La massima[1]

La sostanziale estraneità della terapia prescritta all’obiettivo di salvaguardare la salute del paziente, in realtà esclusivamente finalizzata al recupero di un posto in una squadra, costituisce inconfutabilmente violazione dell’art. 12 del Codice deontologico del medico ed è quindi meritevole di sanzione di carattere disciplinare.

Il testo integrale

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

Sentenza 23 agosto 2011, n. 17496

Svolgimento del processo

L’iter del procedimento viene così ricostruito nel provvedimento impugnato.

Con delibera del 14 dicembre 2004 la Commissione Medici Chirurghi dell’ordine di Rimini, all’esito del procedimento disciplinare aperto nei confronti del dott. V. E. B. per ritenuta violazione degli artt. 2, 3, 12 e 76 del nuovo codice deontologico del medico, prosciolse l’incolpato dagli addebiti di cui ai nn. 2 e 76, mentre lo ritenne responsabile di quelli di cui ai nn. 3 e 12, per l’effetto irrogando la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di mesi quattro.

Contro tale provvedimento il B. adì la Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie che, con provvedimento del 30 maggio 2006, ha rigettato l’ impugnazione.

Avverso detta decisione ricorre per cassazione V.E. B. formulando quattro motivi e notificando l’atto al Ministero della Salute, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rimini e all’ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Rimini.

Resistono con due distinti controricorsi il Ministero della Salute e l’ordine dei medici. Quest’ultimo ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione

Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di inammissibilità opposte dall’ordine dei Medici.

Secondo il resistente il ricorso sarebbe inammissibile anzitutto per omessa indicazione delle parti nonché per omessa e/o insufficiente esposizione dei fatti di causa.

I rilievi non hanno pregio.

A norma dell’art. 366 cod. proc. civ., il ricorso per cassazione è inammissibile qualora manchi o sia assolutamente incerta l’identificazione delle parti contro cui esso è diretto.

La giurisprudenza di questa Corte ha peraltro chiarito che, ai fini dell’osservanza della norma predetta, non è necessario che le relative indicazioni siano premesse all’esposizione dei motivi di impugnazione o che siano altrove esplicitamente formulate, essendo sufficiente, analogamente a quanto previsto dall’art.164 cod. proc. civ., che esse risultino in modo chiaro e inequivoco, ancorché implicito, dal contesto del ricorso, nonché dal riferimento ad atti dei precedenti gradi di giudizio, da cui sia agevole identificare con certezza la parte intimata.

E parimenti, ai fini della sussistenza del requisito della “esposizione sommaria dei fatti di causa”, prescritto, a pena di inammissibilità, per il ricorso per cassazione dall’art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., è necessario, in ossequio al principio di autosufficienza, che in esso vengano indicati, in maniera specifica e puntuale, tutti gli elementi utili perché il giudice di legittimità possa avere la completa cognizione dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso assunte dalle parti, in modo da avere un quadro completo degli elementi fondamentali della decisione censurata e dei motivi di doglianza, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti del processo, (Cass. civ. 5 febbraio 2009, n. 2831; Cass. civ. 12 giugno 2008, n. 15808).

Nella fattispecie, contrariamente all’assunto del resistente, benché manchi in ricorso una parte graficamente destinata alla individuazione delle parti contro le quali l’impugnazione è diretta, e benché, ancora, i fatti che hanno dato origine all’azione disciplinare nonché lo svolgimento di questa siano assai sinteticamente esposti, nondimeno le une e gli altri sono chiaramente enucleabili dall’intero contesto dell’atto. Di talché le mancanze denunciate dal resistente hanno un carattere esclusivamente formale e, non intaccando la comprensibilità della vicenda umana e processuale sottesa al ricorso, non possono dar luogo alla evocata sanzione dell’inammissibilità.

Neppure sussistono le allegate insufficienze in punto di ricognizione delle norme di legge asseritamente violate o dei denunciati vizi motivazionali. Contrariamente a quanto sostiene il resistente, esse sono entrambe chiaramente enucleabili, e tanto a prescindere dall’esito dell’esame dei singoli motivi di ricorso.

Infine, per quanto attiene ai quesiti, alla cui formulazione il ricorso è certamente soggetto, in ragione della data della sentenza impugnata (successiva al 2 marzo 2006 e antecedente al 4 luglio 2009), ritiene il collegio che essi siano correttamente articolati. Ciò vale anche per le censure volte a far valere vizi motivazionali, ex art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., posto che la loro illustrazione contiene comunque un momento di sintesi che permette la chiara individuazione e del fatto controverso, in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, e delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. (Cass., sez. un., 12 maggio 2008, n. 11652).

Passando quindi all’esame dei motivi di ricorso, con il primo l’impugnante lamenta violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione, in relazione agli artt. 38 e segg. d.P.R. n. 221 del 1950, ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., nullità della decisione, ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.

Secondo il ricorrente il mancato accoglimento della richiesta di proiettare una relazione scientifica in power point avrebbe leso il suo diritto di difesa nonché il principio del giusto processo, dei quali la giurisprudenza del Supremo Collegio ha in più occasioni riconosciuto la piena operatività nell’ambito del procedimento disciplinare.

Le critiche non hanno pregio.

Mette conto evidenziare che le deduzioni svolte sul punto dal ricorrente nel giudizio a quo sono state ritenute dalla Commissione centrale a un tempo inveridiche sul piano dei fatti e irrilevanti su quello giuridico. Ha in proposito osservato il decidente che l’impossibilità di proiettare le diapositive era stata determinata – secondo quanto emergeva dai lavori dell’organo disciplinare di prima istanza – da mancanza di tempestiva comunicazione, da parte dell’interessato alla segreteria, di volersi avvalere di tale mezzo istruttorio e che, in ogni caso, la proiezione non era essenziale, posto che essa aveva ad oggetto le origini e la fisiopatologia della fatica cronica, patologia la cui diagnosi il medico non aveva mai esplicitato al paziente, ma che aveva formulato solo a posteriori, al fine di giustificare il proprio comportamento, chiaramente diretto invece, a migliorare le prestazioni atletiche di un soggetto sano.

Osserva il collegio che il percorso motivazionale qui sinteticamente riportato connota in termini di astrattezza ed eccentricità le censure svolte dal ricorrente. Questi lamenta invero genericamente di essere stato leso nei suoi diritti difensivi, senza confrontarsi con le argomentate ragioni poste dalla Commissione a fondamento della sua determinazione, ravvisabili, da un lato, nella negligenza procedurale del ricorrente, e, dall’altro, nella ininfluenza del mezzo istruttorio ai fini della decisione, lasciandone conseguentemente intatta l’idoneità a giustificare la decisione impugnata.

Con il secondo mezzo il ricorrente denuncia mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla prova della sua responsabilità per le contestate infrazioni al Codice Deontologico, ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.

Assume che, ritenuta insussistente l’addebito principale, relativo alla somministrazione di sostanze dopanti, in ragione dell’assoluta mancanza di prova della destinazione dei farmaci all’alterazione della prestazione agonistica, e cioè a finalità diverse da quelle terapeutiche, la Commissione non poteva ritenerlo responsabile di quello di cui all’art. 3 del Codice Deontologico, assumendo che la terapia farmacologica non era stata prescritta in vista della tutela della salute del paziente, ma per fare in modo che l’atleta recuperasse un posto in squadra. Non aveva il decidente considerato che il recupero del tono atletico era obiettivo in linea con la tutela della salute psico-fisica dello sportivo e che una delle funzioni della Medicina dello Sport è il miglioramento delle performaces dello sportivo. Osserva anche che la comprovata diligenza con la quale l’incolpato aveva visitato il paziente, prima di prescrivere la terapia, escludeva in radice l’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare.

Anche questo motivo non può essere accolto.

La Commissione ha confutato l’assunto del ricorrente, secondo cui il mancato collegamento della sua condotta con un evento di tipo agonistico faceva venir meno ogni profilo di illeicità della stessa, rilevando che ciò poteva valere solo per l’addebito relativo al doping, laddove l’esclusiva finalizzazione della terapia prescritta al recupero di un posto in squadra lasciava inconfutabilmente in piedi l’addebito concernente la violazione dell’art. 12 del Codice deontologico.

Contrariamente all’assunto dell’impugnante, le ragioni addotte dal decidente a sostegno del suo convincimento – la sostanziale estraneità dell’atto medico all’obiettivo di salvaguardare la salute del paziente, con conseguente irrilevanza della esplicitazione della diagnosi – sono corrette sul piano logico e giuridico, complete ed esaustive. Esse evidenziano i profili obliqui della condotta del sanitario, coerentemente valutati meritevoli di un intervento sanzionatorio di carattere disciplinare. Ne deriva che i denunciati vizi motivazionali mirano solo a sollecitare il sindacato su un giudizio di stretto merito, precluso in sede di legittimità.

Con il terzo motivo l’impugnante deduce mancanza di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, secondo l’esponente la Commissione Centrale avrebbe confermato la sanzione argomentando esclusivamente sulla ritenuta violazione dell’art. 12, senza nulla dire in ordine a quella dell’art. 3.

Il motivo è inammissibile nella misura in cui introduce una questione non trattata nel provvedimento impugnato, e quindi nuova. Conseguentemente il ricorrente aveva l’onere, rimasto nella fattispecie del tutto inadempiuto, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo aveva fatto, onde dar modo alla Corte di controllare de visu la veridicità di tale asserzione (confr. Cass. civ. sez. lav. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. civ. 1°, 31 agosto 2007, n. 18440).

In definitiva il ricorso deve essere integralmente rigettato.

Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi euro 2.600 (di cui euro 200 per spese), per il Ministero della Salute e in complessivi euro 2.600 (di cui euro 200 per spese), per l’ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Rimini, oltre IVA e CPA, come per legge.

 


[1] Scaricabile e consultabile dal portale altalex.com

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