Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 29 settembre 2015, n. 19246
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Presidente
Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere
Dott. ARMANO Uliana – rel. Consigliere
Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale in calce al controricorso;
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 583/2013 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 15/06/2013, R.G.N. 225/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/06/2015 dal Consigliere Dott. ULIANA ARMANO;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Pratis Pierfelice che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L’avvocato (OMISSIS) ha citato in giudizio davanti al Tribunale di Gorizia gli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti a causa di due procedimenti disciplinari promossi dall’Ordine degli avvocati di Gorizia, di cui era presidente (OMISSIS), uno dei quali seguito dalla comminatoria della sanzione della censura da parte dell’Ordine degli avvocati di Trieste.
Deduceva che il primo provvedimento era stato travolto dalla decisione della Corte di cassazione ed il secondo revocato dall’Ordine degli avvocati di Trieste. Il Tribunale di Gorizia ha rigettato la domanda, decisione confermata dalla Corte d’appello di Trieste, con sentenza del 25 giugno 2013.
Avverso detta decisione propone ricorso l’avvocato (OMISSIS) con quattro motivi e due motivi, definiti subordinati, illustrati da memoria. Resistono con controricorso gli intimati.
(OMISSIS) presenta anche memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La Corte di appello, qualificato l’oggetto della controversia come accertamento della responsabilita’ dei singoli componenti del Consiglio dell’Ordine degli avvocati per aver con il loro voto favorevole contribuito in concreto all’apertura di due procedimenti disciplinari, conclusisi il primo con il proscioglimento dell’attuale ricorrente ed il secondo con la revoca della delibera, che avrebbero cagionato danni all’avvocato (OMISSIS), ha ritenuto che la fattispecie doveva essere inquadrata nell’ambito dell’articolo 2043 c.c.; che mancava in radice il fatto illecito generatore di responsabilita’, non potendo essere tale l’aver concorso a l’apertura di un procedimento disciplinare in quanto dalla legge professionale vigente all’epoca, ed in particolare dal disposto del Regio Decreto n. 1578 del 1933, articolo 38 si ricava che tale procedimento non era altro che il mezzo attraverso il quale il Consiglio dell’ordine, degli avvocati accerta se il soggetto incolpato abbia posto meno comportamenti contrari alla dignita’ e al decoro professionale.
Di conseguenza ,essendo l’esercizio dell’azione disciplinare da parte dei componenti del consiglio dell’ordine attivita’ non solo lecita e legittima, ma anzi doverosa, mancava l’antigiuridicita’ della condotta.
Nell’ambito di tale sistema, la formulazione di capi d’incolpazione si configura non solo come attivita’ lecita, ma necessaria al fine di garantire il principio del contraddittorio o di permettere al professionista di difendersi, di talche’ quanto in essi contestato non puo’ configurarsi come ingiuria e diffamazione.
2.Con il primo motivo di ricorso si denunzia violazione dell’articolo 81 c.p.c., Decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1957, n. 3, articolo 24, articoli 1292 e 1294 c.c. e articolo 187 c.p. in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 1.
Sostiene il ricorrente che la Corte di merito avrebbe errato nel non ritenere, in violazione del Decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1957, n. 3, articolo 24, in tema di responsabilita’ degli organi collegiali della pubblica amministrazione, la solidarieta’ del presidente e di tutti i membri del collegio che hanno partecipato all’atto.
3. Con il secondo motivo si denunzia nullita’ della sentenza per violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4 in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 4.
Il ricorrente censura l’affermazione della sentenza impugnata la’ dove ha ritenuto che la sentenza di primo grado non aveva dichiarato la carenza di legittimazione passiva dei convenuti, tant’e’ che aveva deciso di merito la controversia.
4. I due motivi si esaminano congiuntamente e sono infondati.
Infatti, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, i giudici di merito hanno correttamente individuato la domanda proposta ed hanno valutato la responsabilita’ dei singoli componenti dell’organo collegiale Consiglio dell’Ordine degli avvocati, provvedendo su tale domanda e quindi senza dichiarare alcuna carenza di legittimazione passiva degli appellati, pervenendo al rigetto della stessa.
4. Con il terzo motivo si’ denunzia violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 2727 e 2729 c.c. in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Il ricorrente sostiene che la Corte territoriale, pur avendo individuato correttamente l’oggetto della causa, ossia l’accertamento della responsabilita’ dei singoli componenti del COA di Gorizia e di Trieste per aver concorso con loro voto favorevole all’emanazione dei provvedimenti disciplinari oggetto del ricorso e generatori di danni, ha poi erroneamente respinto l’appello e disatteso la domanda di risarcimento del danno, assumendo che nella specie mancherebbe in radice il fatto in illecito generatore della responsabilita’.
5. Con il quarto motivo si denunzia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5.
Sostiene il ricorrente che per aversi risarcibilita’ del danno prodotto da provvedimenti della pubblica amministrazione, poi dichiarati illegittimi ed annullati, non occorre dimostrare l’elemento soggettivo della colpa, in quanto l’aggettivo” ingiusto” riferito al danno fa si’ che per aversi ingiustizia del danno, non e’ richiesto che il provvedimento sia violatore di norme, ma soltanto che sia stato emanato in assenza di una causa di giustificazione.
6. I due motivi si trattano congiuntamente per la stretta connessione logico giuridica che li lega e sono infondati.
Infatti la decisione adottata dai giudici di merito e’ conforme a quanto affermato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 15873 del 25/06/2013, vale a dire che il codice deontologico forense non ha carattere normativo ma e’ costituito da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono date per attuare i valori caratterizzanti la professione e garantire la liberta’, la sicurezza e la inviolabilita’ della difesa, con la conseguenza che la violazione di detto codice rileva in sede giurisdizionale, solo in quanto si colleghi all’incompetenza, l’eccesso di potere o la violazione di legge, cioe’ ad una delle ragioni per le quali il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, articolo 56, comma 3, convertito con modificazioni nella Legge 22 gennaio 1934, n. 36, consente il ricorso alle sezioni unite della Cassazione, che e’ possibile esclusivamente in caso di uso del potere disciplinare dagli ordini professionali per fini diversi da quelli per cui la legge lo riconosce (cfr. S.U. 19 ottobre 2011 n. 21584, 4 febbraio 2009 n. 2637 e 28 settembre 2007 n. 20360).
Inoltre, premesso il codice deontologico forense, prevede t’obbligo generale per gli avvocati di “adempiere al loro ministero con dignita’ e decoro, come si conviene all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’amministrazione della giustizia’, in particolare, di “… comportarsi in giudizio con lealta’ e probita’” legislativamente sancito dal R.D.L. 22 novembre 1933, n. 1578, articolo 12, comma 1, ed articolo 88 c.p.c., comma 1, e’ da dire che, mentre l’accertamento della non conformita’ della condotta degli iscritti agli ordini professionali ai canoni della dignita’ e del decoro professionale e’ rimesso agli ordini medesimi, i quali hanno il potere di emanare norme di deontologia che gli iscritti sono tenuti ad osservare sotto pena di applicazione di sanzioni disciplinari, il rispetto dell’autonomia degli ordini rende inammissibile la censura di violazione di legge avverso le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare che si risolva nella prospettazione di un asserito contrasto di dette decisioni con le norme deontologiche (cfr, in terminis, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 762 del 23.1.2002 – sent. n.5164 del 2004).
7.A tali principi si sono attenuti i giudici di merito ritenendo che il comportamento degli ordini professionali non era altro che il mezzo per esercitare il controllo loro domandato affinche’ il comportamenti dell’incolpato non sia contrario alla dignita’ e al decoro professionale.
8.Gli ulteriori due motivi, definiti subordinati, con cui si denunzia la violazione degli articoli 91 e 92 c.p.c., si rigettano avendo i giudici di merito in ogni fase seguito correttamente il principio della soccombenza.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso a condanne ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in euro 1.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e spese generali, per ciascuno dei resistenti.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’articolo 13, comma 1 bis.
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