cassazione 8

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 22 ottobre 2015, n. 42458

Ritenuto in fatto

1. A.E. ricorre personalmente per cassazione impugnando l’ordinanza indicata in epigrafe con la quale il Giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Roma, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha disposto la confisca dei beni culturali indicati nell’elenco allegato al provvedimento di confisca, dichiarando inammissibile il ricorso in ordine ai restanti beni già sottoposti a sequestro nel procedimento penale pendente presso la procura della Repubblica di Napoli nei confronti di A.E. .
2. Per la cassazione dell’impugnata ordinanza il ricorrente ha articolato un unico complesso motivo di gravame, qui enunciato, ai sensi dell’articolo 173 disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
Con esso il ricorrente deduce la nullità dell’ordinanza impugnata per erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale (articolo 606, comma 1, lettera b), codice di procedura penale in relazione all’articolo 240, comma 2, codice penale e all’articolo 174 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42).
Premette il ricorrente come il giudice dell’esecuzione abbia accolto parzialmente le richieste avanzate dall’avvocatura di Stato e volte ad ottenere l’ordine di confisca dei beni culturali indicati negli allegati 1, 2 e 3 dell’avviso di conclusione delle indagini relativo al procedimento penale n. 33063 del 2000.
Nell’accogliere la domanda, il giudice, pur riconoscendo che il procedimento a carico del ricorrente si è chiuso con un decreto di archiviazione per intervenuta prescrizione, ha ritenuto applicabile nel caso in esame la confisca prevista dall’articolo 240, comma 2, codice penale in combinato disposto con l’articolo 174 decreto legislativo n. 42 del 2004 in relazione ai beni di cui ai citati elenchi 1 e 2.
Osserva il ricorrente come tale conclusione debba ritenersi errata poiché nel caso di specie il giudice dell’esecuzione ha equiparato un decreto di archiviazione emesso per intervenuta prescrizione, che prescinde da una affermazione di responsabilità penale, ad una sentenza di condanna, che invece presuppone l’accertamento di detta responsabilità.
Assume il ricorrente che egli, sin dall’inizio del procedimento, ha sempre cercato di dare prova della propria innocenza sostenendo che i beni fatti transitare dagli USA all’Italia erano beni appartenenti da anni alla sua famiglia, beni che aveva acquistato il padre prima e durante gli anni 50, ma di cui, per ovvie ragioni, non era in grado di reperire le fatture di acquisto. Proprio per sopperire a tale mancanza durante la fase delle indagini, in data 11 giugno 2008, era stata presentata dalla difesa una richiesta di incidente probatorio finalizzata ad ottenere l’esame di O.O. che avrebbe potuto riferire di avere visto le opere sottoposte a sequestro (di cui agli allegati 1 e 2) nell’abitazione del padre del ricorrente già negli anni 50, e di essere a conoscenza dell’acquisto da parte dello stesso di tali opere.
Ne consegue che il giudice dell’esecuzione ha errato nel disporre la confisca in assenza di una sentenza di condanna in ordine al fatto per il quale il provvedimento ablativo è stato disposto, non uniformandosi alla pacifica giurisprudenza di legittimità per la quale l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione impedisce la confisca, pur prevista come obbligatoria, delle cose che ne costituiscono il prezzo, atteso che la misura ablativa è prevista non in ragione dell’intrinseca illiceità delle cose, bensì in forza del loro peculiare collegamento con il reato, il cui positivo accertamento è necessario presupposto.
3. L’avvocatura di Stato ha depositato memorie chiedendo dichiararsi l’inammissibilità ovvero il rigetto del gravame.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Il giudice dell’esecuzione è pervenuto alla conclusione di disporre la confisca sui beni culturali reclamati sul rilievo che, in materia di tutela dei beni culturali, è prevista una specifica ipotesi di confisca obbligatoria disciplinata dall’articolo 174 del decreto legislativo n. 42 del 2004, il quale punisce chiunque trasferisce all’estero cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, nonché quelle indicate nell’articolo 11, comma 1, lettere f), g) ed h), senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione, stabilendo al comma 3 che il giudice dispone la confisca delle cose, salvo che questi appartengano a persona estranea al reato e disponendo che la confisca ha luogo in conformità delle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando.
Perciò il giudice dell’esecuzione, dopo aver rilevato che il ricorrente aveva partecipato alle condotte criminose contestate e che il relativo procedimento si era concluso con l’emanazione di un decreto di archiviazione per prescrizione, si è attenuto al principio di diritto affermato in materia da questa Corte secondo il quale la confisca prevista per il reato di esportazione abusiva di beni culturali va disposta, oltre che in caso di pronuncia di condanna, anche in ipotesi di proscioglimento per cause, come la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, che non riguardino la materialità del fatto e non interrompano il rapporto tra la “res” ed il reato (Sez. 3, n. 49438 del 04/11/2009, P.G. in proc. Zerbone, Rv. 245862).
3. Le obiezioni formulate dal ricorrente non scalfiscono le conclusioni cui è pervenuto il giudice dell’esecuzione per le seguenti ragioni.
Va ricordato che sui beni culturali vige una presunzione di proprietà pubblica con la conseguenza che essi appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge n. 364 del 1909, regio decreto n. 363 del 1913, legge n. 1089 del 1939, articoli 826, comma 2,828 e 832 del codice civile), la cui disciplina è rimasta invariata con l’introduzione del decreto legislativo n. 42 del 2004.
Sono fatte salve ipotesi tassative e particolari, nelle quali il privato che intenda rivendicare la legittima proprietà di reperti archeologici deve fornire la relativa, rigorosa prova, dimostrando che:
1) i reperti gli siano stati assegnati in premio per il loro ritrovamento;
2) i reperti gli siano stati ceduti dallo Stato;
3) i reperti siano stati acquistati in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909.
Le Sezioni civili di questa Corte (Sez. 1, n. 2995 del 10/02/2006 in motiv.) hanno affermato che la legislazione di tutela dei Beni Culturali, in particolare dei beni archeologici, è informata al presupposto fondamentale, in considerazione dell’importanza che essi rivestono (anche alla luce della tutela costituzionale del patrimonio storico – artistico garantita dall’art. 9 Cost.), dell’appartenenza di detti beni allo Stato (…), per cui l’art. 826 c.c., comma 2, assegna al patrimonio indisponibile dello Stato “le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo”: disciplina confermata dalla L. n. 1089 del 1939, artt. 44, 46, 47 e 49, cui rinvia l’art 932 c.c., comma 2. In prosieguo di tempo, prima il D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, art. 88, Beni Culturali, che quelle norme ha abrogato (art. 166), ha disposto che i beni di cui all’art. 2 (che alla lett. a) enumera “le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o demo-etno-antropologico”), da chiunque e in qualunque modo ritrovati, appartengono allo Stato, e, attualmente, il D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 91, Codice dei Beni Culturali e del paesaggio (D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 184), dispone l’appartenenza al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato delle cose, a seconda se immobili o mobili, di cui all’art. 10 cioè “che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” (…).
4. Da ciò consegue che la disciplina dei beni culturali è retta una presunzione di proprietà statale che non crea un’ingiustificata posizione di privilegio probatorio perché siffatta presunzione fonda, oltre che sull’id quod plerumque accidit anche su una “normalità normativa” sicché, opponendosi una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve darsene la prova.
Pertanto, dal complesso delle disposizioni, contenute nel codice civile e nella legislazione speciale, regolante i ritrovamenti e le scoperte archeologiche, ed il relativo regime di appartenenza, si ricava il principio generale della proprietà statale delle cose d’interesse archeologico, e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti.
Nel caso di specie, sebbene il procedimento penale non si sia concluso con una affermazione di responsabilità, il ricorrente non ha fornito alcuna prova idonea a vincere la presunzione di proprietà statale sui beni staggiti e tale prova tanto meno sarebbe stata fornita qualora, nel corso del procedimento penale, si fosse dato ingresso al richiesto incidente probatorio in quanto la testimonianza, della quale si chiedeva l’assunzione, avrebbe potuto al massimo escludere la responsabilità penale del ricorrente ma non certo fornire la prova della legittima proprietà sui beni.
Peraltro, il giudice dell’esecuzione ha dato atto del pieno coinvolgimento del ricorrente nel traffico dei beni culturali, oggetto dell’incolpazione elevata nei suoi confronti e sfociata nel decreto di archiviazione per essere il reato estinto per prescrizione, e comunque la confisca prevista dall’articolo 174 del decreto legislativo n. 42 del 2004 non soltanto prescinde dall’affermazione della responsabilità ma configura un’ ipotesi particolare speciale di confisca non sussumibile nell’ambito di operatività della misura di sicurezza patrimoniale disciplinata, in via generale, dall’articolo 240 codice penale, norma niente affatto richiamata dalla citato articolo 174.
In buona sostanza, come correttamente evidenziato dall’avvocatura di Stato, la confisca dei beni culturali esportati illecitamente risponde a una finalità essenzialmente recuperatoria di una res extra commercium insuscettibile di essere sottratta al patrimonio culturale italiano, essendone inibita, da un lato, la fuoriuscita dal territorio nazionale e, dall’altro, la sottrazione al dominio che lo Stato esercita su di essa.
Sicché, secondo la volontà del legislatore, una volta accertata la circostanza di fatto della illecita esportazione del bene culturale, la confisca, salvo che la cosa appartenga a persona estranea al reato, è obbligatoria dovendo necessariamente essere ripristinato il patrimonio culturale italiano leso dall’appropriazione illecita del bene da parte del privato, che può anche non essere l’autore del reato.
Pertanto la confisca dei beni culturali esportati illecitamente all’estero non richiede necessariamente la contestuale sentenza di condanna penale nei confronti dell’autore del reato, con la conseguenza che non risulta applicabile, nel caso di specie, l’indirizzo giurisprudenziale, segnalato dal ricorrente, che fa leva invece sulla disposizione di cui all’articolo 240 codice penale per affermare, in fattispecie diverse da quella in esame, il principio secondo il quale, per disporre la confisca, sarebbe necessario il positivo accertamento della responsabilità penale.
Logico corollario di tale impostazione è che la confisca prevista dall’articolo 174 decreto legislativo n. 42 del 2004 non ha una funzione sanzionatoria ma è una misura recuperatoria di carattere amministrativo, la cui adozione è affidata dal legislatore al giudice penale allorquando si proceda per un fatto preveduto dalla legge come reato, con la conseguenza che l’applicazione della misura prescinde dal fatto che il procedimento penale si concluda con una affermazione di responsabilità penale.
Non a caso infatti l’articolo 174 decreto legislativo n. 42 del 2004 stabilisce che la confisca ha luogo ai sensi della disciplina prevista dalla legge doganale, in base alla quale la misura di sicurezza viene disposta anche nell’ipotesi di sentenza di proscioglimento o di non punibilità, quindi a prescindere da una sentenza di condanna, come invece sarebbe stato necessario nel caso si fosse richiamato l’art. 240 codice penale, essendo stata fatta salva solo l’ipotesi che i beni appartengano a persone estranee al reato, quale ad esempio la persona che abbia acquistato in buona fede, situazione, nella specie, motivatamente esclusa dal giudice dell’esecuzione.
In tal senso è anche la giurisprudenza di questa Corte secondo cui – siccome per la confisca dei reperti archeologici si opera il riferimento all’istituto della confisca previsto dalle leggi doganali – la confisca delle cose oggetto di contrabbando prescinde dall’accertamento della responsabilità penale e deve essere disposta anche quando l’imputato venga prosciolto o dichiarato non punibile. Essa, pertanto, si differenzia dalla confisca prevista dall’art. 240 cod. pen. che attribuisce la facoltà e non l’obbligo, salvo le ipotesi di intrinseco carattere criminoso delle cose, di disporre la misura di sicurezza patrimoniale, sempre che sia intervenuta condanna (Sez. 2, n. 1253 del 28/02/1995, Vallorani, Rv. 201589).
Peraltro, una diversa interpretazione della normativa nazionale entrerebbe in collisione con gli obblighi di tutela del patrimonio culturale assunti, in sede internazionale, dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica della convenzione Unesco, firmata a Parigi il 14 novembre 1970, concernente le misure da adottare per vietare ed impedire ogni illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà riguardanti beni culturali nonché con la sottoscrizione della Convenzione Unidroit, Roma, 24 giugno 1995, concernente proprio il rientro dei beni culturali rubati o illecitamente esportati.
La prima convenzione costituisce la forma più intransigente della tutela internazionale e la sua importanza è costituita dal fatto che è estesa a ben 86 Stati aderenti; la seconda è alla prima complementare, riguardando il settore della restituzione dei beni sottratti.
5. Sebbene la questione non sia stata posta, se non per un aspetto segnalato dall’avvocatura di Stato con la memoria del 20 giugno 2015 e che non può essere seguito mancando nel presente procedimento una pronuncia, per quanto incidentale, di responsabilità penale a carico del ricorrente, va comunque chiarito come, per il regolamento del caso in esame, non rilevi la pronuncia della Corte Edu nel caso Varvara c. Italia (Seconda sezione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, Varvara c. Italia, del 29 ottobre 2013), laddove è stato affermato il principio in base al quale l’applicazione da parte del giudice penale della confisca urbanistica nelle ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato per prescrizione costituisce una violazione del principio di legalità sancito dall’art. 7 Cedu, sia perché il giudice comune è tenuto ad un’interpretazione convenzionalmente conforme del diritto interno e quindi ad “adattarsi” alle interpretazioni della Convenzione avanzate dalla Corte Europea laddove le pronunce che le contengono risultino “consolidate” ed abilitato invece a discostarvisi nel caso che non abbiano ancora dato luogo, come nella specie, ad un “diritto vivente” (Corte cost. 26 marzo 2015, n. 46) e sia perché non si pone, in subiecta materia, una lesione del diritto alla proprietà privata, vertendosi al cospetto di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato e, di regola, insuscettibili, come nella specie, di legittimo acquisto da parte di privati, con la conseguenza che la confisca disposta ai sensi dell’art. 174 d.lgs. n. 42 del 2004 non ha una funzione prettamente sanzionatoria ma essenzialmente recuperatoria di carattere amministrativo, applicabile dal giudice penale per espressa previsione di legge.
6. Ne consegue che, sulla base delle precedenti considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non essendovi ragione di ritenere che il gravame sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, il ricorrente va anche condannato al versamento della somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

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