locazione bis

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 26 maggio 2014, n. 11675

Svolgimento del processo

Tra P.M. , dante causa dei ricorrenti P.G. , P. , E. e R.E. e il Comune di Lecce esisteva un contratto di locazione relativo ad un edificio sito in (omissis) , adibito a plesso scolastico, contratto dichiarato risolto alla data del 31.7.1993 con sentenza confermata in cassazione.
I P. proponevano una domanda di risarcimento danni per il mancato godimento dell’immobile dal 31.7.1993 al 7.8.1997.
Il Tribunale di Lecce, con sentenza del 2006, rigettava la domanda per la ritardata restituzione dell’immobile, ritenendo che gli attori non avessero fornito prova del perché non avessero ripreso la disponibilità dell’immobile, messo a loro disposizione dal Comune.
I P. proponevano appello, rappresentando che una loro autonoma domanda sempre per il risarcimento danni per ritardato rilascio dell’immobile tra le stesse parti, ma relativa al successivo periodo 7.8.1997/gennaio 2001 era stata accolta dal Tribunale di Lecce con sentenza del 1998, e che si era formato il giudicato sul fatto che l’immobile fino al 7.8.1997 non fosse stato loro restituito; il Comune si costituiva (tardivamente) sostenendo che alla data di cessazione del rapporto (31.7.1993) l’immobile era stato anche riconsegnato.
La Corte d’appello di Lecce con sentenza n. 214 del 2007 accoglieva in parte l’appello dei P. , statuendo che nessuna efficacia di giudicato spiegava in giudizio la sentenza del 1998 del Tribunale di Lecce, avendo i due giudizi un oggetto distinto e non risultando affatto accertato con efficacia di giudicato dalla prima sentenza che il Comune avesse o meno riconsegnato l’immobile al termine del rapporto di locazione. Puntualizzava però che gravava sul conduttore l’onere di provare l’effettiva restituzione del bene locato al termine del rapporto, risultando solo l’avvenuto sgombero dei locali, non equivalente a riconsegna di essi al locatore. Ciò premesso, affermava il diritto dei P. alla percezione dei canoni per il periodo predetto, a titolo di risarcimento forfettario della mancata disponibilità della cosa dovuta in restituzione.
La corte rigettava invece la domanda dei locatori volta al risarcimento del maggior danno, in difetto di prova da parte dei locatori di aver subito un danno in concreto per il mancato utilizzo dell’immobile nel periodo.
Determinava il corrispettivo dovuto sulla base del canone annuo pattuito, pari a 45 milioni di lire, oltre interessi dalla data della domanda, con esclusione del diritto alla rivalutazione, trattandosi di un debito di valuta di natura contrattuale e con esclusione del maggior danno in difetto di prova.
P.G. , P. , E. e R.E. propongono ricorso per cassazione articolato in tre motivi avverso la sentenza n. 214 del 2007, emessa in data 22.3.2007 dalla Corte di Appello di Lecce, nei confronti del Comune di Lecce.
Il Comune di Lecce resiste con controricorso.
Le parti non hanno depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti P. denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c. in relazione all’art. 360, primo comma, n.3 c.p.c., sostenendo che la sentenza impugnata avrebbe violato il giudicato formatosi nella sentenza del 1998 tra le stesse parti (che determinava l’indennità di ritardato rilascio dovuta per il periodo successivo, dal 1997 al 2001), sulla misura del canone dovuto a titolo di indennità da ritardato rilascio dell’immobile, in quanto risultava nell’altro giudizio ormai definitivamente accertato che il canone di riferimento per determinare l’indennità fosse quello di anno in anno aggiornato, e non quello originario di 45 milioni annui.
Con il secondo motivo, i P. si dolgono della violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1591 c.c. e 24 della legge n. 392 del 1978 in relazione all’art. 360, 1 comma n. 3 c.p.c..
Evidenziano che la previsione dell’art. 1591 c.c. ha una funzione riparatoria, comprensiva dell’obbligo a carico del conduttore di continuare a pagare il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna e di pagare il maggior danno. Ribadiscono che il canone in questo caso dovuto è quello aggiornato in base agli indici istat, anche in difetto della prova da parte del locatore che lo stesso fosse stato via via aggiornato finché durava il rapporto.
Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1219 e 1224 c.c. in relazione all’art. 360, primo comma n. 3 c.p.c. contestando la pronuncia della corte d’appello sul punto della liquidazione degli interessi, con decorrenza dalla domanda (risalente al 2003) al saldo, anziché dalle singole scadenze contrattuali, ovvero da ciascun mese del periodo di ritardato rilascio, al saldo, o quanto meno dal 19.9.1996, data della notifica dello sfratto per morosità.
1 primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto sottopongono alla decisione della corte un’unica questione, ovvero se il canone in base al quale calcolare l’indennità per il ritardato rilascio sia quello originariamente pattuito nel contratto o quello stesso canone comprensivo delle rivalutazioni annuali in base agli indici istat, anche se non richiesti in corso del rapporto.
Essi sono infondati.
Il canone da prendere a base di calcolo per la determinazione dell’indennità per ritardato rilascio del bene già locato è quello concordato, per tale intendendosi quello effettivamente corrisposto nel corso del rapporto. Se infatti l’aumento in base all’indice istat è dovuto per legge (per le locazioni ad uso abitativo), esso deve anche essere richiesto dal locatore, se il locatore non lo ha mai richiesto e non ne ha quindi mai goduto per tutto il rapporto, la misura del risarcimento non può essere superiore rispetto a quanto egli avrebbe effettivamente percepito in corso di rapporto, in difetto di prova del maggior danno.
Inoltre, come osserva esattamente il Comune nel controricorso e come osservato dal P.G. in udienza, nel caso di specie trattasi di locazione non abitativa, per cui l’aumento istat non era dovuto in ogni caso ma soltanto se convenuto tra le parti, ex art. 32 della legge n. 392 del 1978. Infatti, nelle locazioni non abitative, in base all’art. 32 della legge n. 392 del 1978, così come novellato dall’art. 1, comma 9, sexies del d.l. 7 febbraio 1985, n. 12, convertito in legge 5 aprile 1985, n. 118, il locatore, solo in caso di conforme pattuizione con il conduttore (Cass. 5008/1996, 11649/02) e abilitato a (richiedere annualmente l’aggiornamento del canone per eventuali variazioni del potere di acquisto della moneta. Non risulta e non è stato neppure allegato che tale pattuizione fosse stata inserita nel contratto di locazione ad uso diverso concluso tra le parti.
Inoltre si può aggiungere che in tema di locazione, la richiesta di aggiornamento del canone da parte del locatore si pone come condizione per il sorgere del relativo diritto, con la conseguenza che il locatore stesso può pretendere il canone aggiornato solo dal momento di tale richiesta, senza che sia configurabile un suo diritto ad ottenere il pagamento degli arretrati, e ciò sia in caso di locazione di immobili ad uso non abitativo, giusta disposto dell’art. 32 della legge cosiddetto sull’equo canone, sia in caso di locazioni ad uso abitativo, ex art. 24 stessa legge (v. Cass. n. 14673 del 2003).
Poiché le parti non avevano convenuto l’aggiornamento, di conseguenza esso non era dovuto, e in ogni caso non era mai stato richiesto, quindi quel diritto non era mai sorto, pertanto il parametro economico da prendere a riferimento per la quantificazione dell’indennità da ritardato rilascio dell’immobile era il canone originariamente concordato.
Neppure si può ritenere che sulla debenza di tale aggiornamento si sia ormai formato il giudicato non avendo la parte ricorrente documentato che la questione sia stata oggetto di specifico accertamento.
Il terzo motivo è anch’esso infondato.
Esso sottopone all’attenzione della corte la questione se gli interessi sull’indennità da ritardato rilascio siano dovuti dalla domanda, come previsto dalla sentenza impugnata, o dalle singole scadenze contrattuali.
La sentenza di appello correttamente statuisce che essi siano dovuti dal momento della domanda, in quanto essi costituiscono un debito di valuta, diversamente dalla obbligazione di risarcire il maggior danno, che è tipicamente risarcitoria e costituisce pertanto un debito di valore (in questo senso v. Cass. n. 3183 del 2006 e Cass. n. 14243 del 1999).
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Pone a carico dei ricorrenti le spese legali sostenute dal controricorrente, che liquida in complessivi Euro 2.800,00, di cui 200,00 per spese oltre accessori.

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