GIORNALI

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 11 settembre 2014, n. 19152

Motivi della decisione

  1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c..

Assume violati gli artt. 51, 185, 187 e 595 c.p.; gli artt. 2043, 2055 e 2059 c.c.; gli artt. 11 e 12 L. 8.2.1947 n. 48 (‘Disposizioni sulla stampa’).

Espone, al riguardo, come la Corte d’appello abbia ritenuto non violato dal quotidiano La Repubblica il dovere di verità, sul presupposto che esso si era limitato a riferire dell’avvenuta pubblicazione dell’articolo in contestazione sul quotidiano The Economist. Tale pubblicazione, pertanto, rappresentava il ‘fatto’, vero ed oggettivo, che il quotidiano italiano aveva diffuso. Tale inquadramento giuridico della fattispecie è contestato dal ricorrente, ad avviso del quale il giornalista ha sempre il dovere di verificare la fondatezza delle notizie che diffonde, anche quando si tratti di notizie riferite da terzi.

Se così non fosse, conclude il ricorrente, si perverrebbe all’assurdo di lasciare impunita la condotta di chi, senza alcuna verifica, diffonda uno scritto diffamatorio preparato da terzi.

1.2. Il motivo è infondato.

Il ricorso pone il tema dei presupposti e dei limiti della responsabilità del giornalista e dell’editore, nel caso di diffusione di notizie consistenti in fatti od opinioni riferiti da altri (cd. ‘responsabilità del diffusore mediatico’). Su questo tema, dopo vari contrasti negli passati, la giurisprudenza di legittimità si è da tempo consolidata stabilendo al riguardo tre regole fondamentali.

1.2.1. La prima regola è che il giornalista il quale riporti dichiarazioni altrui (come nel caso dell’intervistatore; ovvero dell’articolo che dia conto di deposizioni testimoniali o rese in ambito giudiziario; od ancora – come nel caso di specie – dell’articolo che riferisca di scritti altrui) non è esonerato né dal dovere di evitare la contumelia (Sez. 3, Sentenza n. 20137 del 18/10/2005, Rv. 585231), né da quello di verificare se, al momento in cui ne da contezza ai lettori, i fatti riferiti dal terzo e ripresi dal giornalista appaiano plausibilmente veri. Non è, in altri termini, esonerato dal dovere di rispettare la cd. verità putativa dei fatti. Tale dovere di verifica è tanto più doveroso, quanto maggiore è la gravità dei fatti riferiti (Sez. 3, Sentenza n. 6490 del 17/03/2010, Rv. 612224).

1.2.2. La seconda regola è un’eccezione alla prima: quando riferisce opinioni e dichiarazioni di terzi, il giornalista è esonerato sia dal dovere di verificare la verità putativa dei fatti riferiti, sia di evitare di riferire espressioni oltraggiose, quando sussista un interesse dell’opinione pubblica a conoscere, prima ancora dei fatti narrati, la circostanza che un terzo li abbia riferiti (Sez. 3, Sentenza n. 10686 del 24/04/2008, Rv. 602949). Quando, infatti, ricorre il suddetto interesse pubblico, questo deve prevalere, in quanto tutelato dall’art. 21 cost., sull’interesse del singolo all’integrità del proprio onore e della propria reputazione.

Questo interesse deve essere valutato caso per caso dal giudice di merito, tenendo conto della qualità dei soggetti coinvolti (il terzo che compie la dichiarazione e la persona diffamata), della materia in discussione e del contesto della notizia (Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001 – dep. 16/10/2001, imp. Gallerò, Rv. 219651).

Pertanto il giornalista che riferisca opinioni o dichiarazioni di terzi è esonerato da responsabilità per diffamazione, quando la dichiarazione del terzo costituisca di per se stessa un ‘fatto’ così rilevante nella vita pubblica che la stampa verrebbe meno al suo compito informativo se lo tacesse (così la fondamentale decisione pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 1205 del 19/01/2007, Rv. 595637).

1.2.3. La terza regola è una eccezione alla eccezione (che fa quindi risorgere il principio generale): quando il giornalista riporti dichiarazioni di terzi di rilevante interesse pubblico, egli è sempre tenuto a rendere ben chiaro al lettore che sta riferendo opinioni o dichiarazioni di terzi, e non verità oggettive. Chi riferisce opinioni altrui deve quindi astenersi dal ricorrere ad accostamenti suggestivi o capziosi, tali da indurre in errore il lettore e fargli percepire come veritieri i fatti dichiarati da terzi. In quest’ultima ipotesi, infatti, il giornalista dismetterebbe la veste di terzo osservatore dei fatti, per divenire un diffamatore dissimulato (Sez. 3, Sentenza n. 15112 del 17/06/2013, Rv. 626951; Sez. 3, Sentenza n. 16917 del 20/07/2010, Rv. 614230).

1.3. Tutte e tre queste regole sono state rispettate dalla Corte d’appello. Sono state rispettate le prime due, perché la pubblicazione dell’articolo da parte di The Economist per la fonte da cui proveniva, e per i contenuti che aveva, costituiva una notizia di indubbio interesse generale. Il giornalista che ha diffuso la notizia in Italia, pertanto, era esonerato dal verificare la verità oggettiva dei fatti narrati dal quotidiano britannico. È stata, altresì, rispettata la terza, perché il giudice di merito – con valutazione non sindacabile in questa sede – ha ritenuto rispettato dal giornalista italiano il dovere di terzietà e non decettività, consistente nel non presentare le opinioni altrui come fatti oggettivi.

  1. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c..

Anche in questo caso le norme violate sono ravvisate negli artt. artt. 51, 185, 187 e 595 c.p.; gli artt. 2043, 2055 e 2059 c.c.; gli artt. 11 e 12 L. 8.2.1947 n. 48 (“Disposizioni sulla stampa’).

Espone, al riguardo, la tesi secondo cui il giornalista che riferisce dichiarazioni altrui, anche ad ammettere che sia esonerato dal dovere di verificare la verità putativa dei fatti riferiti, ha comunque il dovere di astenersi sia dal trascrivere integralmente scritti offensivi, sia dal riferire la notizia in forma ‘maliziosa, insinuante ed offensiva’.

2.2. Il motivo è in parte inammissibile, ed in parte infondato.

2.2.1. Nella parte in cui sostiene che il giornalista non deve riferire all’opinione pubblica opinioni altrui, quando queste abbiano contenuto diffamatorio, il motivo è infondato.

Per quanto appena detto, infatti, la regola affermata da questa Corte è esattamente opposta a quella invocata dal ricorrente: quando sussista un interesse pubblico alla notizia (intendendosi per ‘notizia’ il fatto della dichiarazione del terzo), il giornalista ha diritto di riferirla, ‘e ciò indipendentemente dalla veridicità dei fatti narrati o dalla intrinseca offensività delle espressioni usate’ (sono parole di Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001 – dep. 16/10/2001, imp. Gallerò, Rv. 219651).

2.2.2. Nella parte, invece, in cui il motivo di ricorso prospetta una violazione, da parte del quotidiano La Repubblica, del requisito della continenza, esso è inammissibile: in questa parte, infatti, sotto le vesti della censura in iure il ricorrente intende inammissibilmente sottoporre a riesame un tipico accertamento di fatto, ovvero la valutazione della forma civile e della continenza verbale d’uno scritto giornalistico.

  1. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c.).

Espone, al riguardo, che la Corte d’appello non avrebbe indicato le ragioni in base alle quali ha ritenuto che il limite della continenza formale, nel caso di specie, fosse stato rispettato.

3.2. Il motivo è infondato.

La Corte d’appello, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, si è fatta carico di indicare le ragioni per le quali ha ritenuto non superato, da parte del quotidiano La Repubblica, il limite della continenza verbale (così la sentenza impugnata, pag. 5, terzo capoverso).

La motivazione, dunque, esiste: né ovviamente è consentito a questa Corte sindacarla nel merito.

  1. Le spese.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c..

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

-) rigetta il ricorso;

-) condanna B.S. alla rifusione in favore di Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a. delle spese dei presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 10.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A. ed accessori di legge.

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