CASSAZIONE

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 3 novembre 2014, n. 45225

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente
Dott. AMORESANO Silvio – Consigliere
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere
Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere

Dott. GAZZARA Santi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Chieti;

nei confronti di:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 26/06/2013 del Gup presso il Tribunale di Chieti;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. BALDI Fulvio, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio;

RITENUTO IN FATTO
1. E’ impugnata la sentenza indicata in epigrafe emessa dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Chieti che ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di (OMISSIS), previa riqualificazione del fatto nel reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 10 quater, perche’ il fatto non e’ previsto dalla legge come reato.
A (OMISSIS) era contestato il reato previsto dall’articolo 81 cpv. c.p., articolo 640 c.p., comma 2, n. 1, perche’, in qualita’ di amministratore unico della ditta societa’ (OMISSIS) , con artifici e raggiri consistiti nel porre a conguaglio con le somme dovute all’INPS a titolo di assegni familiari, nei Mod. DM/10 relativi ai mesi novembre e dicembre 2011 la complessiva somma di euro 211,54 dovuta al lavoratore (OMISSIS), somme mai corrisposte allo stesso, traeva in inganno i competenti funzionari dell’INPS sull’ammontare delle somme dovute all’Ente per contributi previdenziali ed assistenziali, cosi’ procurandosi un ingiusto profitto pari all’importo delle somme suindicate indebitamente poste a conguaglio. In (OMISSIS), nei periodi suindicati.
Nel pervenire a tale conclusione il Gup premetteva che (OMISSIS) aveva presentato, con il mezzo telematico, un DM 10 in cui, contrariamente al vero, aveva dichiarato di aver corrisposto al lavoratore (OMISSIS) gli emolumenti dovuti allo stesso dall’INPS a titolo di assegni familiari. Da tale dichiarazione menzognera era disceso che il (OMISSIS) avesse omesso di pagare quanto dovuto a titolo di debito che egli aveva nei confronti dell’INPS per altre ragioni, ritenendoli conguagliati con il credito dallo stesso asseritamente vantato verso l’ente previdenziale.
Le dichiarazioni menzognere erano quindi servite per conseguire indebitamente un vantaggio patrimoniale costituito dal veder compensato un debito nei confronti dell’INPS.
Nel fatto, cosi’ come ricostruito, il Gup ha ritenuto di non ravvisare una condotta che avesse effettivamente indotto in errore l’autore della disposizione patrimoniale in quanto, nel caso di specie, il diritto alla compensazione, e dunque il diritto al mancato pagamento dei contributi dovuti, non presupponeva l’effettivo accertamento da parte dell’INPS dei presupposti fondanti il diritto stesso, che era riconosciuto sulla base di una sorta di autocertificazione dell’interessato (il DM 10) attestante appunto i presupposti per la compensazione, essendo demandato in prima battuta all’Inps di raccogliere le dichiarazioni del datore di lavoro e sgravare il dichiarante dall’obbligo di versamento dei contribuiti da lui dovuti all’ente previdenziale e viceversa compensati sulla base della dichiarazione contenuta nel DM 10, senza alcuna valutazione del merito delle stesse. In sostanza, all’Inps competeva semplicemente una verifica di carattere meramente formale sulle condizioni dichiarate da ciascun datore di lavoro e l’ente previdenziale non doveva affatto svolgere un controllo sostanziale sulla effettiva esistenza di tali condizioni. Non vi era dunque la possibilita’ di induzione in errore poiche’ il soggetto destinatario della dichiarazione menzognera doveva limitarsi a recepire la dichiarazione stessa e ad applicare quanto previsto dalla legge (il diritto alla compensazione) sulla base di tale semplice presupposto, di cui nulla avrebbe potuto o dovuto sindacare in prima battuta.
Le false dichiarazioni rese dall’imputato non valevano pertanto a configurare gli estremi del reato di truffa in mancanza del necessario requisito dell’induzione in errore.
La condotta era invece sussumibile nella fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 quater, (reato di indebita compensazione) con la conseguenza che, sulla base del rinvio contenuto nell’articolo 10 quater, ai limiti di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis, non essendo stata integrata la soglia di punibilita’ di 50.000 euro, il fatto doveva ritenersi privo di rilevanza penale e dunque non previsto dalla legge come reato.
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza, ricorre il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Chieti che affida il gravame ad un unico motivo col quale lamenta violazione di legge per erronea e falsa applicazione delle legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b)).
Assume il ricorrente come, per l’integrazione del reato di truffa, sia sufficiente il ricorso alla semplice menzogna ovvero all’indicazione di fatti non corrispondenti al vero purche’ idonei ad ottenere, da parte del destinatario, atti di diposizione patrimoniale tali da consentire il perseguimento di in ingiusto profitto con altrui danno.
Peraltro, aggiunge il ricorrente che non sarebbe neppure condivisibile l’assunto del Gup, laddove ha ritenuto il fatto sussumibile nella fattispecie incriminatrice prevista dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 quater, in quanto detta norma ha ad oggetto solo ed esclusivamente le obbligazioni di natura tributaria non rientrando in detta categoria l’indennita’ di malattia dovuta al lavoratore.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ fondato.
2. Il Gup ritiene che la condotta addebitata all’imputato integri il reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 quater, (reato di indebita compensazione che punisce chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi del Decreto Legislativo 9 luglio 1997, n. 241, articolo 17, crediti non spettanti o inesistenti) e tanto sul rilevo che il Decreto Legislativo n. 241 del 1997, abbia previsto il cosiddetto versamento unitario che comprende le imposte sui redditi (nonche’ le relative addizionali e le ritenute), l’Iva, le imposte sostitutive delle imposte sui redditi e dell’Iva, gli interessi dovuti in ipotesi di pagamenti rateali, i contributi previdenziali ed assistenziali dovuti all’INPS, i premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e le altre somme dovute allo Stato, alle regioni e agli enti previdenziali risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche.
Secondo il Tribunale nell’ambito di operativita’ dei versamenti unitari rientrano dunque non soltanto le imposte (sui redditi, IVA, IRAP), ma anche i rapporti con gli enti previdenziali e gli enti locali, con la conseguenza che il Decreto Legislativo n. 241 del 1997, all’articolo 17, comma 1, ha cosi’ previsto che il contribuente possa compensare le imposte, i contributi ed altre somme, con eventuali crediti vantati nei confronti dei medesimi soggetti, relative alle dichiarazioni e alle denunce periodiche presentate successivamente all’entrata in vigore di detto decreto, sanzionando penalmente le infedelta’ dichiarative con il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 quater.
3. La tesi non e’ fondata.
Dal capo di imputazione e dal testo del provvedimento impugnato, unici atti ai quali la Corte ha accesso ai fini del richiesto sindacato di legittimita’, si evince come la condotta contestata esuli dalla fattispecie di reato prevista dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 quater, il cui modello legale (indipendentemente dalla controversa questione, che qui non rileva, circa l’ambito di applicazione della fattispecie se cioe’ relativa alla sole imposte dei redditi ed Iva o se a tutti i tributi erariali) esige che non siano versate somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi del Decreto Legislativo 9 luglio 1997, n. 241, articolo 17, crediti non spettanti o inesistenti con superamento della soglia di punibilita’ prevista dall’articolo 10 bis.
Va infatti ricordato che, anteriormente all’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 241 del 1997, l’ammissibilita’ dell’istituto della compensazione in materia tributaria era generalmente negata e l’articolo 17, del predetto decreto ha consentito di superare tale impostazione mediante la previsione di un versamento unitario (cosiddetto modello F24) delle imposte, dei contributi Inps e delle altre somme dovute a Stato, regioni e ad altri enti previdenziali.
L’articolo 10 quater, al pari dell’articolo 10 ter, e’ stato poi inserito nella Legge 10 marzo 2000, n. 74, il Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 223, articolo 35, comma 7, convertito in Legge 4 agosto 2006, n. 248, (disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonche’ interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale) perche’ si rilevo’ che un danno alle ragioni erariali puo’ essere cagionato tanto da un omesso versamento delle imposte quanto dalla compensazione con crediti non spettanti o inesistenti.
In materia previdenziale gia’ esisteva una copertura sanzionatoria prevista dalla Legge 24 novembre 1981, n. 689, articolo 37, come sostituito dalla Legge 23 dicembre 2000, n. 388, articolo 116, comma 19, secondo il quale, salvo che il fatto costituisca piu’ grave reato, il datore di lavoro che, al fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie, omette una o piu’ registrazioni o denunce obbligatorie, ovvero esegue una o piu’ denunce obbligatorie in tutto o in parte non conformi al vero, e’ punito con la reclusione fino a due anni quando dal fatto deriva l’omesso versamento di contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza ed assistenza obbligatorie per un importo mensile non inferiore al maggiore importo fra cinque milioni di lire (euro 2.582,28) mensili e il cinquanta per cento dei contributi complessivamente dovuti per lo stesso mese.
4. Cio’ posto, lo stesso Tribunale sembra infatti fare leva per escludere il reato di truffa e ritenere invece quello previsto dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 quater, sul rapporto di specialita’ unilaterale esistente tra le rispettive fattispecie, epilogo piu’ volte convalidato da questa Corte ma in relazione ad ipotesi diverse (da ultimo Sez. 2, n. 22191 del 04/04/2014, P.M. in proc. Libertone, Rv. 259578) ossia a comportamenti fraudolenti diretti a porre in compensazione, ai sensi del Decreto Legislativo n. 241 del 1997, articolo 17, partite debitorie in favore del fisco con crediti inesistenti attraverso il versamento unitario, essendosi affermato che in tal caso si realizza il solo reato tributario.
Salvo poi a convalidare, contraddittoriamente, l’impostazione accusatoria contenuta nel capo di imputazione, affermando che l’artifizio (ossia l’avere falsamente dichiarato di aver corrisposto ad un lavoratore emolumenti dovuti allo stesso dall’INPS a titolo di assegni familiari ritenendoli conguagliati con il credito dall’imputato asseritamente vantato verso l’ente previdenziale) sia stato posto in essere attraverso una condotta realizzata non attraverso la pura e semplice rivendicazione di un credito inesistente ma con la dichiarazione (fraudolenta perche’ falsa) di avere corrisposto somme ad un determinato lavoratore, veicolando detta falsita’ attraverso la presentazione del modello DM 10 che il Tribunale, invece di considerare come un quid pluris idoneo ad ingannare l’ente previdenziale, svaluta considerandolo come una sorta di autocertificazione dell’interessato attestante i presupposti per la compensazione, senza che competesse all’ente previdenziale alcuna valutazione circa il merito della dichiarazione e non essendovi pertanto possibilita’ di induzione in errore poiche’ il soggetto destinatario della dichiarazione menzognera doveva limitarsi a recepire la dichiarazione stessa e ad applicare quanto previsto dalla legge (il diritto alla compensazione) sulla base di tale semplice presupposto.
Va allora ricordato l’orientamento piu’ volte affermato dalla giurisprudenza di legittimita’ secondo il quale integra il delitto di truffa la condotta del datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme dichiarate come corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando cosi’ un ingiusto profitto e non gia’ una semplice evasione contributiva (Sez. 2, n. 11184 del 27/02/2007, Maravalle, Rv. 236131; Sez. 2, n. 42937 del 03/10/2012, Riondato, Rv. 253646; Sez. 3, n. 12169 dei 19/10/2000, P.M. in proc. Doti, Rv. 217657).
Ne deriva che quando il datore di lavoro non si limiti ad esporre dati e notizie false in sede di denunce obbligatorie, ma dichiari falsamente di avere corrisposto ad un lavoratore dipendente un’indennita’ di disoccupazione, di maternita’, assegni familiari o altra indennita’ a carico dell’ente previdenziale, cosi’ conseguendo l’ingiusto profitto di conguagliare il relativo importo con i contributi dovuti all’INPS, realizza il reato di truffa e non il reato di cui alla Legge 24 novembre 1981, n. 689, articolo 37, e neppure il reato di cui al Decreto Legislativo n 74 del 2000, articolo 10 quater.
5. Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata va annullata con rinvio al tribunale di Chieti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Chieti.

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