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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  20 febbraio 2015, n. 7763

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza dei 18 febbraio 2014 la Corte d’appello di Milano ha respinto l’appello proposto da V. W. avverso sentenza del 19 luglio 2013 con cui il Tribunale di Milano lo aveva condannato alla pena di due anni e sei mesi di reclusione e € 3000 di multa per reati, avvinti da continuazione, di cui agli articoli 600 ter, commi 3 e 5, e 600 quater, commi 1 e 2, c.p., per avere detenuto in un computer materiale pedopornografico in ingente quantità, in parte divulgato telematicamente.
2. Ha presentato ricorso il difensore, sulla base di due motivi. Il primo motivo denuncia violazione dell’articolo 600 ter c.p. per avere la corte territoriale riscontrato l’elemento soggettivo del reato – che richiede dolo intenzionale – in quel che avrebbe costituito soltanto dolo eventuale, sarebbe stato quindi insufficiente. Il secondo motivo denuncia carenza motivazionale e vizio di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche come prevalenti nel giudizio di bilanciamento.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è infondato.
3.1 Il primo motivo prende le mosse, in punto di diritto, dalla natura dell’elemento soggettivo del reato di cui all’articolo 600 ter c.p., nel senso che questo è integrato dal dolo intenzionale, come insegna la giurisprudenza di legittimità. Effettivamente, la giurisprudenza di questa Suprema Corte richiamata dal ricorrente (Cass. sez. III, 11 dicembre 2012-31 luglio 2013 n. 33157) si innesta in un orientamento uniforme per cui, nel reato di cui all’articolo 600 ter c.p., l’elemento soggettivo è rappresentato dalla volontà consapevole di divulgare, volontà che deve emergere in forza di specifici elementi (Cass. sez. III, 25 ottobre 2012 n. 44914; Cass. sez. III, 10 novembre 2011 n. 44065; Cass. sez. III, 12 gennaio 2010 n. 11082; e cfr. altresì, seppure in una fattispecie particolare, Cass. sez. F, 7 agosto 2014 n. 46305). Peraltro, neppure la corte territoriale si è discostata dall’insegnamento nomofilattico, e l’errore che le attribuisce la doglianza in esame si sposta sul piano fattuale, poiché, secondo il ricorrente, la corte si sarebbe accontentata di un elemento soggettivo riconducibile al dolo eventuale per avere, in sostanza, fatta propria la motivazione del primo giudice laddove questi ha usato l’avverbio “verosimilmente” in relazione al fine di condivisione. Per comprendere una valutazione fattuale così come esternata nell’apparato motivativo, però, non è ragionevole estrapolare artificiosamente singoli elementi dal contesto da cui ricevono il loro effettivo significato. L’accertamento dell’elemento soggettivo, così come emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, non vacilla sulla natura dei dolo, chiaramente illustrando, invece, come i risultati dei compendio probatorio, e in particolare della consulenza tecnica (che già il primo giudice segnalava per avere evidenziato la diffusione del materiale tramite la modifica del programma emule adunanza, diffusione consapevole “anche a cagione dei fatto che la cartella OKK era stata già impostata come directory di incoming”: sentenza d’appello, pagina 3), disvelano la netta intenzionalità della condotta dei V.. Il motivo risulta pertanto manifestamente infondato.
3.2 Il secondo motivo, che lamenta carenza di motivazione o sua manifesta illogicità quanto al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza nonostante il percorso terapeutico seguito dal V., non trova riscontro nel contenuto effettivo della sentenza impugnata. Invero la motivazione sussiste (pagine 8-9) e menziona proprio anche il fatto che l’imputato “ha accettato di sottoporsi a terapia per aver ragione della propria porno­mania”, ma non incorre in alcuna manifesta illogicità nell’aderire alla valutazione già operata dal primo giudice, che ha giudicato equivalenti le attenuanti generiche in considerazione della gravità dei fatti di per sé e dell’ingente numero di immagini e di video, a ciò aggiungendo la corte territoriale che “deve essere considerato, in generale con riferimento alla determinazione del trattamento sanzionatorio, che l’imputato, non incensurato e ritenuto responsabile di fatti certamente gravi, si è sottoposto alla citata terapia ma non ha ritenuto di ammettere le proprie responsabilità, pur evidenti”. In tal modo il giudice d’appello ictu loculi si premura di fornire una motivazione tutt’altro che illogica (come invece prospetta il ricorrente) sulla insufficienza della terapia a rendere le attenuanti generiche prevalenti nel giudizio di bilanciamento. Anche questo motivo risulta, quindi, privo di consistenza.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art.616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento occorre omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art.52 d.lgs. 196/03 in quanto disposto dalla legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art.52 d.lgs. 196/03 in quanto disposto dalla legge

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