ha sostenuto che i fatti ai quali si riferisce la misura non sono neppure tanto risalenti sebbene sia pacifico, dalla stessa contestazione, che essi sono stati commessi nel 2009 ed, a tutto concedere – vista anche l’accusa di cui all’articolo 73 – solo fino al 2010.
Da ultimo, il ricorrente critica il provvedimento impugnato per non avere tenuto nella dovuta considerazione la possibilita’ di applicare l’articolo 275 c.p.p., comma 4, con riferimento alle conseguenze che la custodia in carcere determina sulla figlia minore dell’imputato. A tal fine, ricorda che la certificazione del neuropsichiatra dell’ASP di Caltanissetta ha dato atto della patologia infantile da cui e’ affetta la figlia minore del ricorrente (di 11 anni) e che potrebbe invece essere contrastata adeguatamente ove il padre fosse posto agli arresti domiciliari. In tal modo, soggiunge il ricorrente, si darebbe anche attuazione ai principi giurisprudenziali enunciati da questa S.C. in tema di arresti domiciliari nei confronti di padri di figli minorenni sussistendo l’impossibilita’ della madre di prestare assistenza al minore (n. 4748/13), in applicazione dei principi costituzionali in tema di tutela dell’infanzia.
Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della ordinanza impugnata.
Avendo chiesto la sostituzione della misura piu’ severa con quella degli arresti domiciliari, il Tribunale (dinanzi ai quale pende il giudizio di primo grado) ha respinto ed anche il relativo appello – proposto dinanzi al Tribunale – e’ stato rigettato con il provvedimento oggetto del presente gravame.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, l’indagato ha presentato ricorso, tramite difensore, deducendo violazione di legge e vizio della motivazione.
La critica del ricorrente muove dal rilievo che vi sarebbe una evidente discrasia tra le premesse da cui e’ partito il Tribunale e le conclusioni tratte. Ed infatti, i giudici di merito, dopo avere ricordato che – a seguito delle pronunzie nn. 231/11 e 57/13 della Corte costituzionale – la presunzione contenuta nell’articolo 275 c.p.p., comma 3, e’ relativa, di fatto ha operato una valutazione concretamente ancorata alla previgente presunzione assoluta.
Cio’ si afferma di fronte alla constatazione che il Tribunale non ha ritenuto sussistenti, ne’ idonei, i molteplici elementi concreti ed attuali sui quali si era basata l’istanza difensiva (quali il decorso del tempo e la incensuratezza del ricorrente).
Per di piu’, si critica il fatto che il Tribunale abbia evocato a carico del (OMISSIS) comportamenti pericolosi posti in essere solo da altro soggetto (il fratello (OMISSIS)) e considerato anche che il collaboratore di giustizia (OMISSIS) non ha mai menzionato (OMISSIS).
Si fa, inoltre, notare che il Tribunale non ha dato il giusto peso al comportamento carcerario del (OMISSIS) in questi due anni di custodia e si cita, per contro, la recente decisione di questa 5 sez. (n. 4718/14) che, proprio in tema di valutazione delle esigenze cautelari e segnatamente del pericolo di reiterazione, ha censurato un provvedimento di merito nel quale non si era tenuto conto dell’assenza di precedenti penali ne’ della vita anteatta dell’imputato valorizzando, per contro, elementi comportamentali relativi al fatto ascritto che, pero’, non erano da ritenere sussistenti.
In pratica, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuto tenere in maggior considerazione l’incensuratezza del (OMISSIS) ed operare una valutazione effettiva, concreta ed attuale circa l’adeguatezza della presente misura.
Al contrario, il Tribunale ha sostenuto che i fatti ai quali si riferisce la misura non sono neppure tanto risalenti sebbene sia pacifico, dalla stessa contestazione, che essi sono stati commessi nel 2009 ed, a tutto concedere – vista anche l’accusa di cui all’articolo 73 – solo fino al 2010.
Da ultimo, il ricorrente critica il provvedimento impugnato per non avere tenuto nella dovuta considerazione la possibilita’ di applicare l’articolo 275 c.p.p., comma 4, con riferimento alle conseguenze che la custodia in carcere determina sulla figlia minore dell’imputato. A tal fine, ricorda che la certificazione del neuropsichiatra dell’ASP di Caltanissetta ha dato atto della patologia infantile da cui e’ affetta la figlia minore del ricorrente (di 11 anni) e che potrebbe invece essere contrastata adeguatamente ove il padre fosse posto agli arresti domiciliari. In tal modo, soggiunge il ricorrente, si darebbe anche attuazione ai principi giurisprudenziali enunciati da questa S.C. in tema di arresti domiciliari nei confronti di padri di figli minorenni sussistendo l’impossibilita’ della madre di prestare assistenza al minore (n. 4748/13), in applicazione dei principi costituzionali in tema di tutela dell’infanzia.
Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della ordinanza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Motivi della decisione – Il ricorso e’ inammissibile perche’ manifestamente infondato.
A ben vedere, infatti, si e’ al cospetto di una mera reiterazione dei medesimi argomenti svolti dinanzi al Tribunale che vi ha replicato in modo piu’ che adeguato e con considerazioni del tutto logiche.
Non vi e’, innanzitutto, nessuna “discrasia” – come denuncia il ricorrente – tra l’avere preso le mosse dal principio di presunzione relativa e l’avere escluso che gli elementi “concreti” portati dalla difesa siano inidonei a rivedere il giudizio cautelare.
Al contrario, proprio perche’ la presunzione di adeguatezza delle misura custodiale in carcere, ora, e’ relativa, il Tribunale ha cercato di verificare l’esistenza o il sopraggiungere di elementi che depongano nel senso dell’adeguatezza della, invocata, misura degli arresti domiciliari. A tale stregua, pero’, esso ha opportunamente evidenziato come il decorso del tempo non sia affatto elemento da solo sufficiente a giustificare una revisione della misura.
Ricordando precedenti giurisprudenziali recenti (sez. n. 30.11.11, n. 47416; sez. 11, 20.4.11, n. 21424), si afferma, cioe’, che l’attenuazione o esclusione delle esigenze cautelari non puo’ essere desunta dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura ovvero dalla osservanza puntuale delle prescrizioni ad essa connesse “dovendosi valutare ulteriori elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento della situazione apprezzata all’inizio del trattamento cautelare”. Tra l’altro, di recente, e’ stato anche affermato che – mentre il “tempo trascorso dalla commissione del reato” deve essere oggetto di valutazione, a norma dell’articolo 292 c.p.p., comma 1, lettera c), da parte del giudice che emette l’ordinanza di custodia cautelare u’ “analoga valutazione non e’ richiesta dall’articolo 299 c.p.p., ai fini della revoca o sostituzione
della misura” (Sez. 2 , 30.11.11, Pantano, Rv. 252050).
Opportunamente, poi, il Tribunale ha ricordato il particolare allarme sociale dei comportamenti ascritti al ricorrente, si’ da far “sbiadire” il valore della incensuratezza formale del ricorrente.
Con riferimento alle minacce rivolte al “pentito” (OMISSIS), il commento svolto dai giudici di merito e’ del tutto coerente con la logica e, comunque, convincente. Pur puntualizzando, infatti, che esse erano state rivolte da (OMISSIS) (fratello del ricorrente) i giudici hanno anche sottolineato che spesso tali minacce erano avvenute alla presenza del ricorrente (OMISSIS) si’ che, valutando la cosa dal punto di vista del minacciato – in difetto (perche’ non segnalati da alcuno) di comportamenti di chiara dissociazione da parte del ricorrente rispetto a quelle minacce – e’ agevole ritenere che, quest’ultimo, non avesse percepito le minacce solo come provenienti da (OMISSIS) “singolarmente considerato, quanto dal centro di interessi che il medesimo (OMISSIS), in un’ottica di inevitabile unitarieta’ con i fratelli, rappresenta”.
In pratica, il Tribunale evidenzia bene come non fosse stato apportato dalla difesa alcun elemento di novita’ rispetto ad una situazione che era stata gia’ valutata da quello stesso Tribunale in sede di riesame ed che era stata decisa con provvedimento ormai coperto da giudicato cautelare sicche’, come costantemente affermato da questa S.C. (fra le ultime, sez. 1 , 15.4.10, D’Agostino, rv. 247208; sez. 1 , 19.1.07, Petta, Rv. 236278) una volta formatosi il giudicato cautelare, solo la sopravvenienza di fatti nuovi puo’ giustificare la rivalutazione di quelli gia’ apprezzati e rendere possibile la revoca o la modifica della misura applicata. In altri termini, una istanza in tal senso deve essere fondata su circostanze sopravvenute rispetto alla valutazione fatta del giudice al momento della emanazione della misura, ovvero sulla valutazione di elementi che, pur preesistenti, non erano stati considerati.
Di certo, percio’, la incensuratezza – su cui si richiama l’attenzione – non e’ un elemento nuovo (e, comunque, anch’esso, come sopra detto e’ stato commentato); analogamente, nessun rilievo puo’ avere il comportamento carcerario dovendosi – come detto – valutare “ulteriori elementi” e valendo, altresi’ la considerazione che l’osservanza delle prescrizioni connesse al regime custodiale e’, a ben vedere, il minimo che ci si possa attendere da parte di chi vi e’ sottoposto si’ da non poter essere segnalato come se si trattasse di condotta eccezionale.
Infine, e’ attento, puntuale e corretto e’ anche il ragionamento che il Tribunale sviluppa relativamente al fatto che la presente, piu’ grave, misura determinerebbe una sorta di stato di “abbandono” della minore visto che anche la madre e’ spesso assente per esigenze lavorative.
Pur con tutto il rispetto delle esigenze dei minori (che sono le prime vittime delle condotte illecite dei genitori) viene – giustamente – da osservare, pero’, con i giudici del merito che, nella specie l’assioma che si vuoi far passere e’ inaccettabile.
Cio’ vale, innanzitutto, come principio generale nel senso che e’ veramente eccessivo affermare che l’impegno lavorativo della madre determini una condizione di “assoluto impedimento” ad accudire il figlio “dovendosi altrimenti pervenire alla conclusione che nessuna madre di figli in tenera eta’ possa lavorare”. Non a caso, lo stesso Tribunale cita plurime pronunzie di questa S.C. ove si pone l’accento sulla necessita’ che l’impossibilita’ per la madre di provvedere alle esigenze dei figli sia “assoluta” si’ che la prova di tale condizione deve essere fornita in modo rigoroso “posto che la prestazione giornaliera di attivita’ lavorativa e’ una condizione del tutto normale, che, di per se’, non impedisce di prendersi cura dei figli” (sez. 1 , 4.12.08, Calderaro, Rv. 242082; Sez. 1 , 4.3.08, Chiovaro, Rv. 240029).
A maggior ragione, si rende necessaria una dimostrazione specifica del preteso stato di “abbandono” ove si verifichi una contestuale assenza dell’altro genitore (posto che, a ben vedere, la condizione di affidamento di un minore ad uno solo dei genitori e’ ormai quasi fisiologica in una societa’ come quella attuale ove sono molti i genitori separati o addirittura “single” – per non esservi stato mai, ab initio, per le piu’ varie ragioni, il secondo genitore).
Nello specifico, quindi, e’ del tutto assertiva la frase del ricorrente secondo cui, “sussistendo l’impossibilita’ della madre di prestare assistenza al minore”, conclusione inevitabile dovrebbe essere quella di trasformare l’attuale stato custodiale in carcere con quello agli arresti domiciliari.
Alla presente declaratoria segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle ammende della somma di 1000 euro e la comunicazione, ex articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, alle autorita’ penitenziarie.
A ben vedere, infatti, si e’ al cospetto di una mera reiterazione dei medesimi argomenti svolti dinanzi al Tribunale che vi ha replicato in modo piu’ che adeguato e con considerazioni del tutto logiche.
Non vi e’, innanzitutto, nessuna “discrasia” – come denuncia il ricorrente – tra l’avere preso le mosse dal principio di presunzione relativa e l’avere escluso che gli elementi “concreti” portati dalla difesa siano inidonei a rivedere il giudizio cautelare.
Al contrario, proprio perche’ la presunzione di adeguatezza delle misura custodiale in carcere, ora, e’ relativa, il Tribunale ha cercato di verificare l’esistenza o il sopraggiungere di elementi che depongano nel senso dell’adeguatezza della, invocata, misura degli arresti domiciliari. A tale stregua, pero’, esso ha opportunamente evidenziato come il decorso del tempo non sia affatto elemento da solo sufficiente a giustificare una revisione della misura.
Ricordando precedenti giurisprudenziali recenti (sez. n. 30.11.11, n. 47416; sez. 11, 20.4.11, n. 21424), si afferma, cioe’, che l’attenuazione o esclusione delle esigenze cautelari non puo’ essere desunta dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura ovvero dalla osservanza puntuale delle prescrizioni ad essa connesse “dovendosi valutare ulteriori elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento della situazione apprezzata all’inizio del trattamento cautelare”. Tra l’altro, di recente, e’ stato anche affermato che – mentre il “tempo trascorso dalla commissione del reato” deve essere oggetto di valutazione, a norma dell’articolo 292 c.p.p., comma 1, lettera c), da parte del giudice che emette l’ordinanza di custodia cautelare u’ “analoga valutazione non e’ richiesta dall’articolo 299 c.p.p., ai fini della revoca o sostituzione
della misura” (Sez. 2 , 30.11.11, Pantano, Rv. 252050).
Opportunamente, poi, il Tribunale ha ricordato il particolare allarme sociale dei comportamenti ascritti al ricorrente, si’ da far “sbiadire” il valore della incensuratezza formale del ricorrente.
Con riferimento alle minacce rivolte al “pentito” (OMISSIS), il commento svolto dai giudici di merito e’ del tutto coerente con la logica e, comunque, convincente. Pur puntualizzando, infatti, che esse erano state rivolte da (OMISSIS) (fratello del ricorrente) i giudici hanno anche sottolineato che spesso tali minacce erano avvenute alla presenza del ricorrente (OMISSIS) si’ che, valutando la cosa dal punto di vista del minacciato – in difetto (perche’ non segnalati da alcuno) di comportamenti di chiara dissociazione da parte del ricorrente rispetto a quelle minacce – e’ agevole ritenere che, quest’ultimo, non avesse percepito le minacce solo come provenienti da (OMISSIS) “singolarmente considerato, quanto dal centro di interessi che il medesimo (OMISSIS), in un’ottica di inevitabile unitarieta’ con i fratelli, rappresenta”.
In pratica, il Tribunale evidenzia bene come non fosse stato apportato dalla difesa alcun elemento di novita’ rispetto ad una situazione che era stata gia’ valutata da quello stesso Tribunale in sede di riesame ed che era stata decisa con provvedimento ormai coperto da giudicato cautelare sicche’, come costantemente affermato da questa S.C. (fra le ultime, sez. 1 , 15.4.10, D’Agostino, rv. 247208; sez. 1 , 19.1.07, Petta, Rv. 236278) una volta formatosi il giudicato cautelare, solo la sopravvenienza di fatti nuovi puo’ giustificare la rivalutazione di quelli gia’ apprezzati e rendere possibile la revoca o la modifica della misura applicata. In altri termini, una istanza in tal senso deve essere fondata su circostanze sopravvenute rispetto alla valutazione fatta del giudice al momento della emanazione della misura, ovvero sulla valutazione di elementi che, pur preesistenti, non erano stati considerati.
Di certo, percio’, la incensuratezza – su cui si richiama l’attenzione – non e’ un elemento nuovo (e, comunque, anch’esso, come sopra detto e’ stato commentato); analogamente, nessun rilievo puo’ avere il comportamento carcerario dovendosi – come detto – valutare “ulteriori elementi” e valendo, altresi’ la considerazione che l’osservanza delle prescrizioni connesse al regime custodiale e’, a ben vedere, il minimo che ci si possa attendere da parte di chi vi e’ sottoposto si’ da non poter essere segnalato come se si trattasse di condotta eccezionale.
Infine, e’ attento, puntuale e corretto e’ anche il ragionamento che il Tribunale sviluppa relativamente al fatto che la presente, piu’ grave, misura determinerebbe una sorta di stato di “abbandono” della minore visto che anche la madre e’ spesso assente per esigenze lavorative.
Pur con tutto il rispetto delle esigenze dei minori (che sono le prime vittime delle condotte illecite dei genitori) viene – giustamente – da osservare, pero’, con i giudici del merito che, nella specie l’assioma che si vuoi far passere e’ inaccettabile.
Cio’ vale, innanzitutto, come principio generale nel senso che e’ veramente eccessivo affermare che l’impegno lavorativo della madre determini una condizione di “assoluto impedimento” ad accudire il figlio “dovendosi altrimenti pervenire alla conclusione che nessuna madre di figli in tenera eta’ possa lavorare”. Non a caso, lo stesso Tribunale cita plurime pronunzie di questa S.C. ove si pone l’accento sulla necessita’ che l’impossibilita’ per la madre di provvedere alle esigenze dei figli sia “assoluta” si’ che la prova di tale condizione deve essere fornita in modo rigoroso “posto che la prestazione giornaliera di attivita’ lavorativa e’ una condizione del tutto normale, che, di per se’, non impedisce di prendersi cura dei figli” (sez. 1 , 4.12.08, Calderaro, Rv. 242082; Sez. 1 , 4.3.08, Chiovaro, Rv. 240029).
A maggior ragione, si rende necessaria una dimostrazione specifica del preteso stato di “abbandono” ove si verifichi una contestuale assenza dell’altro genitore (posto che, a ben vedere, la condizione di affidamento di un minore ad uno solo dei genitori e’ ormai quasi fisiologica in una societa’ come quella attuale ove sono molti i genitori separati o addirittura “single” – per non esservi stato mai, ab initio, per le piu’ varie ragioni, il secondo genitore).
Nello specifico, quindi, e’ del tutto assertiva la frase del ricorrente secondo cui, “sussistendo l’impossibilita’ della madre di prestare assistenza al minore”, conclusione inevitabile dovrebbe essere quella di trasformare l’attuale stato custodiale in carcere con quello agli arresti domiciliari.
Alla presente declaratoria segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle ammende della somma di 1000 euro e la comunicazione, ex articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, alle autorita’ penitenziarie.
P.Q.M.
Visti l’articolo 615 c.p.p. e ss..
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle ammende della somma di 1000 euro.
Visto l’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
Ordina che, a cura della cancelleria, sia trasmessa copia del presente provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario competente per gli adempimenti di cui all’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle ammende della somma di 1000 euro.
Visto l’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
Ordina che, a cura della cancelleria, sia trasmessa copia del presente provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario competente per gli adempimenti di cui all’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis
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