cassazione 7

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  23 ottobre 2015, n. 42684

Ritenuto in fatto

1. I sigg.ri P.G. e Pr.Sa. ricorrono per l’annullamento della sentenza del 29/10/2014 della Corte di appello di Palermo che, decidendo in sede rescissoria a seguito dell’annullamento della sua precedente sentenza del 24/06/2013, cassata da questa Corte con sentenza Sez. 4, n. 15044 del 07/03/2014, in parziale riforma della sentenza del 21/10/2009 del Tribunale di Termini Imerese, concesse agli imputati le circostanze attenuanti generiche, ha rideterminato in due mesi e venti giorni di reclusione la maggior pena, già ridotta per il rito, inflitta in primo grado agli odierni ricorrenti ritenuti responsabili del reato di cui agli artt. 40, cpv., 590, cod. pen., perché, quale amministratore unico e legale rappresentante della I.L.E.S. S.r.l. (società appaltatrice) la P., direttore tecnico di cantiere e responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi per l’impresa appaltante il Pr., avevano cagionato, per colpa, lesioni personali gravi al lavoratore dipendente M.S. intento a rimuovere la malta cementizia in eccesso dalle pietre di un arco in muratura alto tre metri, in assenza della relativa armatura di sostegno che avrebbe dovuto essere disarmata solo a costruzione finita; a causa del cedimento dell’arco il lavoratore aveva riportato la frattura dello zigomo destro della mascella. Fatto commesso in (omissis).
Secondo la ricostruzione dei Giudici di merito, il venerdì precedente l’infortunio era stata completata la realizzazione di un arco in pietra viva. Nella prima mattinata del lunedì successivo l’arco era stato disarmato dalle impalcature di legno che lo sostenevano e il M., insieme con un altro operaio, aveva cominciato a rimuovere la malta cementizia in eccesso con martello e scalpello dopo essere salito su un ponteggio sistemato proprio sotto l’arco. Durante la lavorazione l’arco era crollato cagionando al M. lesioni gravi.
L’accusa ipotizza, come fatti integranti la colpa, la violazione della diligenza, della prudenza, della perizia e dell’art. 64, d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164.
I Giudici distrettuali affermano che lo smontaggio delle centine che sostenevano l’arco era avvenuto senza la preventiva visione e l’autorizzazione del Pr., direttore di cantiere, che anzi, secondo una prassi abituale, questi aveva di fatto delegato “in toto” agli operai (ed in particolare proprio al M., in virtù della sua pluriennale esperienza) la costruzione dell’arco stesso e le relative modalità di esecuzione. Le abbondanti piogge che avevano preceduto l’evento e l’azione dello scalpello avevano probabilmente reso meno stabile l’arco, in ogni caso disarmato prima che finissero le lavorazioni, in violazione di quanto prescrive l’art. 64, d.P.R. n. 164 del 1956 e del piano di sicurezza.
1.1.Con il primo motivo gli imputati eccepiscono, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., vizio di motivazione (sotto il profilo della omissione e manifesta illogicità) e violazione degli artt. 40, 42 e 43, cod. pen..
Deducono, al riguardo, che l’infortunio è occorso dopo che i lavori di costruzione dell’arco erano stati ultimati, laddove la rubrica imputa loro l’irregolare e prematuro disarmo dell’arco stesso. La causa del crollo è rimasta inesplorata, tant’è che la stessa Corte di appello non si avventura in certezze:
“è certo – sostengono i Giudici distrettuali – che l’arco è crollato per un qualche errore procedurale”. Tale omissione, proseguono, mina il buon fondamento dell’affermazione della loro responsabilità perché impedisce di comprendere il comportamento colposo ad essi ascrivibile ed il nesso di causalità con l’evento delittuoso.
1.2. Con il secondo motivo eccepiscono la violazione del divieto di “reformatio in pejus” e deducono, al riguardo, che la Corte di appello non avrebbe potuto riconoscere alla parte civile una somma a titolo di provvisionale chiesta per la prima volta nel giudizio di appello.

Considerato in diritto

2. Il ricorso è infondato.
3. Il primo motivo si alimenta di un equivoco di fondo: la rubrica non contesta agli imputati di aver direttamente cagionato il crollo dell’arco bensì di non averlo impedito (e dunque di aver concorso a cagionarlo ai sensi dell’art. 40, cpv., cod. pen.) mediante il prematuro disarmo dell’armatura in violazione di quanto prescrive la regola cautelare violata (l’art. 64, d.P.R. n. 164 del 1956) posta a presidio dell’incolumità dei lavoratori impegnati nella sua realizzazione.
3.1. Il crollo è un dato incontestato, così come lo è il fatto che da esso sono derivate alla persona offesa lesioni gravi. Il fondamento dell’addebito colposo sta nella violazione della regola cautelare che avrebbe dovuto impedire il crollo, qualunque ne sia stata la causa.
3.2. L’art. 64, d.P.R. n. 164 del 1956 prescrive, infatti, che le armature provvisorie per l’esecuzione di manufatti come gli archi devono essere costruite in modo “da assicurare in ogni fase del lavoro la necessaria solidità e con modalità da consentire, a getto o costruzione ultimata, il loro progressivo abbassamento e disarmo”.
3.3. Ne consegue che l’omessa predisposizione dei presidi imposti per impedire il crollo dell’arco, o il loro anticipato disarmo, è circostanza che di per sé giustifica l’addebito di non aver impedito un evento che il datore di lavoro aveva l’obbligo di impedire con mezzi idonei allo scopo.
4. È infondato anche il secondo motivo di ricorso.
4.1. La Corte di appello ha ritenuto di dover assegnare alle parti civili, che ne avevano fatto richiesta, una provvisionale provvisoriamente esecutiva liquidata nella misura di Euro 50.000,00 “tenuto conto delle gravi lesioni riportate dalla persona offesa e del pretium doloris”, potendosi ritenere già provato un pregiudizio di tale entità.
4.2. Entrambi gli imputati erano già stati genericamente condannati in primo grado al risarcimento del danno in favore delle parti civili da liquidare in separata sede.
4.3. Essi non contestano l’esistenza del pregiudizio ma il potere della Corte di appello di condannarli al pagamento della provvisionale ed eccepiscono, a tal fine, la violazione dell’art. 597, cod. proc. pen..
4.4. Il Procuratore generale di udienza ha sollecitato la rimessione della questione alle Sezioni Unite di questa Suprema Corte rilevando un contrasto giurisprudenziale così sintetizzato nella sentenza Sez. 1, n. 50709 del 30/10/2014, richiamata nella requisitoria e nella memoria scritta depositata in udienza:
“Un primo orientamento, basandosi sul presupposto che il provvedimento che attribuisce la provvisionale riveste carattere meramente delibativo, discrezionale e provvisorio, non suscettibile di acquisire autorità di cosa giudicata nel processo civile, perché frutto della constatazione dell’esistenza di un danno conseguente al reato sino all’ammontare della somma liquidata, e non della sua puntuale dimostrazione, nonché destinato ad essere superato dalla statuizione definitiva di liquidazione che dovrà essere assunta in separata sede civile, per cui nemmeno ricorribile per cassazione, afferma che il riconoscimento della provvisionale, seppur disposto per la prima volta con la sentenza di secondo grado in assenza di appello principale o incidentale della parte civile in tal senso, non incontrerebbe il limite del divieto di reformatio in peius, che opera in esclusivo riferimento al trattamento sanzionatorio ed agli effetti penali della condanna (Cass. sez. 6, nr. 1122 del 10/12/1996, Fusco, in motivazione; sez. 5, n. 7967 del 08/05/1998, Calamità, rv. 211540; sez. 6, n. 396 del 22/09/1998, Pellegrino rv. 212912; sez. 5, n. 30822 del 14/05/2003, Barberis, rv. 225807; Sez. 6, n. 38976 del 23/09/2009 Picciotti, rv. 244558; sez. 1, nr. 17240 del 2/2/2011, Consolo ed altri, rv. 249961; sez. 5, n. 8339 del 18/10/2012, T., rv. 255014).
Un secondo arresto ammette che la provvisionale possa essere concessa, anche senza apposita istanza della parte civile, non solo dal giudice di primo grado, ma anche da quello d’appello; in questo secondo caso tale possibilità è condizionata dal fatto che la relativa questione non sia stata prospettata al primo giudice e non abbia formato oggetto di decisione, perché in tale eventualità non potrebbe più essere legittimamente valutata in assenza di specifica impugnazione per l’ostacolo rappresentato dal principio devolutivo che connota l’appello, (sez. 1, n. 14583 del 04/11/1999, Crepaldi, rv. 216128; sez. 5, n. 36062 del 19/06/2007, Pellegrinetti, rv. 237722; Sez. 1, n. 13545 del 04/02/2009, Bestetti, rv. 243132).
Infine, plurime pronunce negano che, in sede di appello e in caso di impugnazione del solo imputato, sia consentito per la prima volta condannare lo stesso al pagamento di una provvisionale in favore della costituita parte civile in quanto il principio devolutivo impedirebbe la reformatio in peius, in assenza di uno specifico gravame sul punto, applicandosi tale divieto, di portata generale, non soltanto alle statuizioni di carattere penale, ma anche quelle civili (Cass. sez. 4, n. 35584 del 7/5/2003, Barilla, rv. 225987; sez. 5, n. 9779 del 15/02/2006, Durante, rv. 234237; sez. 5, n. 36062 del 19/6/2007, Pellegrinetti, rv. 237722; sez. 4, n. 42134 del 01/10/2008, Federico, rv. 242185)”.
4.5. Il primo indirizzo, recentemente ribadito da questa Corte con sentenza Sez. 3, n. 18633 del 27/01/2015, Rv. 263486, ha il suo autorevole precedente nel principio affermato da Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, Capelli, Rv. 186722, tralatiziamente tramandato sino ad oggi, di sentenza in sentenza.
4.6. In quell’occasione le Sezioni Unite, che non erano state investite dello specifico quesito di diritto, affermarono lapidariamente la non impugnabilità “tout court” della condanna al pagamento di una provvisionale limitandosi a richiamare il preesistente e conforme indirizzo interpretativo della Corte.
4.7. Tale indirizzo, tuttavia, era maturato in un contesto normativo radicalmente diverso poiché l’art. 489, cod. proc. pen. del 1930 non poneva limiti al giudice penale nel decidere se assegnare o meno alla parte civile una somma a titolo di provvisionale. Perciò Sez. 4, n. 114 del 23/01/1967, Rovecchi, Rv. 104030, aveva potuto affermare che “la concessione alla parte civile di una somma a titolo di provvisionale è sottratta alle regole sancite nel secondo comma dell’art. 278, cod. proc. civ., secondo cui essa deve essere contenuta nei limiti della quantità per la quale il giudice già ritiene raggiunta la prova. Invero la pronuncia circa l’assegnazione della provvisionale in sede penale ha carattere meramente delibativo e non acquista efficacia di giudicato in sede civile. La determinazione della misura della somma concessa a titolo di provvisionale è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito ed è, come tale, insindacabile in sede di legittimità”. Ancor più chiaramente e nettamente, Sez. 4, n. 1749 del 30/10/1968, Galeri, Rv. 109938, aveva ribadito che “la determinazione della misura della somma concessa a titolo di provvisionale è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, il quale non ha l’obbligo di motivare dettagliatamente. Essa è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità” (cfr. anche Sez. 1, n. 1290 del 06/10/1967, Doni, Rv. 106715: “La pronuncia circa l’assegnazione alla parte civile di una provvisionale, nei casi in cui il giudice ritiene di non poter decidere sulla liquidazione dei danni in base agli elementi acquisiti al processo, ha carattere meramente delibativo e discrezionale e costituisce un apprezzamento non sindacabile in sede di legittimità. Pertanto, l’imputato non ha interesse a dolersi del difetto di motivazione della decisione – la quale, peraltro, non deve essere particolarmente circostanziata – giacché gli rimane la più ampia possibilità di difesa in sede civile”).
4.8. Il vigente codice di procedura penale ha profondamente innovato sul punto attribuendo al giudice penale il potere di condannare l’imputato al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva “nei limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova” (art. 539, comma 2, cod. proc. pen.), coerentemente a quanto già prevedeva, per il giudice civile, l’art. 278, comma 2, cod. proc. civ., richiamato dalla citata sentenza Sez. 4, n. 114 del 1967.
4.9. La decisione di concedere una provvisionale immediatamente esecutiva sulla condanna generica al risarcimento del danno presuppone necessariamente un accertamento positivo in ordine all’esistenza del c.d. “danno-conseguenza”, limitatamente, ovviamente, al “quantum” immediatamente liquidabile.
4.10. Si tratta, per quanto oltre di dirà, di statuizione destinata a far stato nel processo civile.
4.11. La condanna generica al risarcimento del danno di cui all’art. 539, comma 1, cod. proc. pen., non esige, per sua natura, alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile (c.d. “danno conseguenza”), essendo sufficiente, a tal fine, l’accertamento del fatto-reato (c.d. “danno evento”) potenzialmente produttivo di conseguenze dannose (Sez. 6, n. 12199 del 11/03/2005, Molisso, Rv. 231044; Sez. 6, n. 14377 del 26/02/2009, Giorgio, Rv. 243310; Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta, Rv. 257551).
4.12. Tale statuizione, ai sensi dell’art. 651, cod. proc. pen., non ha perciò efficacia di giudicato in ordine alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall’imputato (Sez. 4, n. 1045 del 16/12/1998, Selva, Rv. 212284).
4.13. Tuttavia la condanna generica al risarcimento del danno non esclude la possibilità che il giudice penale affermi la concreta sussistenza del danno conseguenza (l’”an” del danno risarcibile), pur demandandone al giudice civile la sola liquidazione (il “quantum”).
4.14. La giurisprudenza delle Sezioni Unite civili di questa Suprema Corte ha spiegato che “la sentenza penale di condanna passata in giudicato, la quale fa stato, ai sensi dell’art. 651 cod. proc. pen., in ordine all’accertamento del fatto, alla sua rilevanza penale ed alla sua commissione, può non essere sufficiente ai fini del riconoscimento dell’esistenza del diritto al risarcimento del danno quando il fatto, avente rilevanza penale, non si configuri come reato di danno; al contrario, nel caso in cui il giudicato penale di condanna riguardi un reato appartenente a tale categoria (nella specie una truffa a danno di un ente regionale), l’esistenza del danno è implicita e, conseguentemente, non può formare oggetto di ulteriore accertamento, negativo o positivo, in sede civile, se non con riferimento al soggetto od ai soggetti che lo abbiano subito o alla misura di esso” (Sez. Un. Civ., n. 4549 del 25/02/2010, Rv. 611796).
4.15. È stato ulteriormente precisato che “in caso di condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, se il giudice penale non si sia limitato a statuire solo sulla potenzialità dannosa del fatto addebitato al soggetto condannato e sul nesso eziologico in astratto, ma abbia accertato e statuito sull’esistenza in concreto di detto danno e del relativo nesso causale con il comportamento del soggetto danneggiato, valgono sul punto i principi del giudicato” (Sez. 3 civ., n. 16113 del 09/07/2009, Rv. 608754), sicché non sono vincolanti, per il giudice civile, “le valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che attengono all’individuazione delle conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile” (Sez. 3, n. 8360 del 08/04/2010, Rv. 612361; sez. 6 -3 civ., n. 14648 del 04/07/2011, Rv. 618452; cfr. inoltre Sez. 3, n. 16123 del 14/07/2006, Rv. 591479, secondo cui “la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno per fatto illecito, emessa ai sensi dell’art. 278 cod. proc. civ., integra un accertamento di potenziale idoneità lesiva di quel fatto, e non anche l’accertamento del fatto effettivo, la cui prova è riservata alla successiva fase di liquidazione. Tale accertamento di lesività potenziale prescinde dalla misura e anche dalla stessa concreta esistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi su detta pronuncia non osta a che nel giudizio instaurato per la liquidazione venga negato il fondamento concreto della domanda risarcitoria, previo accertamento del fatto che il danno non si sia in concreto verificato”; nello stesso senso, da ultimo, Sez. 2, n. 15335 del 13/09/2012, Rv. 623804, e, meno recentemente, Sez. 3, n. 9709 del 18/06/2003, Rv. 564383; in precedenza Sez. U, n. 8545 del 03/08/1993, Rv. 483387, aveva affermato che “la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno per fatto illecito (extracontrattuale) integra un accertamento di potenziale idoneità di tale fatto a produrre conseguenze pregiudizievoli, a prescindere dalla misura, ma anche dalla stessa concreta esistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi su detta pronuncia non osta a che, nel giudizio instauratosi per la liquidazione, venga negato il fondamento della domanda risarcitoria, alla stregua della constatazione che il danno non si sia in effetti verificato”).
4.16. In conclusione: a) la condanna generica al risarcimento del danno non esige un accertamento sull’effettiva idoneità lesiva del fatto-reato; b) la condanna al pagamento di una provvisionale presuppone sempre l’accertamento dell’offesa risarcibile, ancorché non immediatamente liquidabile nella sua interezza. Per questo la condanna al pagamento della provvisionale è inevitabilmente destinata a far stato nel processo civile.
4.17. Tale conclusione è ulteriormente avvalorata dalle considerazioni che seguono.
4.18. Da tempo le sezioni civili di questa Suprema Corte sono impegnate ad affermare il principio secondo il quale il “danno conseguenza” risarcibile (da non confondere con il “danno evento” che si identifica con la lesione del bene tutelato) non può mai essere ritenuto “/n re ipsa”, ma deve essere oggetto di prova, anche mediante il ricorso, se necessario, alle presunzioni (cfr., sul punto, Sez. Un. Civ., n. 26972 del 11/11/2008, secondo le quali “il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di danno evento. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003. E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”).
4.19. A tale principio non si sottrae il danno da reato (Cass. civ., Sez. 3, n. 8421 del 12/04/2011, Rv. 617669).
4.20. Il danno, patrimoniale e non patrimoniale, risarcibile ai sensi dell’art. 185, comma 2, cod. pen., costituisce conseguenza del reato e non si identifica con esso; il chiaro tenore letterale della norma (sovrapponibile, sul punto, a quello dell’art. 2043, cod. civ.) non lascia adito a dubbi di sorta.
4.21. Coerentemente, la condanna al risarcimento del danno non costituisce ineluttabile conseguenza della condanna penale; l’art. 538, comma 1, cod. proc. pen., impone al giudice di decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, ma nel secondo comma la condanna al risarcimento del danno è prevista come un’eventualità (“Se pronuncia condanna (…) al risarcimento del danno”).
4.22. Ne consegue che il giudice penale, anche quando condanna genericamente l’imputato al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede, deve quantomeno accertare la sussistenza di un fatto potenzialmente produttivo di danno risarcibile da reato (c.d. “danno-conseguenza”), anche se tale accertamento non vincola il giudice civile che ben può escluderlo in concreto.
4.23. Ma la condanna generica al risarcimento del danno non esclude, come detto, che il giudice penale affermi anche la positiva sussistenza del c.d. “danno conseguenza” (tuttavia non liquidabile solo per mancanza di prova in ordine al “quantum”). In tal caso egli non può identificare il danno risarcibile con il reato stesso (c.d. “danno-evento”), né, conseguentemente, può motivare le ragioni della condanna al risarcimento con affermazioni sostanzialmente apodittiche, se non proprio tautologiche, che di fatto depongono per la sussistenza “in re ipsa” del danno conseguenza.
4.24. A maggior ragione, la condanna al pagamento della provvisionale comporta l’accertamento positivo dell’effettiva esistenza di un danno conseguenza e delle prove che ne consentono il parziale soddisfacimento.
4.25. Tale accertamento, come detto, fa stato nel processo civile perché impedisce al giudice di escludere il danno risarcibile, limitando la sua cognizione alla sua sola quantificazione.
4.26. Ne consegue che deve essere abbandonato l’indirizzo secondo il quale la condanna al pagamento di una provvisionale non può nemmeno essere oggetto di impugnazione da parte dell’imputato.
4.27. Va invece affermato il principio secondo il quale “la condanna al pagamento della provvisionale di cui all’art. 539, comma 2, cod. proc. pen. presuppone il positivo accertamento dell’esistenza del danno conseguenza risarcibile e della possibilità di una sua parziale liquidazione. Poiché tale accertamento è destinato a far stato nel processo civile in ordine alla sussistenza del danno risarcibile, la condanna può essere oggetto di impugnazione da parte dell’imputato”.
4.28. Naturalmente, ove il giudice rigetti la domanda di condanna al pagamento della provvisionale chiesta dalla parte civile, quest’ultima ha il diritto di impugnare il relativo capo della sentenza.
4.29. Ben diverso è il caso in cui la parte civile non abbia chiesto in primo grado la condanna dell’imputato al pagamento di una provvisionale (ma di ciò si parlerà più avanti).
4.30. Tanto premesso, il Collegio non considera necessario sottoporre alle Sezioni Unite la questione circa la possibilità per la Corte di appello di condannare per la prima volta l’imputato al pagamento di una provvisionale perché ritiene che il divieto di “reformatio in pejus” non si estende alle statuizioni civili della sentenza, trattandosi di norma che ponendo un limite alla pretesa punitiva dello Stato non si applica all’istanza risarcitoria oggetto dell’azione civile (nel senso della inapplicabilità dell’art. 597, cod. proc. pen., oltre le sentenze già citate, anche Sez. 4, n. 3171 del 11/01/1990, Roncalli, Rv. 183572; Sez. 4, n. 10214 del 12/04/1984, Guarracino, Rv. 166752; Sez. 6, n. 10461 del 28/03/1979, Calanca, Rv. 143592).
4.31. La Corte Costituzionale ha affermato con chiarezza che “l’azione che la parte civile propone nel giudizio penale è l’azione che ad essa spetta in base alle leggi civili. Ciò è detto espressamente nell’art. 185 c.p.p. a proposito della restituzione cui l’autore del reato è obbligato, secondo ivi si precisa, a norma delle leggi civili. E non c’è alcuna ragione per dubitare che il principio della derivazione da quelle stesse leggi valga anche per quanto concerne il risarcimento del danno prodotto dal reato (2043 c.c.). L’azione civile che, ai sensi dell’art. 91 c.p.p., si inserisce nel processo penale, collocandosi in esso in via accessoria e, in qualche modo, subordinata, non può perdere, per effetto di quella inserzione, né le sue caratteristiche sostanziali, quale ad esempio, la disponibilità, né quelle attinenti alla sfera processuale che le è propria, quali il principio della domanda, il limite del petitum e il suo stesso sistema probatorio.
Ne discende che il giudice penale, allorché, applicati i principi propri del processo penale e pervenuto, a seguito dell’accertamento dei fatti, alla condanna dell’imputato, passa a decidere delle domande civili di restituzione e di risarcimento, è tenuto a fare applicazione dei principi che regolano l’azione civile. E come non si dubita che egli debba decidere solo se vi è la domanda della parte e non oltre i limiti di questa” (Sentenza n. 40 del 21 febbraio 1974; si veda anche la sentenza n. 353 del 27 luglio 1994, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 600, terzo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che il giudice d’appello può disporre la sospensione dell’esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale “quando possa derivarne grave e irreparabile danno”, anziché “quando ricorrono gravi motivi”).
4.32. La costituzione di parte civile comporta che l’esercizio dell’azione civile sia trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale ma “petitum” e “causa petendi” sono impermeabili alle regole che limitano esclusivamente la pretesa punitiva dello Stato.
4.33. La norma di riferimento non può perciò essere l’art. 597, cod. proc. pen., ispirato a tutt’altre finalità; la questione va risolta nell’ambito delle norme che disciplinano la cognizione del giudice dell’appello e, più in generale, impongono al giudice civile di decidere in conformità e non oltre la domanda (cfr. sul punto Sez. 1, n. 50709 del 30/10/2014, Birri, Rv. 261757, con richiamo a precedenti conformi; cfr anche la citata sentenza n. 40 del 21 febbraio 1974 della Corte Costituzionale).
4.34. Sicché ove il giudice di primo grado abbia negato l’esistenza stessa di un danno risarcibile (c.d. “danno conseguenza”) o respinto la richiesta di provvisionale per mancanza dei presupposti previsti dall’art. 539, comma 2, cod. proc. pen., la Corte di appello non può condannare l’imputato/convenuto al risarcimento del danno (nemmeno in via generica), né assegnare alla parte civile/attore una provvisionale se la questione non è stata specificamente devoluta con i motivi di impugnazione (in senso parzialmente conforme, Sez. 1, n. 14583 del 04/11/1999, Crepaldi, Rv. 216128, che tuttavia afferma che la provvisionale possa essere concessa anche in assenza della domanda di parte civile; Sez. 4, n. 35584 del 07/05/2003, Barilla, Rv. 225987; in senso contrario a quanto si sostiene nel testo, ma facendo leva esclusivamente sull’art. 597, cod. proc. pen., Sez. 1, n. 10212 del 25/09/1992, Busacca, Rv. 192294; Sez. 5, n. 7967 del 08/05/1998, Calamità, Rv. 211540).
4.35. Nel caso di specie, invece, il Tribunale aveva genericamente condannato gli imputati al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, ma non ha mai espressamente negato un danno provvisoriamente liquidabile, né – si badi – lo negano i ricorrenti che, come visto, non contestano l’esistenza del pregiudizio (provvisoriamente) risarcibile, né la quantificazione (anch’essa provvisoria) del danno.
4.36. La peculiarità della vicenda sta nel fatto che il giudice di primo grado non era stato investito della domanda di condanna al pagamento di una provvisionale, sicché va verificato se in questi casi possa provvedere direttamente il giudice dell’appello che ne sia investito per la prima volta in assoluto.
4.37. In termini generali non si vede cosa impedisca alla parte civile che si giovi di una condanna generica al risarcimento del danno emessa in primo grado di chiedere per la prima volta in appello la condanna ad una provvisionale.
4.38. Non vi osta certamente l’art. 598, cod. proc. pen., che estende al grado di appello le disposizioni del giudizio di primo grado, né l’art. 600, cod. proc. pen., che presuppone una domanda espressa della parte civile negletta o disattesa.
4.39. Il quesito si risolve facendo ricorso alle omologhe regole che disciplinano l’azione civile nel processo civile.
4.40. È opportuno, a tal fine, richiamare la già citata sentenza della n. 353 del 1994 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 600, comma 3, cod. proc. pen..
4.41. Ha ricordato la Corte che “è certamente esatto che l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile nel processo civile, anche ove si tratti di azione di restituzione o di risarcimento dei danni derivanti da reato (cfr. sent. n. 108 del 1970), e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi (v. sentt. nn. 171 del 1982, 443 del 1990; ordd. nn. 115 del 1992, 185 del 1994). È, però, evidente come nessuno di tali profili venga in rilievo nel caso in esame, che concerne un particolare aspetto del regime di esecutività delle disposizioni civili della sentenza penale di primo grado, la quale, del resto, può essere impugnata dall’imputato anche con esclusivo riferimento ai medesimi capi civili. Non si ravvisa, in conclusione, alcuna razionale giustificazione al fatto che, una volta disposta la immediata esecutività ex lege della condanna al pagamento della provvisionale, la norma impugnata detti una regola diversa, in ordine al potere di inibitoria del giudice di appello, rispetto al menzionato art. 283 del codice di procedura civile: la diversità di disciplina cui è assoggettata, sotto lo specifico aspetto qui in considerazione, l’azione civile di restituzione o di risarcimento del danno derivante da reato – e, correlativamente, la posizione del debitore -, a seconda che l’azione medesima sia esercitata in sede propria o nell’ambito del processo penale, integra, pertanto, la violazione del principio di eguaglianza”.
4.42. La ragioni che militano a favore del principio per il quale l’imputato può giovarsi, nel processo penale, delle stesse regole che, in sede processuale civile, gli consentono di sospendere l’immediata efficacia esecutiva della sentenza di condanna, consentono di affermare che anche la parte civile può giovarsi delle medesime regole che disciplinano la sua pretesa nel processo civile il cui esercizio non sia condizionato o limitato nel processo penale da superiori istanze di interesse pubblico.
4.43. Sicché, poiché prima che il legislatore attribuisse alle sentenze di condanna in sede civile efficacia provvisoriamente esecutiva, questa Corte di cassazione aveva affermato che la richiesta di una provvisionale non costituiva domanda nuova, in quanto rientra nell’ambito dell’originaria domanda di condanna (Cass. civ., Sez. 3, n. 1798 del 06/01/1970, Rv. 347770), sarebbe irragionevole affermare il contrario in sede penale sol perché l’azione civile è stata esercitata con la costituzione di parte civile.
4.44. Si può dunque ragionevolmente affermare che la richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale effettuata per la prima volta in appello non costituisce domanda nuova e che su di essa la Corte territoriale può e deve pronunciarsi negli stessi termini e con le stesse regole di giudizio stabiliti dall’art. 539, comma 2, cod. proc. pen..
4.45. In conclusione, può essere affermato il seguente principio di diritto: “in caso di condanna generica al risarcimento del danno, la parte civile può investire per la prima volta il giudice dell’appello della richiesta di una provvisionale mai precedentemente proposta. Sulla domanda il Giudice dell’appello ha il dovere di esprimersi utilizzando gli stessi criteri di giudizio previsti per il giudice di primo grado”.
4.46. Nel caso di specie, come visto, i ricorrenti non contestano l’an ed il quantum della condanna al pagamento della provvisionale.
4.47.La loro eccezione si limita solo a invocare erroneamente l’applicabilità dell’art. 597, cod. proc. pen..
4.48. Ne consegue che i ricorsi devono essere respinti con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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