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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 4 febbraio, n. 2413

Svolgimento del processo

1. C.P. , in proprio e nella qualità di genitore del minore C.F.A. , citava in giudizio il Ministero della pubblica istruzione e B.C. davanti al Tribunale di Firenze, affinché fossero condannati in solido al risarcimento dei danni patiti dal figlio durante lo svolgimento di una gita scolastica.
Il Tribunale rigettava la domanda.
2. La sentenza veniva impugnata da C.F.A. , frattanto divenuto maggiorenne, e la Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 1 luglio 2009, in riforma di quella di primo grado, rigettava la domanda nei confronti della B. – ritenendo esistente nei suoi confronti un’ipotesi di caso fortuitomentre la accoglieva nei confronti del Ministero della pubblica istruzione, che condannava al pagamento di Euro 52.484, oltre interessi, nonché delle spese del doppio grado di giudizio.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Firenze propone ricorso il Ministero della pubblica istruzione, con atto affidato a tre motivi.
Resiste C.F.A. con controricorso.

Motivi della decisione

1. Occorre preliminarmente dichiarare l’infondatezza dell’eccezione sollevata nel controricorso in ordine alla presunta inammissibilità del ricorso per mancata sottoscrizione, ai sensi dell’art. 365 del codice di procedura civile. Si tratta, infatti, di un ricorso proposto dall’Avvocatura generale dello Stato, che è titolare di un patrocinio ex lege, nel quale la sottoscrizione si trova sull’ultima pagina, la quale è bianca per la parte restante, contenendo soltanto la firma del Procuratore e dell’Avvocato dello Stato. Tali firme – contrariamente a quanto sostenuto nel controricorso – possono con certezza essere collegate al testo complessivo del ricorso, che contiene la chiara indicazione della sentenza impugnata, in quanto sono apposte sull’ultima pagina (recante il n. 11) per la semplice ragione che non vi era più spazio al termine della pagina 10, che si conclude con l’indicazione della data, come si vede consultando il testo nella sua globalità. Si tratta, perciò, di una procura che non è conferita su di un foglio separato, in quanto essa fa un tutt’uno con il ricorso (v. sentenza 19 dicembre 2008, n. 29785), sicché l’eccezione è respinta.
2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 del codice civile.
Rileva il ricorrente che la Corte d’appello non avrebbe fatto corretta applicazione di detta norma, non avendo inquadrato il tipo di prestazione di vigilanza che poteva essere in concreto preteso nei confronti degli insegnanti. Ai fini dell’esonero dalla responsabilità di cui all’art. 2048 cod. civ., infatti, anche il comportamento tenuto dal creditore danneggiato può integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore; il che avviene quando il danneggiato “scelga autonomamente di porre in essere un comportamento che, in maniera del tutto imprevedibile ed imprevenibile, e per questo eccezionale, metta a repentaglio la propria incolumità fisica”.
Nel caso in esame, i docenti avrebbero potuto salvaguardare l’incolumità fisica dei ragazzi “solamente usando misure di coercizione volte ad impedire qualsiasi movimento corporeo”; ma, essendo inconcepibile tale tipo di comportamento, sarebbe evidente che per i docenti era in effetti impossibile eseguire la propria prestazione di vigilanza.
3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dal comportamento tenuto dagli alunni.
Secondo il ricorrente la motivazione sarebbe apodittica e priva di riscontri, in quanto la Corte d’appello avrebbe dovuto valutare se, in considerazione delle specifiche circostanze di tempo e di luogo, si potesse immaginare l’uso improprio della cosa da parte dei ragazzi, e solo in un momento successivo verificare se i docenti potessero o meno impedirlo. La motivazione, invece, si risolverebbe in una serie di considerazioni prive di riscontri, non tenendo presente il fatto che il comportamento degli alunni era da ritenere come del tutto imprevedibile.
4. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, sono entrambi privi di fondamento.
La giurisprudenza di questa Corte, a partire dalla nota sentenza delle Sezioni Unite 27 giugno 2002, n. 9346, ha stabilito che la presunzione di responsabilità posta a carico dei precettori dall’art. 2048, secondo comma, cod. civ., trova applicazione in relazione al danno causato dal fatto illecito dell’allievo nei confronti dei terzi; mentre in relazione al danno che l’allievo abbia cagionato a se stesso tale previsione non trova applicazione, poiché non può ritenersi esistente, in tal caso, un fatto illecito obiettivamente antigiuridico. In detta seconda ipotesi, la responsabilità dell’istituto scolastico e dell’insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che – quanto all’istituto scolastico – l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni. In siffatta ipotesi, quindi, la responsabilità del personale scolastico è regolata dall’art. 1218 del codice civile, sicché l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre sulla controparte grava l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante (v. anche le sentenze 18 novembre 2005, n. 24456, 3 marzo 2010, n. 5067, 3 febbraio 2011, n. 2559).
Qualora, invece, si tratti di fatto illecito causato dall’allievo a terzi, valgono le regole del citato art. 2048 cod. civ., per cui, al fine di superare la presunzione di responsabilità che grava sull’insegnante, non è sufficiente la sola dimostrazione di non essere stato in grado di spiegare un intervento correttivo o repressivo dopo l’inizio della serie causale sfociante nella produzione del danno, ma è necessario anche dimostrare di aver adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo favorevole al determinarsi di detta serie causale (così la sentenza 22 aprile 2009, n. 9542).
5. La sentenza impugnata si è attenuta a tali principi.
Essa, infatti, ha avuto cura di precisare che nella specie dovevano essere applicati sia l’art. 1218 che l’art. 2048 cod. civ., poiché il danno patito dal C. era da ricondurre in parte a sua stessa responsabilità, ed in parte a quella dei suoi compagni che, insieme a lui, erano saliti su di una catena determinando il crollo del pilastro di appoggio, con conseguente danno.
La Corte territoriale ha infatti osservato che l’incidente si è verificato nel mentre la scolaresca di cui faceva parte il C. , all’epoca tredicenne, si era fermata nei pressi della tenuta di B.C. per fare alcune fotografie. In quella occasione un gruppo di sei o sette ragazzi, fra i quali il C. , era salito su di una catena di ferro esistente tra due pilastri di mattoni, determinando in tal modo il distacco della catena ed il conseguente crollo di uno dei pilastri.
Ha quindi ritenuto la Corte territoriale che le modalità del fatto consentivano di ritenere provata la sussistenza del caso fortuito in relazione alla posizione della B. – stante l’uso, evidentemente anomalo ed imprevedibile, della catena – mentre imponevano la condanna del Ministero ai sensi degli artt. 1218 e 2048 del codice civile. Ed invero, secondo la Corte, doveva escludersi la sussistenza della prova liberatoria in mancanza di elementi dai quali poter desumere la imprevedibilità del fatto e la sua conseguente inevitabilità, anche perché non era emerso che i docenti accompagnatori avessero adottato misure idonee ad evitare il verificarsi di eventi dannosi. D’altra parte, la “naturale vivacità dei ragazzi di tredici anni” faceva sì che l’uso improprio della catena non potesse considerarsi un evento imprevedibile per gli insegnanti.
5.1. Si tratta, com’è agevole constatare, di una motivazione corretta, bene argomentata e del tutto priva di vizi logici, sulla quale si infrangono i rilievi dei due motivi di ricorso in esame.
Ed infatti, appare evidentemente assurda l’idea, sostenuta nel primo motivo, che i docenti, allo scopo di impedire la prosecuzione dell’azione rivelatasi poi dannosa, non avessero altra possibilità se non quella di esercitare una sorta di coercizione fisica sui ragazzi. La sentenza rileva che si stava svolgendo una gita scolastica e che i ragazzi stavano facendo alcune fotografie, contesto nel quale è evidente che sarebbe stato onere dei docenti attivarsi in modo da fare sì che i ragazzi – in numero di sei o sette – scendessero dalla catena immediatamente, in modo da evitare di creare un contesto potenzialmente pericoloso; d’altra parte, la sollecitazione di una catena fino al punto di fare crollare il pilastro al quale essa era attaccata “deve” essersi protratta per un minimo di tempo, nel quale una qualche iniziativa poteva essere assunta. Ma non risulta che ciò sia accaduto, e su questo punto l’onere della prova spettava chiaramente all’amministrazione oggi ricorrente.
Pertanto i motivi sono da respingere, non avendo l’amministrazione assolto a tale onere, né ai sensi dell’art. 1218, né ai sensi dell’art. 2048 del codice civile.
6. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa interpretazione degli artt. 2059 e 2697 del codice civile.
Secondo la parte ricorrente la sentenza sarebbe caduta in errore nella parte in cui ha liquidato in favore del danneggiato sia il danno biologico che il danno morale. Secondo il noto insegnamento di cui alla sentenza delle Sezioni Unite 11 novembre 2008, n. 26972, il danno è da considerare in modo unitario, evitando indebite duplicazioni; nel caso di specie, quindi, doveva essere liquidata un’unica somma a titolo di danno non patrimoniale.
6.1. Il motivo non è fondato.
La Corte d’appello ha liquidato, in favore del C. , due diverse voci di danno, quello biologico (in base all’invalidità permanente ed a quella temporanea) e quello morale.
Ora, come questa Corte ha avuto recentemente modo di ribadire, il danno biologico inteso quale lesione del diritto alla salute ed il danno morale inteso quale sofferenza conseguente all’illecito non costituiscono, di per sé, voci automaticamente sovrapponibili, sicché la separata liquidazione delle stesse non determina, di per sé, alcuna indebita duplicazione (sentenze 12 settembre 2011, n. 18641, 16 febbraio 2012, n. 2228, e 3 ottobre 2013, n. 22585). Come questa Corte ha precisato, infatti, “sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie di danno biologico e danno morale continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice al fine di dare contenuto e parametrare la liquidazione del danno risarcibile. Pertanto è erronea la sentenza di merito, la quale a tali sottocategorie abbia fatto riferimento, solo se, attraverso il ricorso al danno biologico ed al danno morale, siano state risarcite due volte le medesime conseguenze pregiudizievoli (ad esempio ricomprendendo la sofferenza psichica sia nel danno “biologico” che in quello “morale”); se, invece, facendo riferimento alle tradizionali locuzioni, il giudice abbia avuto riguardo a pregiudizi concretamente diversi, la decisione non può considerarsi erronea in diritto” (così la sentenza 19 febbraio 2013, n. 4043). E la censura proposta, nel caso di specie, non specifica in alcun modo il perché ci sarebbe stata una duplicazione, limitandosi a contestare, in astratto, la possibilità di liquidare il danno morale separatamente da quello biologico.
Da tanto consegue l’infondatezza del motivo.
7. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 4.500, di cui Euro 200 per spese, oltre accessori di legge.

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