In caso di evasione Iva per determinare l’imposta evasa vanno considerati solo i ricavi e costi d’esercizio detraibili
Suprema Corte di Cassazione
sezione III penale
sentenza 26 settembre 2016, n. 39789
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAMACCI Luca – Presidente
Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere
Dott. DI STASI Antonella – Consigliere
Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere
Dott. RICCARDI Giuseppe – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 30/04/2013 della Corte di Appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Giuseppe Riccardi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. SPINACI Sante, che ha concluso chiedendo l’inammissibilita’ del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 30 aprile 2013 la Corte di Appello di Roma – in parziale riforma della sentenza di condanna alla pena di anni uno e mesi sette di reclusione emessa dal Tribunale di Roma in data 12/05/2011 nei confronti di (OMISSIS), imputato, in concorso con (OMISSIS), dei reati di cui all’articolo 5 d.lgs. 74 del 2000, per avere, in qualita’ di amministratore della (OMISSIS) s.n.c. di (OMISSIS), omesso la dichiarazione IVA negli anni 2002 (capo A), 2003 (capo B) e 2004 (capo C) – dichiarava l’estinzione per prescrizione del reato contestato al capo B (essendo gia’ stata dichiarata l’estinzione in ordine al capo A dalla sentenza di 1 grado), e rideterminava la pena, in relazione al residuo capo C, in mesi otto di reclusione.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione il difensore del ricorrente, Avv. (OMISSIS), deducendo due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p.:
1) vizio di motivazione, in relazione alla mancanza di una rielaborazione critica delle prove, ed al richiamo del verbale di constatazione; lamenta che la quantita’ di IVA evasa sia stata calcolata sulla base di un volume di affari presunto e non effettivo, non essendo stato stabilito se i bonifici bancari fossero al netto o al lordo dell’IVA, e sulla base di un modello di dichiarazione rinvenuto, ma non presentato; nessuna verifica o valutazione e’ stata operata in ordine all’ammontare dell’imposta evasa, ed ai costi sostenuti dalla societa’;
2) violazione di legge in ordine alla sussistenza del dolo specifico di evasione: la successiva regolarizzazione dimostra che l’omessa presentazione era dovuta solo alla difficile crisi economica della societa’, che ha costretto l’imputato a ritardare l’adempimento per evitare il fallimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso e’ inammissibile.
2. Il primo motivo e’ manifestamente infondato.
Il ricorrente censura, da un lato, l’omessa valutazione, quali componenti negativi del reddito, dei “costi neri certi”, e, dall’altro, l’erronea valutazione nella determinazione della quantita’ di IVA evasa, fondata sugli accertamenti presuntivi dell’Agenzia delle Entrate, non gia’ sull’effettivo volume di affari.
Giova, al riguardo, premettere che, ai fini della configurabilita’ del reato di omessa dichiarazione ai fini di evasione dell’imposta sui redditi (Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 5), spetta esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che puo’ venire a sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Sez. 3, n. 37335 del 15/07/2014, Buonocore, Rv. 260188); e’ rimesso al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, puo’ sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario (Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014, Agresti, Rv. 260389, in una fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza impugnata che aveva assunto come base di calcolo per determinare l’imposta evasa il solo prezzo di vendita della merce e non anche gli elementi negativi di reddito detraibili).
Ai fini della configurabilita’ del reato di omessa dichiarazione IRPEF o IVA, il giudice, nel determinare l’ammontare dell’imposta evasa, sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio detraibili, puo’ fare ricorso alle risultanze delle indagini bancarie svolte nella fase dell’accertamento tributario, a condizione che proceda ad autonoma verifica di tali dati indiziari unitamente ad elementi di riscontro, eventualmente acquisiti anche “aliunde”, che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa, privilegiando il dato fattuale reale rispetto a quello di natura meramente formale che caratterizza l’ordinamento fiscale (Sez. 3, n. 15899 del 02/03/2016, Colletta, Rv. 266817).
Il reato di omessa dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto e’ oggetto di accertamento non induttivo e quindi legittimo in sede penale quando la determinazione delle imposte evase e’ operata tenendo conto soltanto dei ricavati aziendali in assenza di elementi che facciano ritenere l’esistenza di costi aziendali (Sez. 3, n. 35858 del 07/06/2011, Feneri, Rv. 251281).
Tanto premesso, va, dunque, affermata, sotto il profilo della illogicita’ della motivazione, l’inammissibilita’ delle doglianze relative alla valutazione probatoria operata dal giudice del merito, in quanto sollecitano, in realta’, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimita’; infatti, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alle categorie della violazione di legge e del vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., sono in realta’ dirette a richiedere a questa Corte un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale.
Sotto il profilo della correttezza dei principi di diritto applicati dalla Corte territoriale, inoltre, va evidenziato che la base imponibile sulla quale calcolare l’imposta evasa e’ stata determinata non gia’ sulla base di un accertamenti induttivi e presuntivi, bensi’ sulla base delle fatture emesse nel 2004 (pari ad Euro 497.414,70); quanto ai “costi neri”, a prescindere dal rilievo, assorbente, che il ricorrente non ha indicato il loro eventuale ammontare, la verifica da effettuare sulla differenza tra ricavi e costi d’esercizio detraibili, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale (ex multis, Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014, Agresti, Rv. 260389), non implica che la base imponibile possa essere determinata sulla base di costi non detraibili; e, in assenza di esposizione dei costi, senz’altro non ne puo’ essere verificata la natura detraibile, derivante, nel caso dell’IVA, dall’inerenza dei costi all’attivita’ d’impresa, in quanto tale fondante l’abbattimento dell’imponibile fiscale.
3. Il secondo motivo, relativo all’assenza del dolo di evasione, come dimostrato dalla successiva regolarizzazione della posizione fiscale, e dalla crisi di liquidita’ che aveva determinato l’omissione, e’ manifestamente infondato.
In tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione (Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 5), puo’ essere desunta dall’entita’ del superamento della soglia di punibilita’ vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta (Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016, Vece, Rv. 267022).
In tal senso, la sentenza impugnata ha evidenziato la piena consapevolezza dell’imputato dell’obbligo tributario, come dimostrato, tra l’altro, dal rinvenimento dei modelli di dichiarazione predisposti ma non presentati.
In ordine alla pretesa efficacia scusante della crisi di liquidita’, va condiviso l’orientamento, affermato con particolare riferimento al reato di omesso versamento di Iva (Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter), secondo cui, ai fini dell’esclusione della colpevolezza e’ irrilevante la crisi di liquidita’ del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo (Sez. 3, n. 2614 del 06/11/2013, dep. 2014, Saibene, Rv. 258595; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263128).
Infine, in merito alla successiva regolarizzazione della posizione fiscale, che escluderebbe il dolo di evasione, premesso che l’evasione d’imposta non e’ elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice del delitto di omessa dichiarazione, bensi’ costituendo il dolo specifico della fattispecie, e dunque, per l’integrazione della tipicita’, non occorre il conseguimento dell’evasione, essendo sufficiente che essa costituisca la finalita’ della condotta (in senso analogo, a proposito del reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 8, Sez. 3, n. 39359 del 24/09/2008, Biffi, Rv. 241040), va ribadito che il versamento spontaneo dell’imposta evasa, effettuato successivamente alla presentazione della dichiarazione dei redditi, non influisce ne’ sulla determinazione dell’imposta ne’ sul superamento della soglia di punibilita’ prevista per la configurabilita’ del reato di omessa dichiarazione (Sez. 3, n. 656 del 01/12/2010, dep. 2011, Segaloni, Rv. 249335, che, in motivazione, ha precisato che il versamento postumo puo’ tuttavia avere effetto estintivo del reato, ove risponda ai requisiti previsti dalla disciplina in materia di condono, oppure puo’ rilevare ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante prevista dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 13, o delle circostanze attenuanti generiche).
Tanto premesso, lungi dal poter escludere la sussistenza del dolo di evasione, il successivo adempimento puo’, dunque, rilevare a fini attenuanti ovvero estintivi della punibilita’; tuttavia, non risulta, ne’ dalla sentenza impugnata, ne’ dallo stesso ricorso, prova di tale adempimento.
4. Alla declaratoria di inammissibilita’ del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.500,00: infatti, l’articolo 616 c.p.p., non distingue tra le varie cause di inammissibilita’, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilita’ dichiarata ex articolo 606 c.p.p., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilita’ pronunciata ex articolo 591 c.p.p..
P.Q.M.
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