maltrattamenti-violenza

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 26 maggio 2014, n. 21314

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 21/11/2013 il Tribunale di Reggio Calabria, decidendo sulla richiesta di riesame proposta nell’interesse di E.M., ha sostituito la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari.
A carico del M. il Tribunale ha ritenuto la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di lesioni aggravate e di sequestro di persone in danno della compagna convivente L.B..
2. Il M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico, articolato motivo, con il quale si lamentano vizi motivazionali e violazione degli artt. 273 cod. proc. pen. e 605 cod. pen., in particolare criticando la conclusione del Tribunale in ordine alla idoneità della condotta posta in essere a limitare la libertà della donna, nonostante che gli stessi giudici avessero riconosciuto che la fascetta legata alla gamba della vittima era posta al contrario, in modo che quest’ultima si era riuscita a liberare agevolmente.
Sotto altro profilo, si critica l’ordinanza per avere trascurato di esaminare quanto dal medesimo indagato riferito in sede di interrogatorio, ossia che la fascetta era stata posta in maniera tale che la vittima se ne liberasse, come del resto era stato confermato dalla stessa persona offesa. In senso contrario, non rileva l’elemento soggettivo, giacché la valutazione dei profili oggettivi deve necessariamente precedere quelli di natura psicologica.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.
Premesso che la configurabilità del delitto di sequestro di persona prescinde dalla durata dello stato di privazione della libertà, che può essere limitato anche a un tempo breve (Sez. 5, n. 19548 del 17/04/2013, M., Rv. 256746), osserva la Corte che, secondo l’incontestata ricostruzione dei fatti operata dal giudice della cautela, la vittima, dopo essere stata colpita con calci e pugni, era stata legata ad un letto con una catena, assicurata, da un lato, con un lucchetto e, dall’altro lato, con una fascetta di plastica bianca. Solo dopo mezz’ora la donna, approfittando del atto che l’aggressore aveva fissato la fascetta al contrario, era riuscita a liberarsi.
Ne discende che le argomentazioni sull’inidoneità dell’azione a determinare il fine della costrizione della libertà personale sono infondate, giacché, secondo quanto rappresentato nello stesso ricorso, il fatto che la vittima sia alfine riuscita a liberarsi non dimostra affatto, anche a tacer delle condizioni in cui la donna si trovava per effetto delle violenza sofferte in precedenza, che l’azione posta in essere dall’indagato fosse caratterizzata da un’originaria e assoluta inidoneità della stessa a rendere impossibile o estremamente difficile il risultato della privazione della libertà personale.
La tesi difensiva che vorrebbe corroborare tale assunto, alla luce della direzione soggettiva della volontà soggettivo dell’indagato, è poi assolutamente smentita dalle risultanze processuali. Del resto, una volontà diversa da quella di privare la donna della libertà non è razionalmente spiegata dal ricorrente, che non illustra le diverse ragioni della condotta. Egli, pur non negando le violenze, ha giustificato la condotta come uno “scherzo” – del tutto incomprensibile, vista il comportamento precedente – o come finalizzata ad evitare che la donna “facesse danni” – ciò che invece ha un senso, solo se la limitazione della libertà era perseguita come un effettivo obiettivo.
2. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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