Cassazione 3

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 19 dicembre 2014, n. 52752

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente
Dott. FRANCO Amedeo – rel. Consigliere
Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere
Dott. ACETO Aldo – Consigliere
Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS), e dalla Agenzia delle Entrate;

avverso la sentenza emessa il 24 maggio 2013 dalla corte d’appello di Trento;

udita nella pubblica udienza del 20 maggio 2014 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BALDI Fulvio, che ha concluso per il rigetto dei due ricorsi.

RITENUTO IN FATTO
1. A (OMISSIS) vennero contestati i reati di cui:
A) al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 2, perche’, quale amministratore della srl (OMISSIS), al fine di evadere l’Iva o conseguire un credito inesistente, avvalendosi della fattura per operazione totalmente inesistente n. (OMISSIS) del 30.11.2002, emessa dalla (OMISSIS) srl, indicava nella dichiarazione annuale Iva per il 2002, elementi passivi fittizi (commesso il (OMISSIS));
B) al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3, perche’, quale amministratore della srl (OMISSIS), al fine di evadere le imposte sui redditi, sulla base di una falsa rappresentazione nella scritture contabili obbligatorie ed avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento, inseriva nella dichiarazione annuale per le imposte sui redditi della srl (OMISSIS) relativa all’esercizio 22.5.2005 – 21.5.2006, elementi passivi fittizi da cui derivava una evasione di imposta superiore ad euro 77.468,53 (euro 197.325). L’elemento passivo fittizio – secondo la contestazione – era costituito dal costo “altre voci costituenti rimanenze” fittiziamente incrementato per euro 600.000. Tale aumento poggiava su una pregressa movimentazione finanziaria, riportata nelle scritture contabili, a titolo di fittizio anticipo per l’acquisto di un bene immobile (di cui alla fattura n. (OMISSIS) del 30.11.2002 emessa dalla (OMISSIS) srl). L’anticipo veniva successivamente girato nelle scritture contabili, sempre in maniera fraudolenta, quale aumento del valore di un immobile gia’ posseduto da (OMISSIS) srl. La vendita successiva dell’immobile, avvenuta nell’esercizio 22.5.2005-21.5.2006, non determinava pertanto la reale plusvalenza-ricavo a seguito di tale fittizio aumento del valore dell’immobile quale rimanenza (commesso il 30.11.2006);
C) all’articolo 646 c.p., per essersi appropriato la somma di euro 813.843,17 che prelevava dalle disponibilita’ bancarie della srl (OMISSIS) il 31.5.2005.
Il tribunale di Trento, con sentenza del 24 novembre 2011, riqualifico’ il fatto di cui al capo A) nel reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 4, (dichiarazione infedele) e dichiaro’ non doversi procedere per essere lo stesso estinto per prescrizione. Assolse l’imputato dal reato di cui all’articolo 646 c.p., perche’ il fatto non costituisce reato. Dichiaro’ invece l’imputato colpevole del reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3, (capo B) e lo condanno’ alla pena di anni due e mesi sei di reclusione, oltre pene accessorie, nonche’ al risarcimento del danno patrimoniale in favore della parte civile Agenzia delle entrate liquidato in euro 223.840,00, corrispondente all’ammontare del tributo evaso, oltre interessi e rivalutazione, mentre respinse la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale consistente nel danno all’immagine e nello sviamento e turbamento della attivita’ della pubblica amministrazione.
2. La corte d’appello di Trento, con la sentenza in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di primo grado, elimino’ la statuizione relativa alla liquidazione del danno patrimoniale in favore della parte civile e confermo’ nel resto.
La sentenza impugnata ricorda che, in una perquisizione della GdF, venne rinvenuto nella sede della srl (OMISSIS) un contratto preliminare tra (OMISSIS), quale amministratore della societa’ (OMISSIS) nonche’ in proprio e (OMISSIS), quale amministratore della srl (OMISSIS), recante la data apparente del 29 novembre 2002, avente ad oggetto la vendita da parte del (OMISSIS) di una serie di immobili per il prezzo complessivo di euro 800.000, di cui euro 600.000 da versarsi entro il 30 giugno 2003. Veniva altresi’ ritrovata, fra i documenti della srl (OMISSIS), di cui era amministratore lo stesso (OMISSIS), la fattura n. (OMISSIS) per euro 600.000, oltre Iva al 20%, per un totale di euro 720.000, emessa dalla srl (OMISSIS) e relativa al pagamento del detto acconto di euro 600.000. Del versamento di questa somma e della stessa operazione commerciale non vi era pero’ traccia nelle scritture contabili della (OMISSIS). I beni oggetto del contratto preliminare non erano stati poi mai trasferiti alla srl (OMISSIS). Presso la sede della (OMISSIS) era stata rinvenuta una dichiarazione datata 1.2.2005 relativa a un contratto preliminare registrato il 2.2.2005, con cui il notaio certificava la promessa di vendita dal (OMISSIS) al (OMISSIS) di alcuni immobili. Gli stessi beni formarono poi oggetto di un contratto preliminare di vendita del 20.10.2005 tra il (OMISSIS) e tale (OMISSIS), a cui gli immobili furono trasferiti nell’aprile 2006. Nelle scritture contabili della srl (OMISSIS) era solo indicata alla data del 30 dicembre 2002, come credito della societa’ verso un fornitore, una fattura dello stesso importo di quella n. (OMISSIS), ma che riportava come codice dell’emittente quello della snc (OMISSIS). Dalla contabilita’ dell’esercizio 2003/2004 risultava poi l’estinzione del debito nei confronti di tale emittente. Nelle scritture contabili dell’esercizio successivo risultava la vendita da parte della srl (OMISSIS) di un immobile acquistato nel 1993 da cui derivava un debito Iva per euro 139.800, compensato in gran parte col credito Iva di euro 120.000 derivante dalla promessa di compravendita del 2002 con la (OMISSIS).
Secondo il tribunale la fattura n. (OMISSIS), datata 30.11.2002, era stata invece emessa piu’ tardi, probabilmente nel 2005, per una operazione oggettivamente inesistente, ed aveva avuto il solo scopo di compensare la plusvalenza derivante dalla vendita dell’immobile di (OMISSIS).
La corte d’appello, rinviando sul punto alla motivazione della sentenza di primo grado, ha condiviso la conclusione della inesistenza della operazione di cui alla fattura (OMISSIS), ritenendo anche che il documento era stato materialmente creato in una epoca successiva alla data in esso apposta. Ha ritenuto, inoltre, che l’errore di codice nella indicazione della societa’ da cui la fattura proveniva (snc (OMISSIS) anziche’ (OMISSIS)) non costituiva un errore meramente formale, ma era consapevolmente indirizzato a produrre un depistaggio, rendendo cosi’ difficilmente ricollegabile l’operazione al contratto preliminare del 2002 ed all’inesistente versamento dell’acconto.
Ha poi ritenuto la corte d’appello che, essendo provata l’inesistenza dell’acconto, era irrilevante la circostanza che l’imputato avrebbe potuto ottenere analoghi vantaggi e risparmi fiscali operando diversamente. L’orchestrazione dell’iniziativa da parte del (OMISSIS) dimostrava anche il dolo specifico.
La corte d’appello ha infine rilevato che non poteva disporsi la condanna dell’imputato al risarcimento del danno patrimoniale perche’ il danno coincide con il tributo evaso solo quando il reato abbia comportato l’estinzione dell’obbligazione tributaria o un ritardo tale nell’accertamento dell’evasione da rendere impossibile il recupero del credito erariale.
3. L’imputato, a mezzo dell’avv. (OMISSIS), propone ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione ed erronea applicazione del Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3, sotto il profilo sia della condotta tipica sia della individuazione del momento consumativo del reato; violazione del principio del ne bis in idem. Ricorda che per l’integrazione del reato di cui all’articolo 3 cit., e’ necessario che il soggetto agente indichi nelle dichiarazioni annuali elementi attivi inferiori a quelli effettivi o elementi passivi fittizi; che si avvalga di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento della falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie; che il soggetto abbia agito con il fine specifico di evasione. Il momento costitutivo e’ individuato nella presentazione di una delle dichiarazioni annuali. Lamenta che la corte d’appello non ha fatto applicazione di tali principi. Quanto al fatto che la fattura sarebbe stata creata in una data posteriore, ricorda che la sentenza di primo grado aveva invece affermato, con riferimento al (OMISSIS), che non era emersa una data certa. Lamenta poi che i giudici non hanno verificato la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie del reato contestato, e in primo luogo non hanno sottoposto a vaglio la dichiarazione annuale relativa all’anno 2005, ma si sono limitati a verificare la sussistenza o meno dell’operazione relativa alla fattura n. (OMISSIS). L’articolo 3 cit. presuppone l’indicazione nella dichiarazione annuale di elementi passivi fittizi, mentre prima di questo momento l’eventuale condotta preparatoria non assume rilevanza penale. Con l’atto di appello la difesa aveva eccepito la mancata verifica della dichiarazione dei redditi ed il mancato raffronto tra la stessa e le scritture contabili obbligatorie. La responsabilita’ dell’imputato per il reato di cui all’articolo 3 e’ stata dunque affermata prescindendo dalla verifica delle dichiarazioni dei redditi, ed in particolare di quella del 2006. Anzi, la corte d’appello non si e’ nemmeno avveduta che al fascicolo per il dibattimento non era stata mai allegata la dichiarazione di cui al capo di imputazione. Erroneamente la corte d’appello ha focalizzato la sua attenzione solo sulla parte della condotta consistente nella operazione inesistente, qualificando il fatto solo alla luce di tale aspetto.
Ricorda poi che il (OMISSIS) era stato accusato con il capo A) anche del reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 2, relativamente all’Iva del 2002, e che il tribunale aveva riqualificato questo fatto ai sensi dell’articolo 4. Lamenta che, a fronte della duplice accusa, la corte d’appello ha omesso di vagliare le dichiarazioni annuali dal 2002 al 2005. Tale verifica avrebbe messo in rilievo che per la stessa condotta – indicazione di elementi passivi fittizi riconducibili alla fattura (OMISSIS) – al (OMISSIS) sono stati contestati due diversi reati, uno nel 2003 e l’altro nel 2006. E’ evidente che, inseriti gli asseriti elementi passivi fittizi nella dichiarazione correttiva del 2003, avvalendosi della fattura (OMISSIS), questi, non essendo stati utilizzati nell’anno di inserimento, sono stati riportati nelle dichiarazioni successive fino al 2005, in cui sono stati utilizzati. Pertanto e’ erronea l’affermazione della corte d’appello secondo cui il (OMISSIS) sarebbe responsabile di due diversi reati, l’uno ex articolo 2 (riqualificato nell’articolo 4) commesso con l’indicazione degli elementi passivi fittizi nella dichiarazione correttiva del 2003, e l’altro ex articolo 3 e commesso nel 2006 per avere utilizzato gli elementi passivi fittizi riportati negli anni successivi al 2003. Secondo la giurisprudenza i reati di cui agli articoli 2, 3 e 4 hanno natura istantanea e si consumano all’atto della dichiarazione annuale indipendentemente dall’utilizzo degli elementi fittizi inseriti. L’elemento passivo preteso fittizio riportato nel capo di imputazione era gia’ stato inserito nella dichiarazione del 2003; in quella del 2005 non risulta nessun incremento e nessun decremento; infine, in quella del 2006 viene solo determinata la plusvalenza con elementi gia’ inseriti nelle precedenti dichiarazioni e quindi senza inserire alcun dato. La contestata condotta criminosa andrebbe percio’ fatta risalire alla dichiarazione del 2004. Lamenta anche che la corte d’appello ha errato nel ritenere irrilevante verificare la correttezza delle indicazioni contenute in bilancio. La sentenza impugnata omette di rispondere alle eccezioni relative alla mancata verifica di quanto riportato nelle dichiarazioni dei redditi.
Osserva, poi, che una utilizzazione successiva alla dichiarazione avvenuta attraverso o la registrazione, anche se retrodatata, del documento o l’acquisizione della disponibilita’ dello stesso, non determina la realizzazione del delitto di cui all’articolo 3, ma semmai della fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’articolo 4. Era quindi rilevante nella specie stabilire, sul piano della successione temporale, i rapporti tra i diversi segmenti della condotta, e cioe’ la falsa rappresentazione contabile, i mezzi fraudolenti, la dichiarazione mendace. Secondo la prevalente dottrina la dichiarazione mendace deve essere necessariamente preceduta dagli altri due segmenti della condotta e segna il momento di perfezionamento e consumazione del reato, che ha natura istantanea. Pertanto, non e’ configurabile il reato di cui all’articolo 3, ma semmai quello di cui all’articolo 4, laddove la falsa indicazione contabile o l’uso di mezzi fraudolenti sia successivo alla presentazione della dichiarazione mendace. Lamenta che in ogni modo la corte d’appello ha omesso di verificare che la condotta di cui al capo di imputazione risulta posta in essere con la dichiarazione del 2004. Con la conseguenza che il reato contestato e’ prescritto.
2) inosservanza ed erronea applicazione del Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3, per errata qualificazione del fatto; inesistenza del carattere fraudolento della condotta contestata. Lamenta che erroneamente la corte d’appello ha ritenuto che l’errore formale nella indicazione del codice dell’emittente la fattura fosse atto consapevolmente indirizzato al depistaggio dato che in realta’ tale errore formale non era in grado di modificare il risultato dal punto di vista fiscale. E’ stato infatti accertato che la fattura (OMISSIS) risultava registrata nella contabilita’ della srl (OMISSIS) con la causale ivi riportata. In tale contabilita’ non risultavano altre fatture che potessero destare dubbi sulla identificazione del documento da ricondurre al preliminare. Il ragionamento della corte d’appello collide con il fatto che la norma presuppone che l’uso di mezzi fraudolenti preceda l’indicazione mendace nella dichiarazione per la configurabilita’ del reato di cui all’articolo 3. La successiva formazione di documenti atti ad avvalorare la mendace dichiarazione non integra un ulteriore e diverso reato.
3) omessa o insufficiente motivazione su fatto decisivo e manifesta illogicita’ della motivazione nella parte in cui non sono esposte le ragioni per le quali la sentenza impugnata ritiene provato il dolo specifico; omessa valutazione di prove rilevanti. Lamenta che la corte d’appello ha ritenuto dirimente il vantaggio fiscale, che e’ elemento proprio della fattispecie astratta, senza curarsi di esaminare gli elementi emersi in corso di istruttoria a favore di una diversa ricostruzione.
4) mancanza o manifesta illogicita’ della motivazione relativamente alla determinazione della pena e alla mancata concessione delle attenuanti generiche.
4. L’Agenzia delle Entrate, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato, propone ricorso per cassazione deducendo:
1) violazione e falsa applicazione dell’articolo 185 c.p., e del Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3. Osserva che la fattispecie di cui all’articolo 3 e’ configurata come reato di danno e non piu’ come reato di pericolo. Il reato ora si perfeziona con la presentazione della dichiarazione fiscale mediante la quale si porta a compimento la simulazione di passivita’ e si precostituisce il diritto all’indebita detrazione o compensazione d’imposta. L’inadempimento del debito d’imposta, conseguente al reato, determina per l’amministrazione finanziaria un pregiudizio patrimoniale risarcibile, corrispondente all’ammontare dei tributi evasi.
2) mancanza, contraddittorieta’ o manifesta illogicita’ della motivazione. Lamenta che in ogni caso, anche qualora si dovesse seguire il principio invocato dalla sentenza impugnata e affermato da Sez. 3 , 22.4.1991, n. 5554, il danno dell’Erario doveva essere fatto coincidere con il tributo evaso, dal momento che nella specie non vi e’ coincidenza tra soggetto attivo del reato e soggetto passivo del tributo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Innanzitutto, deve rilevarsi che dalle sentenze di merito non si riesce a comprendere bene come si sarebbero svolti i fatti relativi alla fattura n. (OMISSIS) del 30.11.2002 emessa dalla (OMISSIS) srl e ritenuta inesistente, e quindi quale sia la ragione della qualificazione giuridica di tali fatti.
Con il capo A) della imputazione, invero, al (OMISSIS) era stato contestato il reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 2, per avere, quale amministratore della srl (OMISSIS), al fine di evadere l’IVA e di conseguire il riconoscimento di un credito inesistente (anche ai fini di compensazione con imposte a debito) o un indebito rimborso, avvalendosi della detta fattura n. (OMISSIS) del 30.11.2002 per operazione totalmente inesistente emessa dalla (OMISSIS) srl, indicato nella dichiarazione annuale obbligatoria ai fini IVA elementi passivi fittizi (fatto commesso il (OMISSIS)). La sentenza di primo grado ha appunto precisato che l’utilizzazione della detta fattura e l’indicazione di elementi passivi fittizi era avvenuta con la dichiarazione correttiva per l’esercizio 2002 trasmessa per via telematica il (OMISSIS). Questo capo di imputazione, quindi, presupponeva che la fattura de qua fosse stata utilizzata per la dichiarazione correttiva del 24.10.2003 e – essendo stato contestato il delitto di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 2, – che la fattura fosse gia’ stata registrata nelle scritture contabili obbligatorie o fosse detenuta a fine di prova.
Nel contempo, al coimputato (OMISSIS) era contestato il reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 8, perche’, al fine di consentire alla srl (OMISSIS) di evadere l’IVA e le imposte sui redditi, quale amministratore della (OMISSIS) srl, emetteva la fattura n. (OMISSIS) del 30.11.2002 nei confronti della srl (OMISSIS), relativa ad operazione totalmente inesistente (fatto commesso tra 11 30.11.2002 e il 24.10.2003). Anche la contestazione nei confronti del (OMISSIS) quindi presupponeva che la fattura fosse stata emessa prima del 24.10.2003.
La sentenza di primo grado, pero’, a pag. 36-37 ha affermato che all’epoca della dichiarazione correttiva del 24.10.2003 la fattura n. (OMISSIS) (cosi’ come il relativo contratto preliminare) “non esisteva neppure sulla carta” e che la fattura era stata in realta’ “emessa molto piu’ tardi, probabilmente nel 2005”. Di conseguenza, ha riqualificato il reato ai sensi del Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 4. Sennonche’, poche righe dopo, con palese contraddittorieta’, la sentenza afferma, con riferimento al reato addebitato al (OMISSIS) di emissione della stessa fattura n. (OMISSIS) per operazione inesistente, che il reato stesso doveva ritenersi invece consumato (ossia che la medesima fattura n. (OMISSIS) doveva ritenersi emessa) in una data fra il 30.11.2002 e il 24.10.2003. Quindi, nella stessa pagina si afferma dapprima che la fattura n. (OMISSIS) era inesistente materialmente alla data del 24.10.2003 e che molto probabilmente era stata emessa nel 2005 e subito dopo che la stessa doveva invece ritenersi emessa prima del 24.10.2003.
Queste conclusioni – oggetto di specifica contestazione con i motivi di appello – sono state confermate dalla corte d’appello, senza specifica ed adeguata motivazione al riguardo.
2. Il reato di cui al capo A), riqualificato ai sensi del Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 4, e’ stato dichiarato prescritto e la relativa statuizione non e’ stata oggetto di impugnazione. La questione sulla effettiva data di emissione della fattura n. (OMISSIS), tuttavia, e’ ancora rilevante perche’ la stessa fattura e’ stata richiamata anche ai fini della configurabilita’ del reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3, contestato al capo B), e per il quale e’ intervenuta condanna.
Con il capo B), invero, e’ stato contestato al (OMISSIS) il reato di cui all’articolo 3 cit., perche’ nella sua qualita’, al fine di evadere le imposte sui redditi gravanti sulla societa’ (OMISSIS), sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie di tale societa’ ed avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento, aveva inserito nella dichiarazione annuale sui redditi della societa’ relativa all’esercizio 22.05.05 – 21.05.06, elementi passivi fittizi da cui era derivata un’evasione d’imposta superiore ad euro 77.468,53. In particolare, secondo il capo di imputazione, l’elemento passivo fittizio era costituito dal costo “altre voci costituenti rimanenze”, fittiziamente incrementato di euro 600.000, sulla base della pregressa movimentazione finanziaria, riportata nelle scritture contabili, a titolo di fittizio anticipo per l’acquisto di un bene immobile, di cui, appunto, alla suddetta fattura n. (OMISSIS) del 30.11.02 emessa dalla srl (OMISSIS). Questo anticipo era stato successivamente girato nelle scritture contabili, sempre in maniera fraudolenta, quale aumento del valore di un immobile gia’ posseduto dalla srl (OMISSIS), sicche’ la vendita successiva di questo, avvenuta nell’esercizio 22.5.2005-21.5.2006, non aveva determinato la reale plusvalenza.
La sentenza di primo grado aveva accertato che nelle scritture contabili della srl (OMISSIS) era stato rinvenuto quanto segue: – il libro giornale, alla data del 30 dicembre 2002, recava l’annotazione, nel conto “fornitori conto anticipi”, quindi come credito della societa’ nei confronti di un fornitore, di una fattura dello stesso importo di quello della n. (OMISSIS), ma che riportava come emittente la “FAMA s.n.c.”, e come contropartita la registrazione di un debito nei confronti della S.n.c. (OMISSIS); – nel prospetto periodico di liquidazione IVA riferita al 2002 era stata rinvenuta una quinta pagina inserita “nel registro multi aziendale”, riferita all’ultimo trimestre, non uguale alle precedenti, non recante i dati presenti nelle altre quattro, priva di numerazione generale, in disaccordo con la progressione numerica delle precedenti, in cui era stata annotata l’IVA per euro 120.000,00 in assenza di specifica registrazione della fattura nel registro IVA-acquisti; – nella contabilita’ relativa all’esercizio 2003/2004 risultava l’estinzione del debito di cui alla suddetta fattura e, come contropartita, l’iscrizione nel passivo dello stato patrimoniale di un debito nei confronti dei soci, come “finanziamento in conto capitale” (quindi come se i soci avessero pagato il debito nei confronti della (OMISSIS)); -le scritture dell’esercizio 2004-2005 davano conto della vendita di un immobile, acquistato nel 1993, alla societa’ (OMISSIS), con emissione di una fattura per euro 700.000,00 piu’ IVA, per un totale di euro 839.800,00, operazione da cui era derivato un debito di IVA pari ad euro 139.800,00, non totalmente versata perche’ compensata, in gran parte, con l’IVA (pari ad euro 120.000,00) a credito conseguente alla promessa di compravendita di cui al contratto del 2002 con la (OMISSIS); – il costo di detto immobile ceduto alla (OMISSIS), iscritto in bilancio, era pari ad euro 77.468,00, ed a seguito del giro contabile effettuato dal “credito” nei confronti della (OMISSIS) a “rivalutazione immobili”, il valore contabile era stato iscritto per euro 679.000,00; – quindi attraverso la utilizzazione della suddetta fattura di acconto n. (OMISSIS) era stata notevolmente ridotta la plusvalenza. La sentenza di primo grado, pertanto, aveva ritenuto che il (OMISSIS), attraverso la fattura n. (OMISSIS) relativa ad un’operazione inesistente, e la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e, quindi con mezzi fraudolenti, aveva indicato nella dichiarazione annuale ai fini delle imposte sul reddito, elementi passivi fittizi da cui era derivata un’evasione d’imposta superiore alla soglia di punibilita’ e si era reso responsabile anche del reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3, commesso il (OMISSIS).
La sentenza impugnata ha poi respinto gli specifici motivi di appello, confermando pienamente i suddetti accertamenti della sentenza di primo grado, ed in particolare che la fattura n. (OMISSIS) riguardava una operazione totalmente inesistente ed era stata materialmente emessa dopo l’anno 2004, e verosimilmente nel 2005. Secondo la corte d’appello la fittizieta’ dell’operazione relativa alla detta fattura era divenuta, con l’artifizio della intestazione alla (OMISSIS), soggetto estraneo al (OMISSIS), lo strumento fraudolento per conseguire indebiti risparmi fiscali.
3. Cio’ posto, deve ritenersi innanzitutto fondato il primo motivo di ricorso, perche’ effettivamente le conclusioni cui e’ pervenuta la corte d’appello si pongono in contrasto con la costante interpretazione data da questa Corte al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3, in particolare in ordine sia alla struttura oggettiva del fatto tipico di dichiarazione fraudolenta mediante artifici sia all’individuazione del momento consumativo del reato.
Ai fini della integrazione del reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, di cui all’articolo 3 cit., invero, e’ necessario: 1) che il contribuente indichi nelle dichiarazioni annuali elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, con superamento delle previste soglie di punibilita’; 2) che il soggetto abbia posto in essere una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e si sia avvalso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di tale falsa rappresentazione; 3) che il soggetto abbia agito con il dolo specifico di evasione (cfr. Sez. 3 , n. 8962 del 01/12/2010, dep. 2011, Rossi, Rv. 249689, che annullo’ con rinvio la decisione che aveva individuato, nella mera condotta omissiva della mancata comunicazione delle operazioni mediante il cosiddetto modello “Intrastat”, un mezzo fraudolento).
E’ poi pacifico che il momento costitutivo del disvalore del fatto riconducibile alla fattispecie delittuosa di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 3, (cosi’ come di quella di cui al precedente articolo 2) e’ stato individuato dal legislatore nella presentazione di una delle dichiarazioni annuali previste ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto.
Giustamente, pertanto, il ricorrente lamenta che la corte d’appello, invece di esaminare e valutare l’elemento costitutivo del reato, ha rilevato che “in giudizio si e’ dibattuto a lungo in ordine alla regolarita’ o meno della contabilizzazione della fattura in esame, all’inserimento nelle poste di bilancio dell’operazione dalla stessa documentata, alla possibilita’ di abbattere, attraverso il versamento dell’acconto non seguito dall’acquisizione del bene, la plusvalenza derivante dalla vendita di un diverso immobile, ma gli argomenti trattati in questo ambito presuppongono, ovviamente un’operazione realmente venuta in essere, di cui quindi possa essere discussa la regolarita’ sui diversi piani esaminati. Dunque preliminare ad ogni altra considerazione e’ la valutazione della rispondenza della fattura n. (OMISSIS)/2002 ad un’iniziativa economica non fittizia” (pag. 11 della sentenza impugnata). La corte d’appello ha quindi affermato che “il Tribunale, con una disamina puntuale e minuziosa del corposo materiale istruttorio, e’ giunto alla conclusione, che la Corte d’Appello condivide, della inesistenza della operazione che la fattura in discorso presuppone, ritenendo, fra l’altro, che il documento sia stato materialmente creato in epoca successiva alla data reputata inveritiera anch’essa, che vi e’ stata apposta” (pag. 11 sentenza impugnata). Conclusione questa che, peraltro, come dianzi rilevato, e’ in palese contraddizione con l’altra affermazione contenuta nella sentenza di primo grado, ossia che il reato contestato al (OMISSIS), consistente proprio nella emissione della fattura per operazione inesistente n. (OMISSIS) del 30.11.2002, doveva ritenersi commesso (e pertanto la fattura emessa) nel periodo tra il 30.11.2002 ed il 24.10.2003, e in particolare nella data piu’ antica.
Ora, a parte questa considerazione, esattamente il ricorrente lamenta che la corte d’appello si e’ limitata ad accertare la sussistenza o meno dell’operazione sottesa alla fattura n. (OMISSIS) del 30.11.2002 emessa dalla (OMISSIS), mentre avrebbe dovuto innanzitutto e principalmente sottoporre a vaglio la dichiarazione annuale relativa all’anno 2005, presentata il 30.11.2006. Questa doverosa valutazione, invece, non e’ stata mai compiuta. Il che costituisce dimostrazione di una erronea applicazione del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 3, il quale – al pari del precedente articolo 2 – presuppone, quale elemento costitutivo del reato, l’indicazione nella dichiarazione annuale di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ovvero di elementi passivi fittizi. Questa indicazione rappresenta l’ultimo segmento della complessa condotta con la quale viene a realizzarsi la fattispecie di reato in esame, di cui rappresenta il momento consumativo.
E’ assolutamente pacifico che prima di questo momento l’eventuale condotta preparatoria non assume alcuna rilevanza penale, anche perche’ per il delitto in esame il tentativo non e’ configurabile ai sensi del Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 6.
Il ricorrente ricorda che con l’atto di appello aveva esplicitamente lamentato: – che i due testi di accusa, mar. (OMISSIS) e mar. (OMISSIS), avevano dichiarato di non avere verificato la dichiarazione dei redditi in questione e di avere controllato le sole scritture contabili; – che era quindi mancato un raffronto delle dichiarazione dei redditi e dell’IVA con le scritture contabili obbligatorie. Eccepisce pertanto che la sua responsabilita’ penale e’ stata affermata prescindendo dalla verifica della dichiarazione dei redditi e, in particolare, della dichiarazione richiamata nello stesso capo di imputazione, relativa all’esercizio 2005-2006. Lamenta inoltre che la corte d’appello non si e’ nemmeno avveduta che al fascicolo del dibattimento non era mai stata acquisita la dichiarazione di cui al capo di imputazione: invero le uniche dichiarazioni presenti nel fascicolo del dibattimento sono quelle relative al periodo d’imposta 2003 e al periodo d’imposta 2004.
4. Sotto questo aspetto il motivo e’ fondato perche’ effettivamente appare che la sentenza impugnata abbia ritenuto sufficiente, per la configurabilita’ del reato, la sola pregressa fittizia movimentazione contabile riportata nelle scritture contabili obbligatorie relativa al fittizio acquisto di un immobile di cui alla fattura n. (OMISSIS) ed al fittizio giro contabile per l’aumento di valore di un immobile, senza verificare e valutare come questi elementi erano stati poi inseriti ed utilizzati nella dichiarazione dei redditi presentata nel 2006.
In sostanza, la corte d’appello appare aver adottato una interpretazione (a-naloga a quella poi seguita da Sez. Fer. 1/8/2013, n. 35729, Agrama e altri, Rv. 256579, in relazione al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 2, e massimata) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un “coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento… che ha consentito… di avvalersi della documentazione fiscale fittizia” al sottoscrittore della dichiarazione. Da questa tesi interpretativa deriverebbe poi la conseguenza che chi inserisce o fa inserire nelle scritture contabili obbligatorie fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ovvero altri elementi fittizi con una falsa rappresentazione della realta’, avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento, risponde poi per cio’ solo anche del (o di concorso nel) reato di dichiarazione fraudolenta di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 2 o articolo 3, in quanto il soggetto stesso sarebbe necessariamente consapevole del fatto che la dichiarazione sarebbe stata infedele su tali punti, sicche’ sarebbe irrilevante accertare la concreta condotta poi tenuta dal soggetto stesso in relazione all’inserimento ed alla utilizzazione dei dati fittizi nella dichiarazione ed alla sua presentazione. Unicamente in forza di questa opinione, infatti, puo’ spiegarsi il motivo per il quale, nella specie, la corte d’appello ha omesso di esaminare e valutare (ritenendola evidentemente superflua) la dichiarazione dei redditi presentata nel 2006, ed anzi ha omesso anche di accertare se la stessa fosse o meno presente nel fascicolo del dibattimento.
Si tratta pero’ di una tesi che non puo’ essere qui condivisa e confermata, perche’ contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74. Difatti, sia il reato di cui all’articolo 2 sia quello di cui all’articolo 3 hanno una struttura bifasica, comprendente due momenti diversi. Vi e’ una prima fase preparatoria, in cui la condotta ha natura propedeutica e strumentale, e che e’ caratterizzata, nell’articolo 2, dalla registrazione nelle scritture contabili obbligatorie o dalla detenzione a fini di prova di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, e, nell’articolo 3, dalla falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e dalla circostanza che il soggetto si avvalga di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di tale falsita’. Vi e’ una seconda e successiva fase in cui si richiede che le fatture o documenti per operazioni inesistenti ovvero che il falso contabile e la condotta fraudolenta che lo ha accompagnato si traducano, per avere rilevanza penale, nella indicazione, in una delle dichiarazioni dei redditi o dell’iva, di elementi attivi inferiori od elementi passivi fittizi. L’indicazione mendace nella dichiarazione costituisce il momento di perfezionamento e di consumazione del reato, che ha natura istantanea (cfr., nel senso che i reati in esame si consumano nel momento di presentazione della dichiarazione e non in quello della registrazione dei dati fittizi nella contabilita’, tra le altre, Sez. 2, n. 42111 del 17/09/2010, De Seta, Rv. 248499; Sez. 1, n. 25483 del 05/03/2009, Daniotti, Rv. 244155; Sez. 3, n. 626 del 21/11/2008, Zipponi, Rv. 242343; nonche’ Sez. 3, n. 23229 del 27/04/2012, Rigotti, Rv. 242999).
Come risulta inequivocamente dagli stessi lavori preparatori, il perfezionamento delle fattispecie criminose e’ stato previsto dal legislatore proprio per “superare l’impianto normativo della Legge n. 516 del 1982, la quale configurava le fattispecie di reato secondo lo schema dei c.d. reati prodromici” (Circolare ministeriale 154/E del 4 agosto 2000), ritenuto inadeguato rispetto al principio di offensivita’. La condotta integrativa dei due reati di dichiarazione fraudolenta di cui agli articoli 2 e 3, e’, quindi, una condotta progressiva, che non si esaurisce nella utilizzazione e nell’inserimento in contabilita’ della falsa fatturazione o della falsa rappresentazione con l’uso di mezzi fraudolenti, ma completa il suo iter (da potenzialmente ad effettivamente offensivo) incidendo sul contenuto della dichiarazione, sicche’ la condotta stessa viene punita solo se ed in quanto la prima fase viene completata con la seconda, mediante la dichiarazione dell’elemento passivo fittizio. E’ dunque pacifico, in giurisprudenza, che ai fini della punibilita’ sono congiuntamente necessarie entrambe le condotte (Sez. 3, n. 14855 del 19/12/2011, dep. 2012, Malago’, Rv. 252513).
Questa interpretazione e’ stata del resto adottata sia dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 27 del 25/10/2000, Di Mauro, Rv. 217031, e con la sentenza n. 1235 del 28/10/2010, dep. 19/01/2011, Giordano, Rv. 248869, e sia dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 49 del 2002. Gia’ la sentenza Di Mauro aveva rilevato che “Conformemente alle direttive della Legge Delega n. 205 del 1999, articolo 9, la nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, e’ informata al superamento della strategia privilegiata dalla previgente normativa, fondata sul modello delle violazioni prodromiche ad una falsa dichiarazione e all’evasione d’imposta con intenti anticipatori di tutela, e, nelle linee generali (sottolineate con inusuale chiarezza e vigore in molteplici passi della Relazione governativa che accompagna il decreto), segna una netta inversione di rotta, imperniandosi viceversa l’intervento repressivo su un piu’ ristretto catalogo di fattispecie delittuose, connotate da rilevante offensivita’ degli interessi connessi al prelievo fiscale e da dolo specifico di evasione d’imposta. La scelta del modello normativo ha portato a concentrare l’attenzione sulla dichiarazione annuale prevista ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, quale momento essenziale di disvalore del fatto, … nel quale si realizza dal lato del contribuente il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione d’imposta…. La violazione dell’obbligo di veritiera prospettazione della situazione reddittuale e delle basi imponibili e’ al fondamento, segnatamente, della tipologia criminosa costituente l’asse portante del nuovo sistema punitivo: la dichiarazione annuale fraudolenta che, siccome non soltanto mendace ma caratterizzata altresi’ da un particolare coefficiente di insidiosita’ per essere supportata da un impianto contabile o documentale per operazioni inesistenti, costituisce dunque la fattispecie commissiva ontologicamente piu’ grave”. I reati di dichiarazione fraudolenta, quindi, hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione annuale, restando pertanto integrati, come si avverte nella Relazione governativa, “non dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione, alla quale in base alla disciplina in vigore non dev’essere allegata alcuna documentazione probatoria”. Il comportamento precedente alla dichiarazione, quindi, “si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell’illecito, e percio’ non punibile”. La sentenza Di Mauro aveva anche rilevato che la ratio legis dell’articolo 6, che esclude la punibilita’ a titolo di tentativo, e’ “ovvia e trasparente, e’ quella di evitare la vanificazione della strategia abolitrice del modello di reato prodromico mediante la generalizzata applicazione dell’articolo 56 c.p. (Relazione governativa, par. 3.1.5), potendosi altrimenti sostenere che la propedeutica registrazione in contabilita’ o la detenzione a fine di prova di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, accertate nel corso del periodo d’imposta, siano teleologicamente dirette in modo non equivoco alla successiva dichiarazione fraudolenta, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato; s’intende in tal modo favorire nell’interesse dell’erario la resipiscenza, anche se non spontanea, del contribuente, il quale di fronte a un accertamento compiuto nei suoi confronti nel corso del periodo d’imposta sara’ portato a presentare una dichiarazione veridica e conforme alle risultanze della verifica fiscale per sottrarsi alla responsabilita’ penale”.
Le medesime considerazioni sono contenute nella sentenza costituzionale n. 49 del 2002, che ha anch’essa sottolineato che con la riforma del 2000 il legislatore “ha inteso abbandonare il modello del c.d. reato prodromico a favore del recupero alla fattispecie penale tributaria del momento dell’offesa degli interessi dell’erario”, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni “a monte” della dichiarazione. In particolare, la Corte costituzionale ha sottolineato, tra l’altro, che la disposizione del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 6, escludendo la punibilita’ a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli articoli 2, 3 e 4, dello stesso decreto legislativo “mira – oltre che a stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta – ad evitare che violazioni preparatorie, gia’ autonomamente represse nel vecchio sistema (registrazione in contabilita’ di fatture per operazioni inesistenti, omesse fatturazioni, sottofatturazioni, ecc.), possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato”.
Tutte queste considerazioni sono state poi richiamate e ribadite anche dalla sentenza delle Sezioni Unite Giordano del 2010, nonche’ dalle numerosissime ed uniformi sentenze emanate finora da questa Sezione in materia. Fra le piu’ recenti, merita qui richiamare, per la rigorosa ed esaustiva motivazione e le condivisibili conclusioni, la gia’ ricordata sentenza Sez. 3, n. 23229 del 27/04/2012, Rigotti, la quale ha confermato l’infondatezza della tesi secondo cui per integrare i reati sarebbero sufficienti le false annotazioni nelle scritture contabili, osservando che tale assunto non considera che “l’assetto sanzionatorio introdotto dalla normativa del 2000 ha, rispetto alla disciplina precedente, focalizzato il momento consumativo del reato sulla stretta condotta della presentazione della dichiarazione stessa con il conseguente abbandono del modello del reato prodromico in precedenza considerato dal legislatore… in tal senso, infatti, depone inequivocabilmente il dato testuale dello stesso articolo 2 ove la condotta e’ espressamente contemplata in quella di indicare in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto elementi passivi fittizi. In stretta connessione con cio’, il Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 6, ha previsto, inoltre, che il delitto in questione non sia comunque punibile a titolo di tentativo; ed e’ significativo, in proposito, che la stessa relazione ministeriale al decreto in oggetto spieghi che la ratio della norma e’ quella di “evitare che il trasparente intento del legislatore delegante di bandire il modello del reato prodromico risulti concretamente vanificato dall’applicazione del generale principio dell’articolo 56 c.p.: si potrebbe sostenere, difatti, ad esempio, che le registrazioni in contabilita’ di fatture per operazioni inesistenti o sottofatturazioni, scoperte nel periodo d’imposta, rappresentino atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta o infedele, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato”. Di qui, dunque, la conseguenza, da un lato, che solo con la condotta di presentazione della dichiarazione il reato puo’ considerarsi perfezionato e, dall’altro, che, a differenza di quanto, in precedenza, stabiliva la Legge n. 516 del 1982, articolo 4…, le condotte pregresse ad essa restano, sul piano penale, irrilevanti”. Proprio in considerazione della irrilevanza sul piano penale delle condotte pregresse, la sentenza in esame ha affermato che i comportamenti (quali, ad esempio, l’inserimento nella contabilita’ di false fatture) tenuti da un soggetto quando era ancora amministratore di una societa’ e che si era poi dimesso prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, non potevano essere valorizzati neppure in termini di concorso con colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore, aveva indicato nella dichiarazione gli elementi fittizi cosi’ perfezionando il reato, e cio’ perche’ “pur essendo, in astratto, possibile concepire in capo ad un extraneus… il concorso nel reato proprio di cui all’articolo 2 in caso di determinazione od istigazione alla presentazione della dichiarazione, non apparendo ostarvi, in via di principio, la natura di reato istantaneo, una diversa conclusione comporterebbe, ancor prima di ogni altra considerazione, la vanificazione della precisa volonta’ del legislatore nel senso sopra chiarito”.
5. Di conseguenza, sulla base di questa pacifica e costante interpretazione, fondata sulla lettera e la ratio del sistema normativo introdotto dal Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, deve confermarsi il principio che tutti i comportamenti tenuti dall’agente prima della presentazione della dichiarazione, ivi comprese le condotte di acquisizione e registrazione nelle scritture contabili di fatture o documenti fittizi ovvero di false rappresentazioni anche con uso di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolarne l’accertamento, sono irrilevanti ai fini penali e non possono dare luogo nemmeno ad una forma di tentativo punibile, in quanto per la configurabilita’ dei reati in esame e’ indispensabile la presentazione della dichiarazione e l’effettivo inserimento nella stessa degli elementi fittizi.
La motivazione della sentenza impugnata e’ pertanto erronea e comunque carente, perche’ si e’ soffermata esclusivamente sulla fase prodromica e preliminare (di per se’ penalmente irrilevante) omettendo totalmente di esaminare e valutare l’elemento costitutivo del reato, ossia il contenuto della dichiarazione dei redditi relativa all’esercizio 22.5.2005-21.5.2006, dichiarazione che peraltro non e’ stata nemmeno acquisita al processo.
Inoltre, in mancanza della dichiarazione, non era possibile nemmeno accertare il sottoscrittore della stessa, ossia l’autore del reato. La sentenza impugnata, del resto, non contiene la benche’ minima motivazione su un eventuale concorso del ricorrente con l’ignoto sottoscrittore, concorso che, come dianzi ricordato, secondo la costante giurisprudenza di questa Sezione, non puo’ concretizzarsi solo con una attivita’ preparatoria di acquisizione di fatture ed elementi fittizi e col loro inserimento nelle scritture contabili o con la predisposizione di mezzi fraudolenti, ma richiede necessariamente una concreta attivita’ di determinazione o di istigazione, riferita specificamente alla presentazione della dichiarazione.
6. Il ricorrente lamenta poi che con l’appello aveva ricordato che il capo B) della imputazione gli aveva contestato l’inserimento nella dichiarazione dei redditi 2006 di elementi passivi fittizi, consistenti dal costo di “altre voci costituenti rimanenze” fittiziamente incrementate di euro 600.000; incremento basato sulla pregressa movimentazione finanziaria, riportata nelle scritture contabili, a titolo di fittizio anticipo dell’immobile di cui alla fattura n. (OMISSIS), ed alla successiva girata fraudolenta di tale anticipo quale aumento di valore dell’immobile posseduto. Aveva quindi eccepito che gli elementi passivi fittizi di cui egli si sarebbe avvalso nel 2006 erano sempre gli stessi ricondotti alla fattura n. (OMISSIS) del 2002 inseriti con la dichiarazione correttiva del 2003. Difatti, la sentenza di primo grado aveva osservato che dalla contabilita’ relativa all’esercizio 2003-2004 risultava l’estinzione del debito verso la (OMISSIS) e, come contropartita, l’iscrizione di un debito nei confronti dei soci, come finanziamento in conto capitale. Sicche’ l’elemento passivo fittizio di cui al capo B), costituito dal costo di “altre voci costituenti rimanenze” fittiziamente incrementate di euro 600.000, appariva per la prima volta nella dichiarazione dei redditi del 2004 (relativa all’esercizio 2003-2004) nel rigo RS9 (ove era riportato un saldo finale di euro 681.084 a fronte di un saldo iniziale di euro 77.469); nonche’ nella dichiarazione 2005, che alla stessa voce riportava un saldo iniziale ed uno finale di euro 681.084, senza nessuna variazione; e poi nella dichiarazione 2006, dove veniva solo determinata la plusvalenza con elementi gia’ inseriti nelle precedenti dichiarazioni, e quindi senza inserire alcun dato. Aveva quindi eccepito che la condotta criminosa contestata dell’inserimento nella dichiarazione dell’elemento passivo fittizio, avrebbe comunque dovuto farsi risalire alla dichiarazione 2004 o a quella 2005. Da cio’ il ricorrente trae la conseguenza che, in primo luogo, avrebbe dovuto ravvisarsi un bis in idem, e, in secondo luogo, che in ogni caso il fatto contestato al capo B) avrebbe dovuto semmai essere qualificato come reato ai sensi del Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 4, e non come reato previsto dal precedente articolo 3.
Su questa specifica eccezione, la sentenza impugnata ha omesso di motivare.
Stante la carenza di motivazione, effettivamente, dal solo contenuto delle sentenze di merito (essendo, com’e’ noto, inibito a questa Corte di legittimita’ e-saminare direttamente gli atti), non si riesce bene a comprendere, anche a fronte delle specifiche contestazioni del ricorrente, quale sarebbe stata la successione cronologica fra i diversi segmenti della condotta contestata (falsa rappresentazione contabile, mezzi fraudolenti, dichiarazione mendace), e quali sarebbero stati specificamente gli elementi passivi fittizi utilizzati in maniera fraudolenta, e in particolare se – come si sostiene nel ricorso – tali elementi passivi coinciderebbero in sostanza con il contenuto della fattura n. (OMISSIS) e comunque se l’elemento passivo fittizio “costituito dal costo altre voci costituenti rimanenze” effettivamente sarebbe stato gia’ inserito nella dichiarazione relativa all’annualita’ 2003-2004 e riportato anche nella dichiarazione 2005.
Queste circostanze avrebbero invece dovuto essere accertate ed approfondite dalla corte d’appello anche al fine di valutare il fondamento della specifica eccezione della difesa sulla esatta qualificazione giuridica del fatto. E difatti, secondo una autorevole e diffusa dottrina penal-tributaria, richiamata dal ricorrente, stante il carattere progressivo della condotta descritta dal Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articoli 2 e 3, il fatto prodromico si perfeziona e viene punito se e in quanto sia completato con la relativa dichiarazione, il che comporterebbe che questa debba essere riferita allo stesso periodo d’imposta. Quindi, non qualsiasi dichiarazione potrebbe essere punita ex articoli 2 o 3, ma solo quella che costituisce il momento perfezionativo dell’iter iniziato con la falsa rappresentazione nelle scritture contabili. In sostanza, il nuovo schema offensivo previsto dal legislatore del 2000 avrebbe comportato la previsione di una fattispecie a formazione progressiva, che si sviluppa dal fatto prodromico al fatto offensivo, con la conseguenza del riferimento sul piano temporale del fatto offensivo al fatto prodromico, sicche’ la dichiarazione dovrebbe riguardare il periodo di imposta di utilizzo in contabilita’, trattandosi appunto di utilizzo che si completa con la dichiarazione. Questa tesi, ovviamente, non comporta che le successive dichiarazioni annuali che espongano elementi passivi fittizi siano esenti da possibile responsabilita’ penale, ma solo che esse dovrebbero essere qualificate non ai sensi del Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articoli 2 e 3, (perche’ nelle successive annualita’ non si ha la progressione nello stesso periodo d’imposta dall’utilizzazione alla dichiarazione), bensi’ ai sensi dell’articolo 4 (perche’ si ha una dichiarazione di elementi passivi fittizi senza contemporaneo utilizzo della falsa rappresentazione nelle scritture contabili e dei mezzi fraudolenti, avvenuto in anni precedenti). Cio’ perche’, esauritasi la condotta “bifasica” dell’utilizzo completato dalla dichiarazione, sussiste solo la condotta “monofasica” della dichiarazione di elementi passivi fittizi.
7. Analogo vizio di mancanza di motivazione o di motivazione meramente apparente si riscontra sull’altra specifica doglianza avanzata con l’atto di appello e relativa alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato. La fattispecie di cui all’articolo 3 cit. e’ punita esclusivamente a titolo di dolo specifico: e’ percio’ necessario che la condotta non solo determini in concreto un’evasione di imposta, ma sia appunto specificamente finalizzata a questo scopo.
Sempre con l’atto di appello il ricorrente aveva contestato la presenza di un dolo specifico, eccependo in particolare: – che nelle dichiarazioni 2003 il (OMISSIS) aveva inserito l’importo corrispondente alla fattura n. (OMISSIS) del 2002; – che ai fini IVA per l’annualita’ 2003 non vi erano compensazioni o rimborsi riguardanti tale operazione; – che ai fini delle imposte dirette per gli esercizi 2002-2003, 2003-2004, 2004-2005 non era avvenuto nulla; – che solo con l’esercizio 2005-2006 era stato posto in compensazione il debito Iva sulla vendita di immobile ad (OMISSIS) con l’Iva a credito riconducibile alla fattura n. (OMISSIS); – che la stessa guardia di finanza aveva evidenziato che la registrazione della detta fattura non aveva avuto esiti ai fini delle imposte dirette; – che quindi, secondo la tesi accusatoria, la srl (OMISSIS) avrebbe indicato un’operazione IVA di euro 120.000 assolutamente inesistente e poi utilizzato una fattura ad essa riferibile nel 2002 non per abbattere il reddito della societa’ o per compensare un’eventuale iva a debito ma per far emergere un credito iva che tuttavia la societa’ non aveva ne’ chiesto a rimborso ne’ utilizzato per ben tre anni; – che da cio’ derivavano seri dubbi sulla esistenza del dolo specifico, non essendo verosimile che la societa’ si fosse indotta ad utilizzare una operazione Iva di euro 120.000 nel 2002 allo scopo di evadere le imposte tre anni dopo, cio’ tanto piu’ essendo emerso che la societa’ era stata costituita unicamente allo scopo di realizzare un’operazione immobiliare speculativa sul terreno di (OMISSIS) e non aveva mai considerato l’ipotesi di rivenderlo; – che l’utilizzo di una operazione inesistente non trovava logica spiegazione neppure nella prospettiva di un risparmio di imposte perche’, se non vi fosse stata l’operazione con (OMISSIS) srl, la srl (OMISSIS) avrebbe comunque potuto pagare imposte di gran lunga inferiori a quelle che sono state contestate come evase (in particolare, o rivalutando le quote pagando una imposta sostitutiva di euro 13.800, o formalizzando una semplice cessione di quote con una imposta complessiva sostitutiva di euro 86.250) sulla plusvalenza; – che pertanto, se la finalita’ della societa’ fosse stata quella di evadere le imposte sulla vendita del 2005, non sussisteva, ne’ nel 2002 ne’ successivamente, motivo alcuno per ricorrere ad un’operazione inesistente e tanto meno sottoscrivere un preliminare.
La corte d’appello ha omesso di valutare queste specifiche doglianze, ritenendo in pratica sufficiente, per la presenza del dolo specifico, il solo elemento oggettivo del vantaggio fiscale, senza esaminare gli elementi addotti dalla difesa a favore di una diversa ricostruzione e limitandosi ad affermare, con motivazione di stile, che, una volta provata l’inesistenza dell’acconto e il conseguimento di un illecito vantaggio economico, era irrilevante accertare “quali analoghi risparmi fiscali il (OMISSIS) avrebbe potuto ottenere altrimenti operando”. La corte d’appello ha quindi ritenuto dirimente il solo vantaggio fiscale, che e’ elemento proprio della fattispecie astratta del reato contestato.
Nella memoria depositata in sede di discussione in appello la difesa aveva dedotto che era emerso che la societa’ era stata costituita per la realizzazione della sola speculazione immobiliare del terreno in (OMISSIS) e che la volonta’ dei soci era quella di costruire sicche’ non si comprendeva il motivo dell’inserimento di una operazione inesistente che, nei progetti della societa’, non avrebbe comportato alcun vantaggio ma la sola esposizione, per ben tre anni, a possibili accertamenti e sanzioni, il che appariva tanto piu’ inverosimile con la tesi che la fattura n. (OMISSIS) del 30.11.2002 e il preliminare del 29.11.2002 sarebbero stati materialmente creati nel 2005, senza peraltro nemmeno correggere l’errore nel codice fornitori. Anche a queste specifiche deduzioni la sentenza impugnata non ha dato risposta.
8. In accoglimento dei suddetti motivi del ricorso dell’imputato, la sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte d’appello di Trento, restando assorbiti allo stato i restanti motivi del detto ricorso.
9. Va ora esaminato il ricorso della parte civile Agenzia delle entrate, sebbene le statuizioni civili restino anche subordinate alla decisione del giudice del rinvio sulla sussistenza del reato contestato al capo B), di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3. Non potrebbero invero le statuizioni civili essere fondate sul capo A), per il quale e’ mancata una sentenza di condanna, essendo stato il reato dichiarato prescritto gia’ con la sentenza di primo grado.
Questo ricorso va accolto nei limiti che seguono.
10. La sentenza di primo grado aveva condannato il (OMISSIS) al risarcimento dei danni patiti dalla amministrazione finanziaria in conseguenza del reato di cui all’articolo 3 cit. In particolare, aveva condannato l’imputato al risarcimento dei danni patrimoniali quantificati in euro 223.840,00, importo pari alla somma dell’Ires e dell’Irap evase, oltre interessi e rivalutazione. Aveva invece respinto la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale e d’immagine, per la mancanza di prova sulla sua sussistenza.
La corte d’appello ha modificato questa statuizione osservando che il danno subito dalla Pubblica Amministrazione non coincide con il tributo evaso, se non nei casi in cui il fatto reato abbia comportato l’estinzione dell’obbligazione tributaria, quando soggetto attivo del reato e soggetto passivo del tributo non coincidono, quando il fatto reato abbia comportato un ritardo tale nell’accertamento dell’evasione da rendere impossibile il recupero del credito erariale. Nella specie non si era verificata in concreto nessuna di queste ipotesi.
L’Avvocatura dello Stato ha impugnato questa statuizione osservando che la fattispecie dell’articolo 3 e’ ora configurata come un reato di danno e non piu’ di pericolo, che si perfeziona con la presentazione della dichiarazione fiscale; e che il pregiudizio patrimoniale risarcibile e’ corrispondente all’ammontare dei tributi evasi. In ogni caso, nella specie non vi e’ coincidenza tra soggetto attivo del reato e soggetto passivo del tributo. L’Avvocatura ricorrente invoca quindi espressamente l’applicazione del principio affermato da una recente sentenza di questa Corte (Sez. Fer. 1/8/2013, n. 35729, Agrama e altri, Rv. 256583), secondo cui “in tema di reati tributari, l’Agenzia delle entrate costituita parte civile ha diritto al risarcimento sia del danno patrimoniale – che non coincide con la mera misura dell’imposta evasa, ma deve tener conto anche del danno funzionale rappresentato dallo sviamento e turbamento dell’attivita’ di accertamento tributario – che del danno morale – inteso come pregiudizio alla credibilita’ nei confronti di tutti i consociati dell’organo accertatore”. In particolare, questa decisione ha ritenuto che il principio generale della risarcibilita’ del danno non patrimoniale ai sensi dell’articolo 2059 c.c., ed il principio della risarcibilita’ del danno all’immagine subito da enti preposti al controllo del corretto esercizio di attivita’ (economiche e non) a seguito della commissione di reati connessi all’espletamento di tali attivita’, non e’ stato derogato dal Decreto Legge 1 luglio 2009, n. 78, articolo 17, comma 30 ter, convertito, con modificazioni, nella Legge 3 agosto 2009, n. 102, che ha individuato limiti all’azione del risarcimento del danno all’immagine in sede di giudizio contabile.
11. Ritiene il Collegio che, per quanto concerne il richiesto danno all’immagine, il motivo di ricorso dell’Agenzia delle entrate e’ infondato. Deve innanzitutto osservarsi che il principio affermato dalla decisione citata dall’Avvocatura e’ stato contraddetto e superato da un diverso principio piu’ recentemente enunciato, sulla base di ampia e logica interpretazione letterale e sistematica, da un sentenza di questa Sezione, massimata nel senso che “il danno subito dalla P.A. per effetto della lesione all’immagine e’ risarcibile solo qualora derivi dalla commissione di reati, anche comuni, posti in essere da soggetti appartenenti ad una pubblica amministrazione. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la risarcibilita’ del danno all’immagine arrecato da soggetti privi di qualifiche pubblicistiche all’Agenzia delle Entrate in conseguenza della commissione dei reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti e di emissione di fatture per operazioni inesistenti)” (Sez. 3, n. 5481 del 12/12/2013, dep. 04/02/2014, Refatti, Rv. 259132). Si rinvia qui per brevita’ alla estesa motivazione di questa sentenza, dove viene dettagliatamente rilevato come questa interpretazione si fondi proprio sulla norma introdotta dal Decreto Legge 1 luglio 2009, n. 78, articolo 17, comma 30 ter, convertito, con modificazioni, nella Legge 3 agosto 2009, n. 102, e sulla interpretazione adeguatrice che di essa ne ha dato la Corte costituzionale con la sentenza n. 355 del 2010, secondo la quale la norma dovrebbe essere “univocamente interpretata nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilita’ per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non e’ configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria”.
Rileva il Collegio che non e’ necessario in questa sede approfondire la questione della risarcibilita’ in astratto, in favore di un ente pubblico, del danno all’immagine causato da un reato comune commesso da un privato. Cio’ perche’, anche non aderendo alla piu’ recente interpretazione appena citata, nel caso in esame il giudice penale non avrebbe potuto comunque pronunciare sentenza, nemmeno generica, di condanna, in favore dell’Agenzia delle entrate, al risarcimento di un danno non patrimoniale, e di un danno all’immagine in particolare.
Correttamente, infatti, il giudice di primo grado ha ricordato che la giurisprudenza di questa Corte (v. in particolare, Sez. Un. civ., 11.11.2008, n. 26972) ha affermato che “il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di danno evento. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, e’ stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003. E del pari da respingere e’ la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perche’ la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”. Insomma, “anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato la sussistenza del danno non patrimoniale non puo’ mai essere ritenuta in re ipsa, ma va sempre debitamente allegata e provata da chi lo invoca, anche attraverso presunzioni semplici” (Sez. 3 civ., 12.4.2011, n. 8421, Rv. 617669), richiedendosi in ogni caso “che sussista da parte del richiedente la allegazione degli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entita’ del pregiudizio” (Sez. Un. civ., 16.2.2009, n. 3677, Rv. 608130).
Nel caso in esame, pertanto, il tribunale ha esattamente respinto la richiesta di condanna, anche generica, al risarcimento del danno non patrimoniale, ivi compreso il danno all’immagine, perche’ la parte civile non aveva, non solo offerto ma nemmeno allegato, alcun elemento di fatto da cui desumere la necessaria prova rigorosa dell’entita’ e dell’esistenza di un tale pregiudizio.
Ed invero, la presenza di una tale prova puntuale e rigorosa era tanto piu’ indispensabile trattandosi di reato tributario, dovendo considerarsi che la scoperta di una eventuale evasione fiscale normalmente accresce, e non diminuisce, il prestigio e la considerazione della amministrazione finanziaria. Si sarebbe pertanto dovuto adeguatamente e congruamente motivare, sulla base di concreti e specifici elementi di fatto, la ragione per la quale nel particolare caso di specie tale situazione avrebbe invece arrecato un danno all’immagine della amministrazione finanziaria.
12. Quanto al danno funzionale rappresentato dallo sviamento e turbamento dell’attivita’ di accertamento tributario (che l’Avvocatura ricorrente e la sentenza n. 35729/2013 fanno rientrare nell’ambito del danno patrimoniale, diversamente dal giudice di primo grado che lo ha qualificato come non patrimoniale) ed al danno patrimoniale piu’ propriamente e strettamente inteso, e’ opportuno ricordare preliminarmente alcune recenti sentenze di questa sezione (e, precisamente, Sez. 3 , 30.9.2013, n. 43801, P.; Sez. 3 , 7.5.2014, n. 37838, F.), che hanno puntualizzato sistematicamente i principi che reggono la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile in sede penale. In particolare e’ stato ricordato che, in via generale, la condanna generica al risarcimento del danno di cui all’articolo 539 c.p.p., comma 1, non esige, per sua natura, alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, essendo sufficiente, a tal fine, l’accertamento del fatto-reato (c.d. “danno evento”) potenzialmente produttivo di conseguenze dannose (Sez. 6 , n. 12199 del 11/03/2005, Molisso, Rv. 231044; Sez. 6 , n. 14377 del 26/02/2009, Giorgio, Rv. 243310; Sez. 5 , n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta, Rv. 257551). Va peraltro tenuto presente che una tale statuizione, ai sensi dell’articolo 651 c.p.p., non ha normalmente efficacia di giudicato in ordine alle conseguenze eco-nomiche del fatto illecito commesso dall’imputato (Sez. IV, n. 1045 del 16/12/1998, Selva, Rv. 212284). Il giudice civile, pertanto, non e’ vincolato dalla condanna generica emessa in sede penale e potra’ quindi rigettare la domanda se in quella sede il danneggiato non avra’ provato la concreta esistenza (e l’ammontare) del pregiudizio concreto.
Ben diversa e’ pero’ la situazione qualora il giudice penale, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, abbia anche affermato la concreta sussistenza del danno-conseguenza (l’an del danno risarcibile), demandandone al giudice civile la sola liquidazione (il quantum).
La giurisprudenza di questa Corte ha invero affermato che “la sentenza penale di condanna passata in giudicato, la quale fa stato, ai sensi dell’articolo 651 c.p.p., in ordine all’accertamento del fatto, alla sua rilevanza penale ed alla sua commissione, puo’ non essere sufficiente ai fini del riconoscimento dell’esistenza del diritto al risarcimento del danno quando il fatto, avente rilevanza penale, non si configuri come reato di danno; al contrario, nel caso in cui il giudicato penale di condanna riguardi un reato appartenente a tale categoria (nella specie una truffa a danno di un ente regionale), l’esistenza del danno e’ implicita e, conseguentemente, non puo’ formare oggetto di ulteriore accertamento, negativo o positivo, in sede civile, se non con riferimento al soggetto od ai soggetti che lo abbiano subito o alla misura di esso” (Sez. Un. civ., n. 4549 del 25/02/2010, Rv. 611796). Ed ha precisato che “in caso di condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, se il giudice penale non si sia limitato a statuire solo sulla potenzialita’ dannosa del fatto addebitato al soggetto condannato e sul nesso eziologico in astratto, ma abbia accertato e statuito sull’esistenza in concreto di detto danno e del relativo nesso causale con il comportamento del soggetto danneggiato, valgono sul punto i principi del giudicato” (Sez. 3 civ., n. 16113 del 09/07/2009, Rv. 608754), sicche’ non sono vincolanti, per il giudice civile, “le valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che attengono all’individuazione delle conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile” (Sez. 3 civ., n. 8360 del 08/04/2010, Rv. 612361; sez. 6 – 3 civ., n. 14648 del 04/07/2011, Rv. 618452).
Va inoltre ricordato che, secondo la giurisprudenza civile di questa Corte, il “danno-conseguenza” risarcibile (da non confondere con il “danno-evento”) non puo’ mai essere ritenuto in re ipsa, ma deve essere oggetto di prova, anche mediante il ricorso, se necessario, alle presunzioni (cfr., sul punto, Sez. Un. civ., n. 26972 del 11/11/2008, cit.).
13. Cio’ posto, va osservato che esattamente i giudici del merito hanno rigettato la domanda di condanna, anche generica, al risarcimento del danno patrimoniale, costituito dal c.d. danno funzionale rappresentato dallo sviamento e turbamento dell’attivita’ di accertamento tributario. E cio’ innanzitutto perche’ la parte civile Agenzia delle entrate non ha mai, non solo provato, ma nemmeno allegato, specifici elementi di fatto dai quali si potesse desumere la concreta esistenza e l’entita’ di un ulteriore pregiudizio patrimoniale per tale causa.
In secondo luogo, va in via generale rilevato che (come ricordato dalla giurisprudenza civile dianzi citata) la condanna al risarcimento del danno che venisse inflitta prescindendo da un effettivo accertamento dell’esistenza di un concreto danno patrimoniale, finirebbe per risolversi, in sostanza, in una sorta di pena privata, che nel nostro ordinamento sarebbe inammissibile senza uno specifico fondamento in una norma di legge (o di atto avente forza di legge).
E deve ritenersi che questo principio valga a maggior ragione in materia tributaria, nella quale, anche in conformita’ della riserva relativa di legge di cui all’articolo 23 Cost., il legislatore ha specificamente individuato e disciplinato forfettariamente quali sono le conseguenze patrimoniali dannose derivanti dal mancato tempestivo versamento dei tributi dovuti, attraverso la previsione di specifici interessi, sanzioni tributarie, sovrattasse e simili.
In questa forfettaria generale previsione delle conseguenze dannose dell’illecito tributario, deve ritenersi che il legislatore abbia ovviamente compreso anche l’eventuale sviamento e turbamento della attivita’ della amministrazione finanziaria, il costo del cui espletamento e’ posto in via generale a carico del bilancio statale, a prescindere dall’accertamento dei singoli illeciti tributari e penali.
Non si puo’ in astratto escludere che una particolare attivita’ illecita del contribuente determini, in casi eccezionali, un danno patrimoniale concreto e specifico, ulteriore rispetto a quello costituito dal costo della normale attivita’ istituzionale. Ma il riconoscimento di tale danno richiedera’ che l’amministrazione fornisca rigorosamente puntuali elementi di prova sulla sua concreta esistenza ed entita’ nel particolare caso in esame.
In ogni caso, appare manifestamente illogico commisurare tale tipo di danno all’entita’ dell’imposta evasa, dal momento che se tale danno vi sia, esso sara’ semmai correlato all’ulteriore concreto pregiudizio patrimoniale subito dalla amministrazione finanziaria per lo svolgimento di una specifica particolare attivita’, e non all’ammontare dell’imposta evasa.
Per analoghe ragioni, non appare comunque corretto liquidare anche interessi e rivalutazione monetaria sulla somma evasa, perche’ le norme tributarie prevedono specifici interessi e sanzioni pecuniarie (il cui ammontare, del resto, potrebbe anche essere superiore a quello della rivalutazione monetaria).
14. La ricorrente parte civile Agenzia delle entrate, infine, censura espressamente la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento del danno corrispondente all’imposta evasa, in applicazione del principio secondo cui “il danno subito dalla Pubblica Amministrazione non coincide con il tributo evaso (cfr. Cass. 22 aprile 1991 n.5554), se non nei casi in cui il fatto reato abbia comportato l’estinzione dell’obbligazione tributaria, quando soggetto attivo del reato e soggetto passivo del tributo non coincidono, quando il fatto reato abbia comportato un ritardo tale nell’accertamento dell’evasione da rendere impossibile il recupero del credito erariale”: ipotesi queste nessuna delle quali si e’ verificata nel caso in esame.
L’Avvocatura dello Stato ricorrente contesta il fondamento di questa statuizione, eccependo preliminarmente che il reato previsto dal Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3, e’ ormai configurato come reato di danno e non piu’ di mero pericolo, quale era la corrispondente fattispecie delittuosa di cui alla previdente Legge n. 516 del 1982, articolo 4, n. 7. In ogni caso, chiede che venga comunque applicato il diverso principio (affermato dalla gia’ citata sentenza Sez. Fer. 1/8/2013, n. 35729, Agrama e altri, Rv. 256583) secondo cui, in caso di reati tributari, il danno patrimoniale al cui risarcimento ha diritto l’Agenzia delle entrate “non coincide con la misura della imposta evasa, ma deve tener conto anche del danno funzionale rappresentato dallo sviamento e turbamento dell’attivita’ di accertamento tributario”, con cio’ dando per scontato, quindi, che l’ammontare dell’imposta evasa rappresenta sempre un danno patrimoniale al risarcimento del quale l’autore del reato deve essere in ogni caso condannato. In via subordinata, l’Avvocatura eccepisce che il precedente di cui alla sentenza Sez. 3 , n. 5554 del 22.4.1991, Luciani, citato dalla sentenza impugnata, aveva anche negato l’applicabilita’ del principio di non coincidenza del danno subito dall’Erario con il tributo evaso “quando soggetto attivo del reato e soggetto passivo del tributo non coincidono”, mentre nella fattispecie in esame e’ evidente la suddetta mancata coincidenza, perche’ il reato accertato si sostanzia in una condotta di cui e’ chiamato a rispondere l’imputato (OMISSIS), ossia un soggetto distinto da quello che ne traeva profitto sotto forma di indebita riduzione delle imposte dovute.
Ritiene il Collegio che il ricorso sul punto dell’Avvocatura possa essere accolto esclusivamente nei limiti che si diranno.
Innanzitutto, non e’ fondato l’assunto preliminarmente dedotto dalla parte civile, essendo gia’ stato chiarito dalla giurisprudenza che anche i nuovi reati fiscali si configurano come reati di pericolo o di mera condotta (Sez. Un., 28.10.2010, n. 1235 del 2011, Giordano, Rv. 248869), avendo il legislatore inteso rafforzare la tutela del bene giuridico protetto anticipandola al momento della commissione della condotta tipica. Non e’ quindi richiesto che il danno per le finanze pubbliche si verifichi, mentre il momento consumativo (l’indicazione nella dichiarazione dei redditi di elementi non corrispondenti al vero) corrisponde al momento della messa in pericolo del bene e non alla verificazione del danno. Non e’ quindi esatto sostenere che la realizzazione del reato comporta sempre ed automaticamente la sussistenza di un danno per l’amministrazione finanziaria, danno che pertanto, nel caso concreto, deve essere provato dalla parte civile.
Sul secondo motivo dedotto dall’Avvocatura il Collegio osserva che, in realta’, nessuna delle due tesi sostenute dalle decisioni richiamate puo’ essere seguita per intero. Va infatti tenuto sempre presente che si tratta di nient’altro che di una normale azione civile per il risarcimento del danno azionata dall’Agenzia delle entrate nell’ambito del processo penale nei confronti dell’autore del reato, il quale puo’ essere, come puo’ non essere, il soggetto che ha anche la qualifica di contribuente e che come tale e’ tenuto al pagamento dell’imposta. Questa circostanza appare pero’ in realta’ non decisiva perche’, se l’imputato e’ il contribuente, allora l’amministrazione ha gia’ un titolo e i mezzi per il recupero, anche coattivo, dell’imposta evasa; mentre se e’ un soggetto diverso allora possono farsi le seguenti considerazioni.
Trattandosi di una normale azione civile per il risarcimento del danno, secondo i principi generali cio’ che puo’ essere oggetto di risarcimento e’ esclusivamente il danno patrimoniale che l’Agenzia delle entrate ha subito, in concreto, in conseguenza della condotta illecita dell’autore del reato. Secondo i principi, dunque, l’azione civile di danno non potrebbe invece dar luogo ad una indebita locupletazione del danneggiato, o comunque ad un ingiustificato accrescimento o addirittura ad una duplicazione dell’imposta dovuta, cosi’ come non potrebbe portare – in mancanza di una specifica norma di legge – alla creazione di un nuovo soggetto passivo dell’obbligazione tributaria o al sorgere di una nuova obbligazione tributaria, e tanto meno potrebbe risolversi in sostanza in una pena privata non prevista da una norma di legge. Se cio’ e’ esatto, allora non puo’ innanzitutto condividersi e confermarsi la tesi seguita dalla invocata sentenza Sez. Fer. 1/8/2013, n. 35729, Agrama e altri, Rv. 256583, perche’ in via generale e normale il danno in concreto subito dalla amministrazione finanziaria non coincide affatto con la somma corrispondente all’imposta evasa, e cio’ per la ragione che, normalmente, la commissione del reato non comporta necessariamente il venir meno o l’inesigibilita’ del credito tributario nei confronti del contribuente debitore e quindi non provoca alcun danno alla amministrazione (che puo’ sempre agire con i mezzi coattivi previsti dalla normativa tributaria nei confronti del debitore), se non quelli derivanti dalle spese di riscossione e dal ritardo nell’adempimento, per i quali appunto le norme tributarie gia’ prevedono appositi importi a titolo di interessi e di sanzioni tributarie. In via ordinaria, pertanto, deve condividersi il diverso principio, affermato dalla corte d’appello e condiviso anche dal Procuratore generale nella sua requisitoria, secondo cui il danno derivante all’amministrazione finanziaria dal reato tributario non coincide, almeno normalmente, col tributo evaso. Il reato puo’ invece comportare un danno per l’amministrazione coincidente con il, o parametrato al, tributo evaso esclusivamente nell’ipotesi in cui, a causa della commissione del reato stesso, si sia verifi-cata la conseguenza (legata al reato da nesso eziologico) che l’amministrazione non abbia piu’ la possibilita’ di riscuotere, nemmeno coattivamente, le somme dovute (a titolo di tributo evaso, di interessi e di sanzioni tributarie) direttamente dal contribuente, come, ad esempio, quando il fatto reato abbia comportato l’estinzione della obbligazione tributaria, o abbia comportato un ritardo tale nell’accertamento dell’evasione da rendere impossibile il recupero del credito erariale, o in altri analoghi casi.
Pertanto, perche’ l’imputato, nel processo penale, possa essere condannato al risarcimento del danno consistente nel tributo evaso, anche mediante una condanna generica che pero’ affermi l’esistenza del danno-conseguenza (l’an) e sia quindi suscettibile di vincolare il giudice civile sul punto, e’ necessario che l’amministrazione costituitasi parte civile fornisca la concreta, puntuale e specifica prova che tale danno si sia effettivamente verificato, ossia che in conseguenza del reato l’amministrazione stessa non abbia piu’ la possibilita’ di recuperare, nemmeno coattivamente, il credito erariale dal contribuente.
Qualora nel giudizio penale l’amministrazione non abbia invece fornito questa specifica prova, il giudice penale potra’ sempre applicare il principio, dianzi ricordato, secondo cui, ai sensi dell’articolo 539 c.p.p., comma 1, la condanna generica al risarcimento del danno non esige una indagine sulla concreta esistenza di un danno risarcibile, essendo sufficiente, a tal fine, l’accertamento del fatto-reato (c.d. danno evento) potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, con la precisazione, pero’, che, ai sensi dell’articolo 651 c.p.p., tale statuizione non ha normalmente efficacia di giudicato in ordine alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall’imputato. Ed invero, la commissione di un reato tributario costituisce un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose per l’amministrazione finanziaria, essendo appunto possibile che in conseguenza del reato l’amministrazione stessa non sia piu’ in grado di recuperare, nemmeno coattivamente, il tributo. Il che e’ sufficiente per l’accertamento del danno-evento e del nesso di causalita’ in astratto e per l’emissione da parte del giudice penale – qualora vi sia una domanda in tal senso della parte civile – di una condanna generica al risarcimento del danno, condanna che pero’, ai sensi dell’articolo 651 c.p.p., non ha efficacia di giudicato nel processo civile, nel quale pertanto l’amministrazione, per ottenere la condanna dell’autore del reato al risarcimento di una somma corrispondente al tributo evaso, dovra’ appunto provare che in conseguenza del reato stesso, e’ venuta meno la possibilita’ di riscuotere il tributo dal contribuente.
Nel caso in esame, la parte civile ricorrente Agenzia delle entrate non ha fornito alcuna prova, ed anzi nemmeno ha allegato, che il reato avesse reso impossibile recuperare direttamente dal contribuente il tributo evaso. Non sussistevano quindi le condizioni per l’emissione di una sentenza di condanna specifica dell’imputato al risarcimento di una somma corrispondente al tributo dovuto dal contribuente (come aveva chiesto l’Avvocatura ricorrente) e nemmeno di una sentenza di condanna generica che pero’ affermasse la sussistenza del danno-conseguenza (l’an) demandando al giudice civile la liquidazione del quantum.
Poiche’ pero’ era in astratto possibile che l’amministrazione in sede civile fornisse la prova che si era verificata, come conseguenza del reato, l’impossibilita’ di recuperare il tributo dal contribuente e che quindi aveva subito un concreto danno patrimoniale a causa del reato, il giudice penale, accertata la potenzialita’ dannosa del reato e la presenza in astratto del nesso eziologico, avrebbe potuto – se richiesto – emettere una sentenza di condanna generica che si limitasse ad accertare il danno-evento, come tale non vincolante per il giudice civile.
15. In conclusione, in accoglimento dei ricorsi dell’imputato e della parte civile, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte d’appello di Trento, che si uniformera’ ai principi di diritto dianzi enunciati.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione in accoglimento dei ricorsi dell’imputato e della parte civile, annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Trento.

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