Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 12 aprile 2016, n. 15099

In tema di illeciti tributari, al fine di ritenere legittima il sequestro preventivo del patrimonio del legale rappresentante, occorre accertare l’effettiva, concreta e circostanziata impossibilità di procedere al sequestro dei beni della società beneficiata dall’evasione fiscale

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

sentenza 12 aprile 2016, n. 15099

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza emessa in data 22/09/2014, depositata in data 30/09/2014, il tribunale del riesame di NAPOLI confermava il decreto di sequestro preventivo per equivalente disposto con ordinanza del GIP del medesimo tribunale in data 3/06/2014, avente ad oggetto la somma di Euro 2.094.388 o di beni di valore equivalente nella disponibilità dell’indagato, nei cui confronti è stato iscritto procedimento penale per il reato di cui all’art. 10 ter, d.lgs. n. 74 del 2000, in relazione all’omesso versamento IVA relativamente al periodo di imposta 2010 per l’importo c.s. indicato.

2. Ha proposto ricorso M.R. a mezzo del difensore fiduciario cassazionista, impugnando la ordinanza predetta con cui deduce due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) e c), cod. proc. pen., sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 322 ter e 240 c.p., 125 e 321 c.p.p., 1, comma 143, legge n. 244 del 2007 e 111, comma sesto, Cost..
In sintesi, la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto, sostiene il ricorrente, nella richiesta di riesame la difesa aveva eccepito che ex art. 322 ter c.p., il sequestro per equivalente poteva ritenersi legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato fosse impossibile; richiamando la giurisprudenza di questa Corte sul punto, da ultimo espressa dall’autorevole insegnamento delle Sezioni Unite Gubert e da decisioni ad esse successive, sostiene il ricorrente che, nel caso in esame, il sequestro a carico dell’amministratore sarebbe stato ipotizzabile solo all’esito del concreto, specifico e documentato controllo della sussistenza dei beni presso la società, nella specie inesistente; i giudici del riesame, investiti della questione, avrebbero invece motivato sostanzialmente elidendo la censura, affermando che l’onere di previa escussione del patrimonio societario non incombe sulla giurisdizione nel corso del procedimento penale, potendo l’organo che procede all’accertamento del fatto-reato aggredire, ai fini della successiva confisca, qualsiasi bene riconducibile al responsabile persona fisica delle condotte contestate; vi sarebbe quindi conclusivamente un vizio assoluto di motivazione circa l’effettiva, concreta e circostanziata impossibilità di procedere al sequestro dei beni della società beneficiata dall’evasione fiscale, al fine di dar corso al sequestro per equivalente sui beni dell’amministratore.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) e c), cod. proc. pen., sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 2, d.p.R. n. 180 del 1950, 125 e 321 c.p.p., 104 disp. Att. C.p.p., 111, comma sesto, Cost..
In sintesi, la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto, sostiene il ricorrente, nella richiesta di riesame era stata censurata la violazione dell’art. 2 del d.p.r. citato essendo stato eseguito il sequestro anche sul libretto postale acceso dall’indagato con l’esclusivo fine di riscuotere la pensione erogata dall’INPS, essendovi espressamente obbligato dalla normativa antiriciclaggio; l’esecuzione del sequestro, in parte qua, si appaleserebbe illegittima perché sul libretto postale confluisce esclusivamente detto trattamento pensionistico, che in quanto tale non sarebbe sequestrabile se non nei limiti del quinto del relativo importo, come ribadito anche dalla giurisprudenza di questa Corte; la motivazione del tribunale del riesame, sul punto, sarebbe censurabile in quanto, da un lato, ritiene che l’orientamento giurisprudenziale richiamato dalla difesa si riferisca all’ipotesi di confisca per equivalente per ipotesi di reato contro la P.A. e, dall’altro, afferma che ciò che rileva è la corrispondenza tra quanto sequestrato e quanto evaso, sicché qualora il profitto tratto da taluno dei reati per cui è prevista la confisca per equivalente è costituito da denaro, l’adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano da delitto e siano confluite nell’effettiva disponibilità dell’indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all’importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare; detta motivazione avrebbe anche in questo caso eluso di esaminare la censura, restando infatti intatta la violazione del principio di insequestrabilità delle pensioni oltre il limite di legge, non soltanto perché il precedente giurisprudenziale evocata dalla difesa era pertinente in quanto afferente al profilo dell’illegittima esecuzione del sequestro oltre detto limite di legge non rilevando l’ipotesi di reato per cui si procede, ma anche perché, da un lato, non era mai stato sostenuto dalla difesa che le somme sequestrate dovessero derivare dal delitto e, dall’altro, perché era stato evidenziato che proprio per la caratteristica delle perequivalenza, il sequestro in esame non avrebbe potuto essere eseguito su somme impignorabili ed insequestrabili, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità evocata in ricorso.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è fondato.

4. Quanto al primo motivo, con cui si censura l’ordinanza in quanto il sequestro per equivalente poteva ritenersi legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato fosse impossibile, è sufficiente rilevare come la motivazione del provvedimento impugnato si presenti sul punto non corretta giuridicamente, richiamando un principio (nel senso che l’onere di previa escussione del patrimonio societario non incombe sulla giurisdizione nel corso del procedimento penale, potendo l’organo che procede all’accertamento del fatto-reato aggredire, ai fini della successiva confisca, qualsiasi bene riconducibile al responsabile persona fisica delle condotte contestate) affermato da una decisione di questa Corte (Sez. 3, n. 7138 del 27/01/2011 – dep. 24/02/2011, Mazzitelli, Rv. 249398) che è ovviamente da ritenersi non più attuale a seguito dell’arresto delle richiamate Sezioni Unite Gubert e dalla giurisprudenza successiva; ed invero, è stato chiarito che al fine di poter disporre la confisca diretta del profitto nei confronti della persona giuridica è pur sempre necessario che risulti la disponibilità nelle casse societarie di denaro da aggredire, non sussistendo un obbligo per la Pubblica Accusa di dover provvedere alla preventiva ricerca di liquidità o cespiti anche nel caso in cui risulti “ex actis” l’incapienza del patrimonio dell’ente (Sez. 3, n. 6205 del 29/10/2014 – dep. 11/02/2015, Mataloni e altro, Rv. 262770), puntualizzandosi ulteriormente, da un lato, che in tema di reati tributari commessi dai legali rappresentanti della persona giuridica, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto può essere disposto sui beni personali degli amministratori solo nell’ipotesi in cui il profitto (o i beni ad esso direttamente riconducibili) non sia più nella disponibilità della persona giuridica (Sez. 3, n. 30486 del 28/05/2015 – dep. 15/07/2015, Antenucci, Rv. 264392) e, dall’altro, che in tema di reati tributari, il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della società o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione, incombendo, invece, al soggetto destinatario del provvedimento cautelare l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta (Sez. 3, n. 1738 del 11/11/2014 – dep. 15/01/2015, Bartolini, Rv. 261929).

Orbene, facendo coerente applicazione di tali principi di diritto, il tribunale avrebbe dovuto accertare se, come eccepito dal ricorrente, vi fosse l’effettiva, concreta e circostanziata impossibilità di procedere al sequestro dei beni della società beneficiata dall’evasione fiscale, al fine di dar corso al sequestro per equivalente sui beni dell’amministratore; nella specie, i giudici del riesame, al di là di un richiamo ai principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite Gubert, si limitano a evidenziare che il P.M. avrebbe indicato nella richiesta di sequestro che non era possibile individuare “in rerum natura” il profitto direttamente ed immediatamente derivante dagli illeciti oggetto di imputazione, derivandone la ricorrenza di tutte le condizioni necessarie per poter aggredire con sequestro preventivo ai fini della confisca per equivalente dei beni che sono risultati essere nella disponibilità dell’indagato M.R. quale l.r. della Groupe S.p.A..
Ora, a parte la enigmatica affermazione che il tribunale attribuisce al PM ricorrente circa la mancata individuazione del profitto derivante dall’art. 10 ter, d.lgs. n. 74 del 2000 (profitto sicuramente coincidente con il mancato versamento dell’IVA dichiarata e non corrisposta alla scadenza prevista dalla legge al 27/12 dell’anno successivo a quello di imposta, ossia il 2010), ciò che è mancato nel caso di specie è proprio la valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato; nulla è dato desumere dal provvedimento impugnato circa gli esiti di tale accertamento, circostanza necessaria, secondo quanto più volte affermato da questa Corte, al fine di ritenere legittima l’aggressione del patrimonio del l.r. per illeciti tributari, segnatamente per quello di cui di discute.

5. Quanto al secondo motivo – in cui è censurata la violazione dell’art. 2 del d.p.r. n. 180 del 1950 essendo stato eseguito il sequestro anche sulle somme depositate sul libretto postale acceso dall’indagato con l’esclusivo fine di riscuotere la pensione erogata dall’INPS, esecuzione del sequestro, in parte qua, illegittima perché la somma esistente sul predetto libretto postale non sarebbe sequestrabile se non nei limiti del quinto del relativo importo (come ribadito anche dalla giurisprudenza di questa Corte) -, la motivazione del tribunale del riesame si appalesa parimenti non corretta giuridicamente, atteso che a parte l’irrilevanza dell’affermazione secondo cui la giurisprudenza citata dalla difesa non sarebbe pertinente in quanto riferentesi alla confisca per equivalente per ipotesi di reato contro la P.A. (come se il problema dell’impignorabilità fosse diverso a seconda del delitto da cui provengono le somme sequestrande), è errato in diritto quanto sostenuto dal tribunale del riesame.
Ed invero, va qui ricordato che il D.P.R. n. 180 del 1950, art. 1 stabilisce che “Non possono essere sequestrati, pignorati o ceduti, salve le eccezioni stabilite nei seguenti articoli ed in altre disposizioni di legge, gli stipendi, i salari, le paghe, le mercedi, gli assegni, le gratificazioni, le pensioni, le indennità, i sussidi ed i compensi di qualsiasi specie che Io Stato, le province, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e qualsiasi altro ente od istituto pubblico sottoposto a tutela, od anche a sola vigilanza dell’amministrazione pubblica (comprese le aziende autonome per i servizi pubblici municipalizzati) e le imprese concessionarie di un servizio pubblico di comunicazioni o di trasporto nonché le aziende private corrispondono ai loro impiegati, salariati e pensionati ed a qualunque altra persona, per effetto ed in conseguenza dell’opera prestata nei servizi da essi dipendenti”.
Il Tribunale del riesame ha affermato (pag. 4) che ciò che rileva in questa fase è la corrispondenza tra quanto sequestrato e quanto evaso, sicché qualora il profitto tratto da taluno dei reati per cui è prevista la confisca per equivalente è costituito da denaro, l’adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano da delitto e siano confluite nell’effettiva disponibilità dell’indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all’importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare (richiama a tal fine Sez. 3, n. 1261 del 25/09/2012 – dep. 10/01/2013, Marseglia, Rv. 254175). Trattasi, tuttavia, di richiamo improprio al principio affermato da tale decisione, in quanto ciò di cui si discute(va) nel caso in esame, non era il tema dell’accertamento del nesso di pertinenzialità tra il reato ed il bene (nella specie, denaro) da confiscare, quanto, piuttosto, la legittimità dell’esecuzione del sequestro per equivalente “per intero” su somme di denaro provenienti da trattamenti pensionistici oltre il limite di legge del quinto.
Orbene, sul punto, questa Corte ha già chiarito (Sez. 2, sentenza n. 12541 del 17 marzo 2014, non massimata; Sez. 1, sentenza n. 41905 del 23 settembre 2009, CED Cass. n. 245049; Sez. 6, sentenza n. 25168 del 16 aprile 2008, CED Cass. n. 240572; Sez. 2, n. 15795 del 10/02/2015 – dep. 16/04/2015, Intelisano, Rv. 263234), e l’orientamento merita di essere ribadito, che il divieto di sequestro e pignoramento di trattamenti retributivi, pensionistici ed assistenziali in misura eccedente un quinto del loro importo al netto delle ritenute, costituisce regola generale dell’ordinamento processuale, stante la riconducibilità dei predetti trattamenti (nella misura di 4/5 del loro importo netto) all’area dei diritti inalienabili della persona tutelati dall’art. 2 Cost..
Il provvedimento impugnato, emesso in violazione dei predetti limiti legali, dovrebbe, pertanto, essere annullato – oltre che per la, assorbente, ragione, di cui al 4 – anche limitatamente al sequestro della somma eccedente un quinto dell’importo depositato sul libretto in contestazione.

6. L’ordinanza dev’essere, dunque, annullata, con rinvio al tribunale del riesame di Napoli per nuovo esame, tenendo conto dei principi affermati da questo Collegio ai paragrafi 4 e 5.

P.Q.M.

La Corte annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Napoli.

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