Cassazione 15

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 18 gennaio 2016, n. 1623

Ritenuto in fatto

1. M.L. ricorre per cassazione impugnando la sentenza emessa in data 15 luglio 2014 dalla Corte di appello di Brescia che ha confermato quella resa, a seguito di giudizio abbreviato, dal tribunale di Bergamo e con la quale il ricorrente è stato condannato alla pena condizionalmente sospesa di mesi 4 di reclusione per il reato previsto dall’articolo 10 ter decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 perché, in qualità di legale rappresentante della società “Pentagono immobiliare S.p.A.”, ometteva di versare – nei termini previsti per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo – l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale relativa all’anno 2009, per un ammontare superiore alla soglia di Euro 50.000 e complessivamente pari a Euro 687.505,07. In (omissis) .
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza il ricorrente, tramite il difensore, affida il ricorso ai due seguenti motivi di gravame.
2.1. Con il primo motivo deduce la violazione della legge penale in relazione agli articoli 43, 47,54 e 59 codice penale nonché dell’articolo 10 ter decreto legislativo n. 74 del 2000 (articolo 606, comma 1, lettera b), codice di procedura penale) sul rilievo che la sua condotta, in quanto priva di dolo e/o dovuta allo -.. stato di necessità causato dall’impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria, doveva ritenersi non punibile.
Sostiene di essersi trovato in uno stato di difficoltà economica dovuto soprattutto alla crisi del settore iniziata nell’anno 2008, con il suo massimo picco proprio nell’anno 2010, situazione che lo ha “costretto” a sottoscrivere nella metà del mese di luglio 2010 un accordo finanziario in attuazione di un piano di risanamento predisposto ai sensi dell’articolo 67 della legge fallimentare. Peraltro, lo stato di insolvenza, dipeso da moltissimi fattori, si è aggravato quando gli istituti di credito, nonostante la sottoscrizione dell’accordo finanziario, in attuazione del piano di risanamento predisposto ai sensi dell’articolo 67 della legge fallimentare e nonostante il fatto che si fosse pattuito il termine dell’erogazione dei finanziamenti entro la fine del mese di luglio 2010, non hanno rispettato detto termine, aggravando così inevitabilmente la situazione debitoria e finanziaria della società.
Inoltre assume che non poteva disporre in autonomia delle somme poi tardivamente erogate, essendosi deciso di privilegiare, al fine di dare continuità alla società, il pagamento dei dipendenti, onde evitare licenziamenti, e poi, in successione, i debitori onde evitare il fallimento della società. In tal modo il ricorrente avrebbe subito le conseguenze, oltre a quella relativa allo stato di insolvenza, derivanti dalle scelte di privilegio nei pagamenti che sono stati indipendenti dalla sua reale concreta volontà di non versare all’erario l’Iva.
Inoltre egli si sarebbe trovato nell’impossibilità di provvedere per fatto di terzo, cioè del professionista a cui si era rivolto per tentare di risollevare le sorti della società, ed infine non aveva la coscienza e la volontà di evader l’imposta essendo i pagamenti impossibili a casa del mancato accantonamento delle somme relative al periodo di risanamento.
2.2.Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione alla mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna, sul rilievo che il beneficio rivendicato è stato negato in quanto l’imputato risultava gravato da una precedente condanna per il delitto, sia pure risalente nel tempo, ritenuta erroneamente ostativa alla concessione del beneficio.
In sostanza il ricorrente si duole del fatto che la corte d’appello abbia formulato un giudizio prognostico basandolo sulla commissione di un precedente reato commesso nel lontano 1981.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato sulla base del secondo motivo, mentre il primo motivo è infondato.
2. Quanto infatti alla prima doglianza, la Corte territoriale ha correttamente affermato come fosse del tutto ininfluente, ai fini dell’integrazione della fattispecie incriminatrice, la giustificazione fornita dal ricorrente in ordine all’omesso versamento dell’Iva in considerazione della mancanza di liquidità della società conseguente all’accordo di risanamento predisposto da un professionista ai sensi dell’articolo 67, comma 3, lettera d), della legge fallimentare (istituto introdotto dal decreto-legge 14 marzo 2005, n.35, convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80, cosiddetto decreto competitivita), trattandosi di un accordo di natura privatistica che non poteva comunque coinvolgere il pagamento dei tributi, con la conseguenza che il ricorrente era comunque tenuto a versare l’imposta per il 2009 entro il 27 dicembre 2010.
Peraltro, questa Corte, in materia di omesso versamento di imposte, ha affermato il principio secondo cui, la colpevolezza del soggetto tenuto ad assolvere l’obbligazione tributaria non è esclusa dalla crisi di liquidità intervenuta al momento della scadenza del termine utile per il versamento, a meno che l’imputato non dimostri che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che le stesse, inoltre, non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale (Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, dep. 2014, Mercutello, Rv. 258055).
Né può essere ascrivibile a forza maggiore la mancanza della provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria per effetto di una scelta di politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità, come quella di privilegiare taluni pagamenti al posto di altri o, come nella specie, di ricorrere ad un piano di risanamento dell’impresa, di cui all’articolo 67, comma 3, lettera d), della legge fallimentare, perché l’istituto non rientra in un procedimento giudiziale o soggetto ad omologa da parte del giudice, come invece avviene per il concordato preventivo, ma si risolve in un atto stragiudiziale non soggetto al controllo del giudice né nella fase di preparazione, né nella fase di esecuzione, consistendo in un atto unilaterale dell’imprenditore e quindi risolvendosi in una operazione strettamente ed interamente privatistica, indirettamente riconosciuta come meritevole di tutela da parte dell’ordinamento mediante l’esenzione del patrimonio all’assoggettamento dell’azione revocatoria, sempre che si verifichino le condizioni e sussistano i requisiti previsti dalla legge, ossia che il piano di risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa sia idoneo ad assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria e la cui ragionevolezza deve essere attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili e che abbia i requisiti previsti dalla legge.
Né è risultato che il ricorrente abbia informato il professionista, che ha asseverato il piano di risanamento, che l’accordo finanziario con il quale la Pentagono immobiliare S.p.A. ha ridefinito i rapporti con i creditori avrebbe dovuto garantire un’adeguata liquidità per far fronte alle somme dovute a titolo d’imposta in base alla dichiarazione annuale dell’anno 2009. È risultato invece che il piano di risanamento fu predisposto dalla Pentagono immobiliare S.p.A. con l’assistenza del proprio “Advisor” finanziario, fu approvato dagli organi sociali e, poi, fu sottoposto al parere del dottor B. , con la conseguenza che l’imputato non può ritenersi scriminato per un fatto del terzo assumendo che il mancato versamento delle somme all’erario rientrasse in una decisione prese da altri a sua insaputa (nella specie dal professionista asseveratore del piano) essendo risultato il ricorrente il principale artefice del piano stesso, redatto con l’assistenza dello studio a cui egli si era rivolto e non del professionista che lo aveva asseverato. L’approvazione al piano era stato approvato dagli organi sociali e ciò esclude che possa trasferirsi in capo ai professionisti la responsabilità della mancata previsione dell’accantonamento delle somme necessarie a versare l’Iva o la mancata previsione della destinazione delle somme provenienti dagli istituti di credito a tale fine.
Rispetto a tale punto della sentenza impugnata il ricorrente non ha peraltro preso una specifica posizione con il motivo di ricorso.
Ne consegue che, in tema di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263128). Nel caso di specie, il ricorrente, come accertato dalla Corte di merito con logica ed adeguata motivazione, ha evitato consapevolmente di adempiere l’obbligazione tributaria, avendo persino ammesso di aver incassato l’Iva, di non averla accantonata, di aver quindi distratto le relative somme, omettendo conseguentemente il versamento finale per fatti allo stesso direttamente imputabili.
3. È invece fondato il secondo motivo di impugnazione.
La Corte d’appello ha motivato la mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna affermando che l’imputato risultava gravato da una precedente condanna per delitto la quale, sia pure risalente nel tempo, era ostativa alla concessione dell’invocato beneficio, ritenuto concedibile solo con per la prima condanna inflitta all’imputato.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte territoriale non ha tuttavia considerato due aspetti che assumono un rilievo fondamentale per la soluzione della questione.
Sotto un primo profilo, nel caso di specie peraltro assorbente, la Corte costituzionale è intervenuta sul primo comma dell’art. 175 cod. pen. consentendo la reiterazione del beneficio, in relazione a condanne per reati anteriormente commessi (Corte cost. sentenza 5 giugno 1984, n. 155), essendo stato dichiarato costituzionalmente illegittimo – in quanto riproduttivo di una disposizione già dichiarata incostituzionale – l’art. 175, comma 1, cod. pen., nel testo introdotto dall’art. 104, L. 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui esclude che possano concedersi ulteriori non menzioni di condanna nel certificato del casellario giudiziario spedito a richiesta dei privati, nel caso di condanne, per reati anteriormente commessi, a pene che, cumulate con quelle già irrogate, non superino i limiti di applicabilità del beneficio.
Nondimeno, anche quando siffatti limiti siano stati superati, rileva, sotto altro e concorrente profilo, l’intervenuta riabilitazione che, nel caso in esame, era stata peraltro concessa, come risulta per tabulas dal certificato penale.
La possibilità di ottenere il beneficio di cui all’art. 175 cod. pen. nel caso di intervenuta riabilitazione di una precedente condanna è stata, in passato, controversa nella giurisprudenza della Corte di cassazione (anteriormente all’intervento della Corte Cost., v. Sez. 4, n. 1164 del 11/05/1965, Tomassini, Rv. 099741 nonché Sez. 6, n. 8000 del 01/06/1983, Saladino, Rv. 160469).
Il Collegio condivide l’orientamento secondo il quale la riabilitazione, oltre alle pene accessorie, estingue ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti, e poiché l’art.175, primo comma, cod. pen., non introduce alcuna deroga al riguardo, ne deriva che la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale può essere concessa a chi abbia riportato una precedente condanna per la quale sia intervenuta pronuncia di riabilitazione (Sez. 1, n. 7552 del 19/04/2000, Meneghetti, Rv. 216428).
Ciò in quanto il carattere premiale del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale persegue, non diversamente dalla riabilitazione, finalità specialpreventive e, in particolare, risocializzative, risultando perciò logico concederla a chi, essendo stato riabilitato, si venga a trovare, dal punto di vista giuridico, nella stessa situazione di chi non abbia mai riportato condanna, in modo da escludere una forma di pubblicità che potrebbe nuocergli ai fini del reinserimento sociale potendo l’iscrizione pregiudicare le possibilità di accesso lavorative nel settore privato.
Ne consegue che, a seguito della sentenza 5 giugno 1984, n. 155 della Corte costituzionale, è consentita la reiterazione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario spedito a richiesta dei privati, nel caso di condanne, per reati anteriormente commessi, a pene che, cumulate con quelle già irrogate, non superino i limiti di applicabilità del beneficio, la cui concessione non è comunque preclusa se, superati detti limiti, sia intervenuta la riabilitazione in ordine alla precedente condanna e la successiva ne consenta l’applicabilità.
Rimossa perciò dalla Corte costituzionale, per quanto qui direttamente interessa, la preclusione (precedente condanna) che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto ostativa alla concessione del beneficio, la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Brescia in quanto, proprio perché il beneficio della non menzione della condanna è fondato sul principio dell’emenda e tende a favorire il processo di recupero morale e sociale, la sua concessione è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, che ha l’obbligo di indicare le ragioni della mancata concessione sulla base degli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011, Allegra, Rv. 251509), con la conseguenza che ogni valutazione in ordine alla concessione del beneficio, richiedendo l’uso di poteri discrezionali, non è consentita nel giudizio di legittimità.
Il ricorso va rigettato nel resto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Brescia limitatamente all’applicabilità della non menzione della condanna.
Rigetta nel resto.

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