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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 13 luglio 2015, n. 29877

Ritenuto in fatto

1. S.A. e S.S. ricorrono per cassazione impugnando la sentenza emessa in data 29 ottobre 2013 dalla Corte di appello di Catania che ha parzialmente riformato la sentenza del tribunale della medesima città concedendo alle ricorrenti il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario e confermando nel resto l’impugnata decisione.
Alle ricorrenti erano contestati i reati previsti dall’articolo 44 lettera c) d.p.r. 6 giugno 2001, numero 380 per avere, in concorso tra loro, realizzato senza la prescritta concessione edilizia una sopraelevazione realizzata sul terrazzo preesistente delle dimensioni di metri quadrati 20 circa su due piani per un’altezza media di metri 2,10 realizzando la copertura con pannelli termo coibentati a falda unica con accesso tramite due scale in cemento armato e ferro.
Unitamente al reato urbanistico venivano contestate le violazioni satelliti (articoli 61, 64 e 65 nonché articoli 93 e 94 d.p.r. 380 del 2001) nonché la violazione dell’articolo 734 codice penale per avere, in concorso tra loro, mediante la realizzazione delle suddette opere alterato le bellezze naturali di un luogo sottoposto a speciale protezione dell’autorità e il reato previsto dagli articoli 146-163, decreto legislativo numero 490 del 1999 per avere, in concorso tra loro, realizzato dette opere su beni ambientali senza la prescritta autorizzazione. In Catania in epoca precedente prossima al 23 giugno 2004.
Il tribunale aveva affermato la penale responsabilità con riferimento al reato urbanistico, a quello paesaggistico, alla violazione delle norme antisismiche e alla alterazione delle bellezze naturali (capi a, b, c, g, ed h) assolvendo le imputate perché il fatto non sussiste in relazione ai reati di cui ai capi d), e) ed f) con riferimento alle collegate contestazioni di aver realizzato opere in cemento armato.
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza le ricorrenti sollevano tre motivi di gravame, qui enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione (art. 173 disp. att. cod. proc. pen.) deducendo:
1) la violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c), codice di procedura penale in relazione all’articolo 486 stesso codice sul rilievo che, per l’udienza del 29 ottobre 2013, l’avvocato di fiducia depositava istanza con la quale comunicava che il cancelliere dell’ufficio gip lo informava che, essendo stato nominato difensore di fiducia di altro imputato, il gip avrebbe proceduto quello stesso giorno (alle ore 11,30) ad interrogare suo assistito presso la casa circondariale di Messina perché raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e rapina. La Corte di appello di Catania, erroneamente ritenendo che le imputate fossero difese anche da altro difensore e che questi non aveva dedotto alcun impedimento, rigettava l’istanza, incorrendo nella denunciata nullità;
2) violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera b), codice di procedura penale in relazione all’articolo 157 del codice penale sul rilievo che i fatti sono stati accertati in epoca precedente prossima al giugno 2004 (data che coincide infatti con il sequestro dell’opera).
Essendo trascorsi quasi dieci anni, il termine massimo stabilito dalla legge era già maturato, pertanto la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare non doversi procedere per prescrizione;
3) violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera b), codice di procedura penale in relazione all’articolo 734 codice penale.
Sostengono come sia del tutto evidente che la violazione del vincolo storico – paesaggistico, con il relativo conseguente danno ambientale, risponde a presupposti e condizioni differenti rispetto alla pura e semplice mancanza di un provvedimento di nulla osta a costruire e ciò perché la lesione dell’interesse protetto dall’articolo 734 codice penale è indipendente dal fatto che si sia intervenuti con lavori assoggettati o meno all’esistenza di atti concessori. Ed infatti, non ogni intervento non autorizzato sarebbe sufficiente ad integrare il reato contestato con la conseguenza che, al fine dell’integrazione del reato de quo, non sarebbe sufficiente una qualsiasi alterazione naturalistica o addirittura un deturpamento del sito in questione ma è necessario che quella specifica alterazione incida sulla bellezza naturale cosicché si realizzi quantomeno una lesione o anche un semplice turbamento del godimento estetico dei visitatori o degli utenti del luogo. Sul punto, la Corte di merito avrebbe anche omesso di motivare incorrendo pertanto nel relativo vizio.
3. La parte civile ha fatto pervenire una breve comparsa conclusionale contenente la richiesta di rigetto del gravame senza alcuna considerazione di merito al riguardo e di condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali sostenute nel grado.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza e perché presentato nei casi non consentiti.
2. Quanto al primo motivo, va ricordato che il concomitante impegno professionale del difensore non costituisce automaticamente un legittimo impedimento.
È risalente la tesi secondo cui la concomitanza di altri impegni professionali non costituisce un impedimento assoluto, comportando solo delle scelte da parte del difensore, che può attuarle anche avvalendosi della facoltà di designare un sostituto (Sez. 1, n. 4088 del 07/02/1994, Papotto, Rv. 197401; Sez. 5, n. 5164 del 12/03/1992, Marchese, Rv. 190074; Sez. 2, n. 9385 del 15/05/1991, Vindice, Rv. 188187).
Siffatto orientamento, attenuato per effetto di alcuni interventi in materia da parte della Corte costituzionale, è stato ridefinito dalle Sezioni unite Fogliani e, con gli affinamenti successivi, sono stati fissati i principi e i criteri selettivi per evitare i possibili “espedienti dilatori” derivando da ciò che l’impegno professionale del difensore in altro procedimento può essere assunto quale legittimo impedimento che da luogo ad assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 486 e.p.p., comma 5, (ora art. 420 ter e.p.p., comma 5) purché il difensore prospetti l’impedimento e chieda il rinvio non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni e non si limiti a comunicare e documentare l’esistenza di un contemporaneo impegno professionale in altro processo, ma esponga le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua funzione in esso per la particolare natura dell’attività a cui deve presenziare, l’assenza in detto procedimento di altro codifensore che possa validamente difendere l’imputato, l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p., sia nel processo a cui si intende partecipare sia in quello di cui si chiede il rinvio.
Il giudice di quest’ultimo processo deve valutare accuratamente, bilanciando le esigenze di difesa dell’imputato da un lato e quelle di affermazione del diritto e della giustizia dall’altro, le documentate deduzioni difensive, anche alla luce delle eventuali necessità di un rapido esaurimento della procedura trattata, per accertare che l’impedimento non sia funzionale a manovre dilatorie o non possa nuocere all’attuazione della giustizia nel caso in esame. Il provvedimento di accoglimento o di reiezione dell’istanza deve essere conseguentemente motivato secondo criteri di logicità (Sez. U, n. 4708 del 27/03/1992, Fogliani, Rv. 190828).
Su queste basi, è stato condivisibilmente affermato che il legittimo impedimento del difensore, per integrare una causa necessaria di rinvio dell’udienza, deve implicare un’assoluta impossibilità a comparire, cosicché, quando l’impedimento allegato consista in un impegno professionale concomitante non solo presso la stessa sede giudiziaria ma anche presso una sede giudiziaria diversa, ma non lontana da quella in considerazione, alla verifica della possibile designazione di un sostituto processuale deve aggiungersi quella di una possibile variazione d’orario dell’udienza, utile a consentire la partecipazione dell’interessato ad entrambi gli adempimenti cui è chiamato (Sez. 5^ n. 35469 del 04/06/2003, Daccò, Rv. 228325). Le ragioni che sottendono a tali rigorosi oneri, che fanno capo al difensore affinché comprovi l’assoluto impedimento a comparire per concorrente impegno professionale, sono state ribadite delle Sezioni unite De Marino che hanno chiarito come spetti al giudice effettuare una valutazione comparativa dei diversi impegni al fine di contemperare le esigenze della difesa e quelle della giurisdizione, accertando se sia effettivamente prevalente l’impegno privilegiato dal difensore per le ragioni rappresentate nell’istanza e da riferire alla particolare natura dell’attività cui occorre presenziare, alla mancanza o assenza di un codifensore nonché all’impossibilità di avvalersi di un sostituto a norma dell’art. 102 c.p.p., (Sez. U, n. 29529 del 25/06/2009, P.G. in proc. De Marino, Rv. 244109) tanto sul presupposto che la rilevanza dell’impegno difensivo, per assumere l’efficacia impeditiva postulata dalla norma, deve assumere i connotati, non soltanto della assolutezza, ma anche della obiettività, nel senso che la priorità della esigenza difensiva nel procedimento “pregiudicante” deve trarre alimento, non dalla soggettiva opinio del difensore, ma fondarsi su specifiche circostanze di fatto che consentano di far reputare, per così dire, erga omnes, temporalmente “cedevole” l’assistenza difensiva nel procedimento “pregiudicato”; sempreché non sussistano, ovviamente, contrarie ragioni di urgenza, che il giudice deve valutare con ponderata delibazione, nel necessario bilanciamento fra le contrapposte esigenze (v. Sez. 3, n. 37171 del 07/05/2014, Di Mauro, nonché Sez. U, n. 4909 del 18/12/2014, dep. 02/02/2015. Torchio, Rv. 262913).
Ne consegue che, a prescindere da ogni altra considerazione del tutto recessiva in proposito, non sussisteva alcun assoluto legittimo impedimento del difensore e la Corte territoriale non aveva quindi alcun obbligo di rinviare il processo posto che, attraverso normali accorgimenti organizzativi, il difensore avrebbe potuto agevolmente attendere ad entrambi gli impegni tenuto conto dell’ora in cui era stato fissato l’interrogatorio di garanzia e la distanza delle rispettive sedi giudiziarie.
3. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato, oltre che formulato in violazione del principio dell’autosufficienza del ricorso, perché le ricorrenti non hanno tenuto conto dell’intervento dei numerosi eventi sospensivi della prescrizione, che sarebbe perciò maturata in data 1 aprile 2014 ossia in epoca successiva all’emanazione della sentenza di appello.
In siffatti casi, siccome con la declaratoria d’inammissibilità del ricorso impedisce la costituzione un valido rapporto giuridico processuale nella fase dell’impugnazione, il tempo trascorso tra la data di emanazione della sentenza impugnata e quella che dichiara l’inammissibilità del ricorso, è tamquam non esset ai fini del computi del tempo necessario a prescrivere perché preclude la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., essendosi già formato il giudicato stante, appunto, l’inidoneità dell’atto di gravame a determinare la regolare costituzione del rapporto processuale (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266).
4. Manifestamente infondato è anche il terzo motivo di gravame, atteso che la Corte territoriale, con adeguata motivazione, priva di vizi logici, ha accertato che le opere hanno certamente arrecato una lesione effettiva al vincolo essendo l’immobile, sul quale era stata eseguita la sopraelevazione, ubicato nel centro storico di Catania soggetto a speciale protezione.
Sul punto, infine, il motivo di ricorso deve ritenersi anche aspecifico non avendo le ricorrenti preso alcuna posizione per contrastare criticamente le ragioni della decisione impugnata.
5. Alcuna liquidazione è dovuta alla parte civile, posto che la stessa non è comparsa.
L’assenza della parte civile nel giudizio di cassazione, pur non incidendo sulla sua costituzione, per il principio dell’immanenza della stessa, impedisce che l’imputato possa essere condannato a rimborsare le ulteriori spese di rappresentanza e difesa perché, essendo la parte civile rappresentata nel giudizio di cassazione dal difensore, il mancato intervento di questi, pur restando ferma la costituzione della parte civile, comporta che quest’ultima deve considerarsi assente ad ogni effetto di legge e pertanto l’imputato non può essere condannato alla refusione delle spese del grado, presupponendo siffatta declaratoria che la parte civile sia intervenuta nel giudizio di cassazione, situazione, nella specie, non verificatasi in quanto la presentazione di una “comparsa conclusionale” non vale a costituire regolarmente la parte civile nel giudizio di cassazione.
6. Sulla base delle precedenti considerazioni i ricorsi vanno dichiarati inammissibili e, tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 136 della Corte costituzionale e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, alla relativa declaratoria, segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento spese processuali e della somma dl Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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