Cassazione 10

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III

SENTENZA 1 luglio 2015, n. 27554

Ritenuto in fatto

La Corte di Appello di Milano, con sentenza di 10/12/2013, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Milano, resa in data 5/12/2012, con la quale G.M. era stato condannato per varie ipotesi di violenza sessuale e concussione a lui ascritte ai capi da 1) a 33), assolveva l’imputato appellante dai reati di cui ai capi 5), 21), 25), 33) e dai reati di concussione consumata contestati al capo 23) ‘perché il fatto non sussiste’, eliminando la pena per essi inflitta a titolo di continuazione; rideterminava inoltre la pena per le residue imputazioni, esclusa l’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 cod.pen., nonché quella ex art. 61 n. 5 cod.pen., in anni 16 e mesi 1 di reclusione, confermando nel resto l’impugnata sentenza.

La Corte territoriale richiamava, innanzitutto la sentenza di primo grado, che aveva ricostruito la vicenda, la cui genesi era riferibile alla denuncia presentata alla Polfer di Milano da una ragazza polacca, S.M. . Costei riferiva che era stata arrestata dai Carabinieri di Parabiago per furto, venendo trattenuta in caserma dal 15 al 16 gennaio, prima di essere giudicata per direttissima dal Tribunale di Milano; una volta liberata all’esito del giudizio, aveva presentato denuncia contro G.M. , M.llo comandante f.f. della stazione, per abusi sessuali perpetrati in suo danno.

Il P.M., cui era stata comunicata la notizia di reato, aveva svolto le indagini, ritenendo la sussistenza della gravità del quadro indiziario ed adottando la strategia investigativa di pubblicizzare attraverso i mezzi di informazione la notizia, acquisiva le denunce di altre donne.

Il Tribunale era pervenuto all’affermazione di responsabilità dell’imputato per tutti i reati ascritti, ritenendo pienamente attendibili le dichiarazioni delle parti offese ed escludendo qualsiasi fenomeno di contaminazione o di condizionamento reciproco.

Peraltro, la prova degli abusi, secondo il Tribunale, era ulteriormente confermata dalle intercettazioni e dalle altre dichiarazioni testimoniali.

Dava quindi atto la Corte territoriale dei motivi di appello proposti dall’imputato.

Tanto premesso ritenevano i Giudici di Appello, innanzitutto, infondate le questioni in rito sollevate alla difesa.

Quanto al merito, il primo giudice aveva adeguatamente e correttamente argomentato in ordine alla prova della responsabilità dell’imputato ed esaminato i rilievi difensivi che erano stati riproposti in sede di appello, per cui poteva rinviarsi alla motivazione della sentenza del Tribunale, in particolare in ordine alla piena attendibilità delle parti offese ed alla infondatezza della tesi difensiva di un calunnioso mendacio.

Andava, comunque, ulteriormente evidenziato che le censure difensive in ordine alla contraddittorietà ed inverosimiglianza delle loro dichiarazioni riguardavano aspetti marginali.

L’imputato, però, andava mandato assolto da alcune delle imputazione e le circostanze aggravanti di cui agli artt. 61 n. 9 e 61 n. 5 (contestata al capo 3) dovevano essere escluse.

Infine, non poteva essere riconosciuta l’ipotesi di cui all’art. 609 bis ultimo comma cod. pen., dal momento che, per le modalità e circostanze dei fatti, non ci si trovava in presenza di una compressione non grave della libertà sessuale. Né potevano essere riconosciute le circostanze attenuanti generiche, per la gravità dei fatti, il ruolo rivestito e l’assenza di qualsiasi segno di resipiscenza.

Ricorre per cassazione il G. , a mezzo del difensore, denunciando, dopo una premessa in fatto, la mancanza ed illogicità della motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità, nonché la violazione dell’art. 194 cod.proc.pen..

La Corte territoriale ha dato largo spazio alla sentenza di primo grado, ai motivi di appello ed al rigetto delle eccezioni riguardanti la legittimità del giudizio immediato. Sintetica è invece la motivazione con riferimento alle singole imputazioni (due pagine e mezza per 33 reati), in ordine alle quali la difesa aveva sollevato numerose doglianze.

Non c’è dubbio che il Giudice di appello possa rinviare per relationem alla sentenza di primo grado, purché però, con i motivi di appello, non siano state dedotte censure specifiche avverso la sentenza impugnata.

La Corte territoriale si è limitata ad escludere, apoditticamente, l’esistenza di un complotto ai danni dell’imputato, senza preoccuparsi di argomentare in ordine ai rilievi svolti in proposito dall’appellante.

Altrettanto apodittica è la motivazione sull’attendibilità delle dichiarazioni delle parti offese, non tenendosi conto delle numerose contraddizioni ed incongruenze (liquidate come attinenti ad ‘aspetti marginali’).

Secondo la Corte, anzi, gli aspetti di criticità segnalati dalla difesa erano piuttosto dimostrativi dell’assenza di accuse programmate o confezionate a tavolino.

Il solo punto su cui la Corte si sofferma riguarda la questione della limitata estensione dell’ambiente (circa 90 metri), con la presenza di 12 militari per turno, ma ricorre, per confutare i rilievi difensivi, a circostanze ovvie (le stanze avevano le porte) o discutibili o in violazione dell’art. 194 ult. comma cod.proc.pen. (il modo di atteggiarsi del maresciallo con le donne).

Ai fini dell’autosufficienza del ricorso si richiamano, poi, per ogni singolo episodio, le censure proposte con i motivi di appello e su cui la Corte territoriale ha omesso di argomentare.

Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge con riferimento all’art. 317 (rectius 319 quater) cod. pen., nonché la contraddittorietà della motivazione in punto di sussistenza del delitto di concussione per induzione di cui ai capi 12), 16), 18), 20), 30) e 32).

Come evidenziato dalla difesa già in sede di appello, per la configurabilità del concorso dei reati di concussione sessuale con quello di violenza sessuale, è necessario che vi sia un quid pluris rispetto alla costrizione, con abuso di qualità o poteri pubblicistici, della vittima a subire atti sessuali.

La Corte territoriale, pur aderendo formalmente a tale impostazione, finisce poi, come emerge dalla motivazione in ordine al capo 23 (vi è stata condanna per il delitto tentato e assoluzione per quello consumato), per ritenere sussistente la concussione per induzione a prescindere da qualsiasi condotta induttiva.

Secondo la più recente giurisprudenza, per la configurabilità del reato di concussione, sessuale è necessario che il p.u. prospetti un male ingiusto patrimoniale o non patrimoniale.

In quasi tutte le imputazioni, invece, si contesta, in modo generico ed indeterminato, all’imputato di aver costretto le vittime a subire gli atti sessuali, abusando della sua qualità e dei suoi poteri. L’ipotesi concussiva viene cioè ritenuta intrinseca alla stessa qualifica di pubblico ufficiale.

La mera indicazione di circostanze, relative alla posizione di debolezza delle vittime, non può costituire la prova di un’attività di induzione; in special modo nei casi in cui l’atto sessuale sia intervenuto repentinamente.

Anche sul punto vengono richiamati, per ciascun capo di imputazione, i rilievi svolti nei motivi di appello.

Con il terzo motivo denuncia l’erronea applicazione dell’art. 314 cod. pen. con riferimento al reato di peculato di cui al capo 9), l’erroneo calcolo della pena, l’omessa motivazione sul punto.

Al G. è stato contestato il reato di peculato per aver utilizzato l’auto di servizio per recarsi sul luogo, dove la p.o., D. , esercitava la prostituzione, per avere rapporti sessuali con la predetta.

La Corte territoriale, pur accogliendo la tesi difensiva del peculato d’uso, non ne trae poi le conseguenze sul piano sanzionatorio non modificando l’aumento di pena apportato in primo grado per il reato così come inizialmente contestato, e dando così luogo ad una reformatio in peius.

Peraltro, essendo il peculato d’uso una figura autonoma di reato e richiedendo il dolo specifico (non provato), l’imputato doveva essere mandato assolto.

Con il quarto motivo denuncia l’erronea applicazione dell’art. 609 bis ult.comma cod.pen. e la mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza della circostanza attenuante della minore gravità, quanto ai capi 12), 16), 18), 20), 30 e 32).

La complessiva valutazione del fatto, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità, è stata omessa, non avendo la Corte territoriale tenuto conto, ancora una volta, delle specifiche doglianze riportate nei motivi di appello in relazione a ciascuna delle fattispecie contestate.

Con il quinto motivo denuncia la carenza assoluta di motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio.

La Corte territoriale, accogliendo i rilievi difensivi, ha ritenuto che la pena base determinata in ordine al reato più grave di cui al capo 1) fosse quella di anni 6 prevista dall’art. 609 ter (il Tribunale aveva fatto riferimento a quella prevista dall’art. 609 bis), ma poi vi ha compreso erroneamente anche la continuazione interna (partendo quindi da anni 7 di reclusione, su cui ha apportato spropositati aumenti per la continuazione con gli altri capi).

Per di più ha operato una reformatio in peius: il primo giudice aveva inflitto, a titolo di continuazione, mesi 3 di reclusione per ciascuna concussione e mesi 3 per il peculato; la pena quindi, tenuto conto delle intervenute assoluzioni, avrebbe dovuto, per i residui nove reati, essere pari a 27 mesi (cioè anni 2 e mesi 3), con ulteriore riduzione per la derubricazione del peculato; la Corte di Appello ha inflitto, invece, una pena pari ad anni 2 e mesi 8 di reclusione, con palese aggravamento rispetto alla sentenza di primo grado.

Con il sesto motivo, infine, denuncia la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine al rigetto della richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Considerato in diritto

Va premesso che, pacificamente, nell’ipotesi di conferma della sentenza di primo grado, le due motivazioni si integrino a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione. Allorché, quindi, le due sentenze concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (cfr. ex multis Cass. sez. 1 n. 8868 del 26.6.2000 – Sangiorgi, Rv.216906; cfr. anche Cass. sez. un. n. 6682 del 4.2.1992, Rv. 191229; Cass. sez. 2 n. 11220 del 13.1.1997, Ambrosino, Rv.209145; Cass. sez. 6 n. 23248 del 7.2.2003, Zanotti, Rv. 225671; Cass. sez. 6 n. 11878 del 20.1.2003, Vigevano, R. 224079; Cass. sez. 3 n. 44418 del 16.7.2013, Argentieri, Rv. 257595).

Ed è altrettanto pacifico (cfr. ex multis Cass. Sez. 6 n. 35346 del 12.6.2008, Bonarrigo, Rv. 241188) che se l’appellante ‘si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e risolte dal primo giudice oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relationem e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati. Quando, invece, le soluzioni adottate dal giudice di primo grado siano state specificamente censurate dall’appellante sussiste il vizio di motivazione, sindacabile ex art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p., se il giudice del gravame si limita a respingere tali censure e a richiamare la contestata motivazione in termini apodittici o meramente ripetitivi senza farsi carico di argomentare sulla fallacia e inadeguatezza o non consistenza del motivi di impugnazione’, (così anche Cass. Sez. 6 n. 49754 del 21.11.2012, Casulli, Rv. 254102; Cass. sez. 6 n. 28411 del 13.11.2012, Santapaolo, Rv. 256435).

Anche più di recente è stato ribadito che, nel giudizio di appello, è consentita la motivazione ‘per relationem’ alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall’appellante non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Cass. sez. 2 n. 30838 del 19.3.2013, Autieri, Rv. 257056).

Il Giudice di appello, quindi, nella ipotesi in cui l’imputato, con precise considerazioni, svolga specifiche censure su uno o più punti della prima pronuncia, non può limitarsi a richiamarla, ma deve rispondere alle singole doglianze prospettate. In caso contrario, viene meno la funzione del doppio grado di giurisdizione ed è privo di ogni concreto contenuto il secondo controllo giurisdizionale’ (cfr. Cass. pen. Sez. 3 n. 24252 del 13.5.2010).

1.1. La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi.

Dopo aver richiamato per relationem la sentenza di primo grado, che aveva già ampiamente motivato sulla piena attendibilità delle parti offese, si è limitata ad argomentare in ordine agli specifici rilievi contenuti in proposito nei motivi di appello.

Ha evidenziato, in particolare, che le parti offese avevano reso dichiarazioni precise, articolate, circostanziate, in ordine ai comportamenti dell’imputato, che, in quanto tali, potevano essere solo frutto di esperienze effettivamente vissute.

Con motivazione non illogica ha poi rilevato che le contraddizioni e le incongruenze evidenziate dalla difesa, oltre a riguardare aspetti marginali e secondari della vicenda, erano pienamente giustificate. Andava quindi formulato un giudizio complessivo di piena attendibilità intrinseca in ordine ‘al nucleo centrale e fondamentale dei fatti storici addebitati’ (pag. 30).

Ha poi ulteriormente sottolineato che le parti offese non avevano alcun motivo per accusare ingiustamente l’imputato e, peraltro, si erano indotte alla denuncia (e non alla querela) solo dopo che era stata, sui mezzi di informazione, data pubblicità agli abusi sessuali perpetrati in danno della S. , la quale si trovava in Italia da pochi giorni e non conosceva nessuno.

Esse, per paura o temendo di non essere credute, si erano astenute dal presentare, nell’immediatezza di fatti, querela e si erano decise a venire ‘allo scoperto’ solo quando era stato pubblicizzato il ‘caso’ della S. (pag.31).

Oltre all’ipotesi del ‘complotto’, era da escludere anche il contagio dichiarativo, non risultando dagli atti alcunché in proposito e dovendosi, comunque, escludere che esse, maggiorenni e sane di mente, potessero indursi ad accusare di fatti così gravi un pubblico ufficiale sol perché altre l’avevano fatto in precedenza o per una sorta di spirito di emulazione.

La riprova che nessun condizionamento reciproco vi fosse stato tra le parti offese si ricavava dal fatto che C.S. , senza essere influenzata minimamente da quanto riferito dalla sorella S. , pur confermando gli approcci sessuali da parte dell’imputato, li aveva inquadrati in una sorta di ‘corteggiamento’, escludendo aggressioni alla sua sfera sessuale (pag. 32).

Anche in ordine alla dedotta ‘incompatibilità’ del luoghi in cui avvenivano gli approcci sessuali, la Corte territoriale, con motivazione adeguata ed immune da evidenti illogicità, ha ritenuto infondati i rilievi difensivi (pag.32).

1.2. A fronte di una motivazione che ha tenuto conto dei motivi di appello, ‘affasciandoli’ negli elementi comuni (pur senza scendere ad esaminare gli aspetti particolari, relativi ad ogni singola parte offesa, e quindi implicitamente disattendendoli), il ricorrente ripropone le medesime censure, non tenendo conto che nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. pen. Sez. 4 n. 1149 del 24/10/2005 – Mirabilia; Cass. pen. sez. 6 n. 20092 del 4/5/2011).

Anche più di recente è stato ribadito che ‘in sede di legittimità, non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata’ (Cass. pen. sez. 1 n. 27825 del 22/5/2013).

Per altro verso il ricorrente, nel denunciare il vizio di motivazione in punto di attendibilità delle parti offese, richiede sostanzialmente una rivisitazione delle risultanze processuali,non consentita in questa sede.

Il controllo demandato alla Corte di legittimità va, invero, esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo.

In ordine al quarto motivo, come ripetutamente affermato da questa Corte la circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis comma 3 cod. pen. deve considerarsi applicabile in tutte quelle fattispecie nelle quali, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima (bene-interesse tutelato dalla norma) sia stata compressa in maniera non grave.

Deve quindi farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, quali mezzi, modalità esecutive, grado di coartazione esercitato sulla vittima, condizioni fisiche e mentali di questa, entità della compressione della libertà sessuale e del danno arrecato, anche in termini psichici, caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, così da poter ritenere che la libertà sessuale sia stata compressa in modo non grave, come, pure, il danno arrecato anche in termini psichici (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 5002 del 7/11/2006; Cass. pen. sez. 3 n. 45604 del 13/11/2007).

Bisogna tener conto cioè, oltre che della materialità del fatto, di tutte le modalità della condotta criminosa e del danno arrecato alla parte lesa ovvero degli elementi indicati dal comma primo dell’art. 133 cod. pen., ma non possono venire in rilievo gli ulteriori elementi di cui al comma secondo dello stesso articolo 133, utilizzabili solo per la commisurazione complessiva della pena’ (Cass. pen. sez. 3 n. 3184 del 2/4/1014, Rv. 260289; Cass.pen.sez.3 n.2597 del 25/11/2003).

Anche più di recente questa Corte ha ribadito che ai fini del riconoscimento dell’attenuante della minore gravità non rileva di per sé la ‘natura’ e ‘l’entità’ dell’abuso, essendo necessario valutare il fatto nel suo complesso; sicché deve escludersi che la sola ‘tipologia’ dell’atto possa essere sufficiente per ravvisare o negare la circostanza Cass.pen. sez. 3 n.39445 del 1/7/2014, Rv. 260501.

2.1. Anche, in proposito, la Corte territoriale ha applicato correttamente i principi sopra enunciati, rilevando che, a prescindere dalla non particolare invasività della sfera sessuale delle vittime della condotta posta in essere dall’imputato, ad escludere la configurabilità dell’ipotesi di minore gravità militassero le ‘condizioni’ in cui esse erano venute a trovarsi al cospetto di un soggetto che, invece di tutelarle e garantire il rispetto della legalità, aveva abusato del suo ruolo. Era evidente, quindi, secondo la Corte di merito, la gravità dell’impatto emotivo che da siffatte aggressioni alla sfera sessuale era derivato.

Sul punto, ugualmente, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di esaminare i rilievi difensivi in ordine ad ognuna delle parti offese. Ma le argomentazioni adoperate dalla Corte territoriale, per escludere la circostanza attenuante, hanno carattere ‘generale’ e sono riferibili a tutte le parti offese.

Quanto al reato di cui al capo 9), la Corte territoriale, richiamando la giurisprudenza di questa Corte, ha evidenziando la configurabilità del peculato d’uso nell’ipotesi di utilizzo, come nel caso di specie, di un’auto di servizio per fini personali, indipendentemente dalla concomitante utilizzazione della vettura anche per fini istituzionali (cfr. Cass. sez. 1 n. 10724 del 9/2/2006, Rv. 233718; Cass.sez. 6 n.25537 del 15/4/2009; sez.3 n.26616 del 8/5/2013).

Nel rigettare i rilievi difensivi sul punto ha, invero, escluso che la condotta, posta in essere dall’imputato, potesse ritenersi penalmente irrilevante, essendo stata l’auto di servizio utilizzata reiteramente per fini illeciti.

Si vedrà in seguito che, nell’apportare l’aumento per la continuazione per detto reato, non vi è stata alcuna reformatio in peius.

In ordine ai reati di cui ai capi 4), qualificato già in primo grado come tentativo, commesso nell’anno 2005, e 24), per quest’ultimo limitatamente al delitto tentato commesso nel 2003, va emessa, a norma dell’art. 129 comma 1 cod.proc.pen., immediata declaratoria di prescrizione.

Il termine massimo di prescrizione di anni 7 e mesi 6 è infatti ampiamente decorso, rispettivamente nell’aprile 2013 e nel maggio 2011.

Ugualmente infondato è il ricorso nella parte in cui si censura la sentenza impugnata in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Pacificamente, ai fini del riconoscimento di tali attenuanti, non è necessaria una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente la indicazione degli elementi ritenuti decisivi e rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri. Il preminente e decisivo rilievo accordato all’elemento considerato implica infatti il superamento di eventuali altri elementi, suscettibili di opposta e diversa significazione, i quali restano implicitamente disattesi e superati. Sicché anche in sede di impugnazione il giudice di secondo grado può trascurare le deduzioni specificamente esposte nei motivi di gravame quando abbia individuato, tra gli elementi di cui all’art. 133 c.p., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell’imputato e le deduzioni dell’appellante siano palesemente estranee o destituite di fondamento (cfr. Cass. pen. sez. 1 n. 6200 del 3/3/1992; Cass. sez. 6 n. 34364 del 16/6/2010).

L’obbligo della motivazione non è certamente disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni difensive, a condizione però che in una valutazione complessiva il giudice abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo implicitamente le altre. E la motivazione, fondata sulle sole ragioni preponderanti della decisione non può, purché congrua e non contraddittoria, essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 7707 del 4/12/2003).

5.1. La Corte territoriale ha adeguatamente argomentato in ordine alle ragioni che ostavano al riconoscimento dell’invocato beneficio, facendo riferimento alla gravità dei fatti ed alla personalità dell’imputato.

Ha evidenziato, innanzitutto, che non ci si trovava in presenza di episodi isolati ma di un vero e proprio ‘sistema’, protrattosi per anni.

Il prevenuto, inoltre, in spregio dei doveri derivanti dal suo ruolo, non aveva esitato ad asservire la funzione e a strumentalizzarla per soddisfare la sua concupiscenza in danno di donne che con lui venivano a contatto proprio in ragione del ruolo ricoperto.

Ha, infine, rilevato la Corte di merito che, a fronte di tali elementi assolutamente negativi non era dato rinvenire alcun elemento di segno positivo: non certo l’incensuratezza (rappresentando essa per un servitore dello Stato semplicemente un ‘dovere”), né tanto meno il comportamento processuale (non avendo il G. mostrato alcun segno di resipiscenza o di volontà risarcitoria nei confronti delle vittime).

Fondato è, invece, il secondo motivo di ricorso in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 517 cod.pen..

È indubitabile e, del resto, non vi è alcuna contestazione sul punto da parte del ricorrente, che il reato di violenza sessuale, commessa mediante abuso della qualità e dei poteri del pubblico ufficiale, possa concorrere formalmente con il reato di concussione, trattandosi di reati che tutelano beni giuridici diversi, posti a salvaguardia di distinti valori costituzionali, rappresentati dal buon andamento della P.A. e della libertà di autodeterminazione della persona nella sfera sessuale (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 6 n. 8894 del 4/11/2010).

È necessario, però, che ricorrano gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 317 cod. pen. ed in particolare la ‘costrizione’ o la ‘induzione’. Tali ‘elementi’ non si identificano nella superiorità, nell’influenza o nell’autorità che il pubblico ufficiale può vantare in ragione della carica ricoperta o della funzione svolta, occorrendo, invece, ai fini dell’integrazione del reato, una costrizione o induzione qualificata, ossia prodotta dal pubblico ufficiale con l’abuso della sua qualità o dei suoi poteri, così che l’azione indebita si caratterizzi per essere l’effetto di tale costrizione o induzione e cioè conseguenza della coazione psicologica esercitata dal pubblico ufficiale mediante l’abuso della sua qualità o dei suoi poteri (Cass. sez. 6 n. 26324 del 26/04/2007).

6.1. La Corte territoriale, in premessa, si è preoccupata di precisare che, secondo l’impostazione giurisprudenziale sopra delineata, per la configurabilità del reato di concussione occorra ‘qualcosa di più e di diverso dalla costrizione, con abuso di qualità o poteri pubblicistici, della vittima a subire atti sessuali, che costituisce il nucleo del reato di violenza sessuale’ (pag. 34 sent.).

Ma, poi, non ha motivato adeguatamente sul punto in ordine alle singole fattispecie.

Tale motivazione si rendeva ancor più necessaria, a seguito di un rigoroso esame delle risultanze processuali, dal momento che nella maggior parte delle imputazioni si faceva alternativamente riferimento a ‘costrizione’ o comunque ad ‘induzione’.

6.2. La Corte di merito, invece, ha ritenuto, innanzitutto, che non fosse necessario addentrarsi ‘nelle ulteriori specificazioni che il diverso atteggiarsi della condotta concussiva (costruzione o induzione) richiederebbe….’ (pag.34).

Eppure la precisa individuazione della fattispecie appariva assolutamente necessaria anche alla luce della normativa sopravvenuta che ha distinto in due distinte ipotesi di reato la concussione per costrizione (art. 317 cod.pen.) dalla induzione indebita (art. 319 quater cod. pen.).

Non si è posta, quindi, il problema della incidenza nella fattispecie in esame delle modifiche introdotte dalla L. n. 190 del 2012.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12228 del 24/10/2013, Rv. 258470, hanno affermato il principio in base al quale il delitto di concussione, di cui all’art. 317 cod. pen. nel testo modificato dalla L. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno ‘contra ius’ da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319 quater cod. pen. introdotto dalla medesima L. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico. Ciò posto, le Sezioni unite hanno avuto modo di precisare, in motivazione, che il principio di diritto, così come fissato, costituisce regola generale da applicare ordinariamente ai casi di chiara interpretazione, esistendo casi ambigui, cosiddette ‘zone grigie’, ove l’indicato criterio distintivo del danno antigiuridico e del vantaggio indebito va utilizzato, all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione del fatto, dovendosi cogliere di quest’ultimo i dati più qualificanti idonei a contraddistinguere la vicenda concreta. Più in dettaglio, le Sezioni unite hanno chiarito che il criterio distintivo tra il concetto di costrizione (costitutivo del delitto previsto dall’art. 317 cod. pen. affrancato dalla modalità induttiva), e quello di induzione (costitutivo della nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater cod. pen. derivata dallo sdoppiamento dell’originaria fattispecie concussiva), deve essere individuato nella dicotomia minaccia – non minaccia, che rappresenta l’altro lato della medaglia rispetto alla dicotomia costrizione – induzione, evincibile dal dato normativo’.

La giurisprudenza successiva, in applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, ha ritenuto che, a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 190/2012, integri il delitto di concussione il comportamento del pubblico ufficiale che, pur senza l’impiego di brutali forme di minaccia psichica diretta, ponga la persona offesa di fronte all’alternativa di accettare la pretesa indebita o subire un pregiudizio oggettivamente ingiusto; sussiste invece la fattispecie di induzione indebita ove il pubblico agente, abusando della sua qualità o del suo strapotere, formuli una richiesta di dazione o promessa come condizione per il mancato compimento di un atto doveroso o come condizione per il compimento di una atto a contenuto discrezionale, con effetti comunque favorevoli per l’interessato (Cass. sez. 3 n. 26616 del 08/05/2013, che ha ritenuto integrasse il reato di concussione il comportamento di un finanziere che, dopo aver richiesto ad una prostituta extracomunitaria i documenti e prospettato possibili conseguenze negative connesse al suo status di straniera irregolare, aveva preteso una prestazione sessuale gratuita).

E che integra il delitto di concussione, come modif. dall’art. 1 comma 75 L. 190/2012, la condotta di due militari che dopo aver accompagnato di notte in caserma due prostitute per controlli, ottengano dalle due donne prestazioni sessuali in cambio dell’immediato rilascio, prospettando loro, in caso contrario, il trattenimento fino al giorno successivo per il foto segnalamento (Cass. sez. 3 n. 37839 del 7/5/2014).

6.3. La ‘distinzione’ si rendeva necessaria non solo per la esatta individuazione e delimitazione delle varie fattispecie contestate, ma anche per la determinazione del trattamento sanzionatorio per ognuna di esse, pur se ritenute avvinte dalla continuazione con il reato (ritenuto più grave) di cui al capo 1), risultando il reato di cui all’art. 319 quater cod.pen. sanzionato meno gravemente rispetto all’originario reato di cui all’art. 317 cod.pen. (che comprendeva anche la concussione per induzione).

Nel determinare gli aumenti da apportare a titolo di continuazione il Giudice,deve, infatti, tener conto della diversa natura e gravità dei reati ritenuti in continuazione.

6.4. Inoltre, nella individuazione, per ognuna delle singole ipotesi di concussione, del ‘quid pluris’ ritenuto (in premessa) necessario per la configurabilità della fattispecie, la Corte distrettuale ha fatto riferimento a generici rilievi o al metus derivante dalla funzione ricoperta, senza specificare da quali risultanze processuali emergesse la condotta di ‘costrizione’ ovvero di ‘induzione’.

6.5. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio limitatamente alla configurabilità del reato di cui all’art.317 cod.pen..

I Giudici, pur potendo pervenire alle medesime conclusioni, motiveranno adeguatamente in proposito, tenendo conto dei rilievi e dei principi in precedenza enunciati.

Rimane ovviamente ‘sub iudice’ il trattamento sanzionatorio anche in considerazione della già avvenuta, in questa sede, declaratoria di prescrizione dei reati di cui ai capi 4) e 24), limitatamente, per quest’ultimo, ai fatti commessi nell’anno 2003.

Per completezza va, comunque, rilevato che nel calcolo della pena effettuato dalla Corte territoriale non sia ravvisabile alcuna reformatio in peius.

Per il reato di cui al capo 9), derubricato in peculato d’uso, l’aumento a titolo di continuazione è stato inferiore a quello della sentenza di primo grado (mesi 3 di reclusione per il reato di peculato come originariamente contestato).

La Corte ha, invero, apportato un aumento complessivo di anni 2 e mesi 2 di reclusione per 8 (otto) ipotesi di concussione e per il peculato di cui al capo 9) (pag. 38). Non essendo stata fatta alcuna distinzione, deve quindi ritenersi che per ognuna di tale ipotesi (e quindi anche per il peculato) sia stato apportato un aumento di pena pari a mesi 2,88.

Il ricorrente confonde, quindi, il riferimento alle otto ipotesi di concussione con l’aumento di pena apportato per il peculato d’uso.

I Giudici del rinvio, infine, provvederanno al regolamento delle spese in relazione alle costituzioni di parte civile, anche per questo grado di giudizio.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine ai reati di cui ai capi 4, e 24, (quest’ultimo limitatamente ai fatti commessi nell’anno 2003) perché estinti per prescrizione; e con rinvio, quanto alla configurabilità del reato di cui all’art. 317 cod.pen., ad altra sezione della Corte di Appello di Milano, che provvedere anche alla liquidazione delle spese di questo grado in favore delle parti civili. Rigetta nel resto il ricorso

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