La massima

Il comodatario il quale, al fine di utilizzare la cosa, debba affrontare spese di manutenzione anche straordinarie, può liberamente scegliere se provvedervi o meno, ma, se decide di affrontarle, lo fa nel suo esclusivo interesse e non può, conseguentemente, pretenderne il rimborso dal comodante.

Suprema Corte di Cassazione

Sezione II

sentenza del 27 gennaio 2012, n. 1216

Svolgimento del processo

C.M. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Firenze gli ex suoceri Ca.Ma. e D.G.T., per sentirli condannare al pagamento della somma 70 milioni di lire, quale rimborso, ex art. 1150 c.c., della quota parte del 50% delle spese che egli, insieme con l’ex coniuge, aveva sostenuto per l’esecuzione di opere edilizie necessarie a rendere abitabile un immobile di proprietà degli stessi convenuti, nel quale egli era andato a vivere con la sua famiglia. In subordine, domandava la stessa somma ai sensi dell’art. 936 c.c., ovvero, ancora, in base all’art. 2041 c.c..

I convenuti resistevano in giudizio.

La domanda era respinta sia in primo che in secondo grado.

In particolare, la Corte d’appello di Firenze, confermando anche la motivazione della sentenza di prime cure, riteneva che C. M. fosse stato soltanto detentore dell’immobile, ricorrendo i presupposti del comodato, quali la consegna del bene, la gratuità del contratto e l’utilizzazione diretta da parte del comodatario della cosa consegnata. Peraltro, osservava la Corte, l’appellante non aveva fornito alcuna prova della dedotta qualità di possessore, mentre gli appellati avevano negato tale qualificazione, avendo addirittura affermato che la consegna del bene era avvenuta successivamente all’esecuzione dei lavori oggetto di causa. Escludeva l’applicabilità dell’art. 936 c.c., per l’assenza di terzietà fra le parti, in virtù del rapporto di comodato sussistente con i proprietari del bene. Rilevava, quindi, che l’appellante non aveva neppure dimostrato l’esistenza delle condizioni previste dall’art. 1808 c.c., comma 2, circa la straordinarietà, necessità ed urgenza dei lavori di ristrutturazione eseguiti, ben potendo C.M. continuare ad abitare con la sua famiglia nel medesimo appartamento dei suoceri, nel quale aveva vissuto nei dodici anni precedenti.

Negava, infine, l’applicabilità anche dell’art. 2041 c.c., identificando una giusta causa di arricchimento nel dotare il nucleo familiare del medesimo appellante di un autonomo luogo di residenza, nel quale la moglie e il figlio del C., avevano continuato ad abitare dopo la separazione dei coniugi.

Per la cassazione di detta sentenza ricorre C.M., formulando cinque motivi di annuamento.

Resistono con controricorso gli intimati.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo, articolato in tre censure, parte ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 167 e 180 c.p.c., nonchè degli artt. 1141, 1150 e 1803 c.c. e ss., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; la nullità della sentenza di primo grado e, conseguentemente, del procedimento e della sentenza d’appello per violazione dei citati artt. 112, 167 e 180 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Deduce, al riguardo, che la sentenza del Tribunale di Firenze era viziata da ultra ed extra petizione, avendo essa negato la qualifica di possessore del C., e conseguentemente l’applicabilità dell’art. 1150 c.c., qualificando il rapporto fra le parti come comodato, senza che i convenuti avessero contestato nei termini di legge la qualità di possessore del . o eccepito, nella comparsa di risposta di primo grado, che il rapporto fra le parti dovesse qualificarsi in termini di contratto di comodato, essendosi essi limitati a contestare esclusivamente la data di inizio del possesso. Pertanto, il Tribunale non avrebbe potuto procedere d’ufficio alla qualificazione del rapporto, nè conseguentemente avrebbe potuto negare l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 1150 c.c..

Del tutto errata, prosegue parte ricorrente, è la sentenza d’appello nella parte in cui afferma che l’appellante non avrebbe provato la dedotta qualità di possessore, atteso che ai sensi dell’art. 1141 c.c., non incombeva su di lui tale onere probatorio, essendo i convenuti a dover dimostrare l’inesistenza del dedotto possesso.

Peraltro, la qualificazione del rapporto fra le parti come comodato contrasta con la stessa prospettazione dei convenuti, secondo cui il C. all’epoca dei lavori non aveva ancora ricevuto la consegna dell’immobile, atteso che il comodato è contratto reale e, dunque, si perfeziona con la datio rei. Sotto tale profilo, prosegue parte ricorrente, la sentenza impugnata evidenzia anche una motivazione contraddittoria su un punto decisivo della controversia, poichè se la consegna dell’immobile era avvenuta successivamente all’esecuzione dei lavori, deve coerentemente escludersi che i lavori stessi possano essere stati realizzati nell’ambito di un rapporto di comodato, il quale avrebbe potuto avere origine solo dopo la consegna del bene e dunque dopo che le opere erano già state eseguite.

Lamenta, infine, parte ricorrente, che la sentenza d’appello abbia ignorato, incorrendo nel denunciato vizio di omessa motivazione, sia il fatto che, avendo il C. investito nell’immobile tutti i suoi risparmi, doveva ritenersi “fin troppo emblematico” lo stato soggettivo e il convincimento di lui di possedere, a tutti gli effetti e in buona fede, l’immobile ristrutturato, sia la circostanza che in casi analoghi la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che il coniuge, il quale in costanza di matrimonio abbia eseguito a proprie spese migliorie ed ampliamenti dell’immobile dell’altro per il godimento di entrambi, ha diritto ai rimborsi e alle indennità previste dall’art. 1150 c.c., per il possessore in buona fede.

2. – Con il secondo motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 936 e 1803 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Posto che la sentenza d’appello ha ritenuto che le opere in oggetto sono state eseguite prima della consegna del bene e, dunque, prima che potesse sorgere un rapporto di comodato (data la natura reale di tale contratto), il C. nel momento in cui ha sostenuto le relative spese era terzo rispetto ai proprietari del fondo, per cui era perfettamente applicabile la disposizione dell’art. 936 c.c..

3. – Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1808 c.c., e dell’art. 116 c.p.c., nonchè l’error in procedendo e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, nonchè l’omessa valutazione e il conseguente travisamento delle risultanze istruttorie.

Sostiene, al riguardo, che, anche a ritenere inapplicabile sia l’art. 1150, sia l’art. 936 c.c., in favore del C. sarebbe spettata comunque l’indennità o il rimborso previsto dall’art. 1808 c.c.. Non vi è dubbio, infatti, che le spese sostenute dal C. erano straordinarie, necessarie e urgenti, sia per lo stato precario in cui si trovava l’immobile, come accertato dal c.t.u., sia perchè quest’ultimo doveva essere destinato all’abitazione del C. e della sua famiglia. La Corte d’appello non ha valutato nessuna delle due suddette circostanze (salvo ritenere il solo carattere straordinario delle spese in questione). Inoltre, la sentenza impugnata è incorsa in motivazione contraddittoria e insufficiente lì dove da un lato ha imputato al C. di non aver provato il carattere necessario e urgente delle spese, e dall’altro non gli ha consentito la prova negandogli il supplemento di c.t.u., chiesto per il caso di ritenuta insufficienza degli accertamenti tecnici già espletati in primo grado, volto a dimostrare ulteriormente la situazione di degrado e di fatiscenza in cui versava il bene.

4. – Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1808, 1592 e 1593 c.c., e dell’art. 112 c.p.c., nonchè la nullità della sentenza del Tribunale e, conseguentemente, del procedimento e della sentenza della Corte d’appello per violazione dell’art. 112 c.p.c., e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Sostiene, al riguardo, che l’art.1808 c.c. si riferisce alle spese non autorizzate, per cui non può valere per quelle che il comodatario abbia eseguito con l’espresso consenso del comodante che ne risulta beneficiario. Tale questione, espressamente dedotta dal Cappagli in primo grado e ribadita “tra i motivi di appello”, è stata completamente ignorata sia dalla sentenza di primo grado, sia da quella d’appello.

Sostiene, quindi, che gli artt. 1592 e 1593 c.c., in tema di contratto di locazione sono applicabili analogicamente al comodato, ed afferma che il precedente di Cass. n. 7923/92, richiamato nella sentenza di prime cure per motivare l’esclusione del rimborso delle spese sostenute dal comodatario, si riferisce alle spese non autorizzate, per cui deve ritenersi esistente, invece, tale diritto per quelle autorizzate.

5. – Con il quinto motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., nonchè il connesso vizio motivazionale.

La Corte territoriale ha ritenuto esistente una giusta causa di arricchimento nel fatto che tuttora nell’immobile oggetto dei lavori effettuati dal C. abitano la moglie e il figlio di lui. Tale motivazione è errata, si afferma, perchè la permanenza dell’ex coniuge dell’odierno ricorrente e del figlio in tale immobile scaturisce non dalle condizioni della separazione personale dei coniugi, nelle quali non si menziona alcuna assegnazione della casa coniugale, ma dal rapporto diretto tra l’ex moglie e i genitori di lei, proprietari del fondo, senza alcun collegamento con la posizione, i bisogni e gli interessi del C..

6. – Il ricorso è infondato in tutte le censure in cui si articola.

6.1. – La qualificazione del rapporto sostanziale dedotto (come dell’azione esercitata) è oggetto di un precipuo potere-dovere del giudice, che non può essere inibito dall’inerzia delle parti nel prospettare le interpretazioni giuridiche della fattispecie; e le stesse parti, come non possono vincolare il giudice ad una data tesi giuridica, così non possono neppure imporgli le alternative giuridiche cui ricondurre il rapporto.

6.1.1. – Nè tanto meno ha fondamento la tesi di parte ricorrente, che vorrebbe confinata nella comparsa di risposta di primo grado “l’eccezione” del convenuto, il quale deduca una qualificazione del rapporto sostanziale diversa da quella dedotta dall’attore. E’ di tutta evidenza che non di eccezione si tratta, ma di mera difesa.

Invero, l’eccezione (sia o non rimessa alla disponibilità della parte) può avere ad oggetto solo un “fatto” e non già un apprezzamento giuridico, “fatto” che, per di più, dovendo essere impeditivo o estintivo del diritto azionato, deve di necessità essere sopravvenuto al sorgere del diritto stesso.

6.2. – La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che il vizio di ultra o extra petizione della sentenza di primo grado non può essere prospettato per la prima volta nel ricorso per cassazione ove il ricorrente non l’abbia dedotto come specifico motivo di gravame nel giudizio d’appello, neppure se riferito alla sentenza di secondo grado confermativa della precedente (cfr. Cass. nn. 11382/11, S.U. 15277/01, 822/00, 6152/96 e 4623/87).

6.2.1. – Nella specie, la parte odierna ricorrente avrebbe dovuto dedurre in appello il vizio di ultra o extrapetizione della sentenza di primo grado con un apposito motivo di gravame, di cui non v’è traccia nella sentenza impugnata e che lo stesso Cappagli non deduce di aver formulato in quel giudizio in termini di violazione dell’art. 112 c.p.c..

6.3. – Non risponde al vero, per l’esattezza, che la sentenza d’appello abbia ritenuto che le opere in oggetto fossero state eseguite prima della consegna dell’immobile. Si tratta di un’affermazione (v. pag. 5 sent. impugnata) che la Corte d’appello si è limitata a riportare quale tesi espressa dalla parte appellata, allorchè quest’ultima ebbe a contestare la qualificazione in senso possessorio del godimento dell’immobile da parte del C. In ogni caso si tratta di affermazione di carattere meramente avversativo e contenuta all’interno di un obiter dictum, tale essendo l’affermazione che “peraltro” il C. non aveva provato la dedotta qualità di possessore.

6.3.1. – Ciò puntualizzato per sola chiarezza nella ricostruzione delle ragioni della decisione impugnata, va osservato che l’indiscussa natura reale del contratto non determina alcuna contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, lì dove in essa si afferma la natura di comodato del rapporto fra le parti, nonostante i lavori fossero stati eseguiti prima della “consegna” dell’immobile affinchè il C. andasse ad abitarvi con la propria famiglia. Infatti, pacifica, in quanto rientrante nella cornice di riferimento comune alle parti così come ritenuta dal giudice d’appello, l’effettuazione dei lavori ad iniziativa, cura e spese dell’attore; e atteso che i beni immobili si consegnano in maniera simbolica (ad esempio mediante la rimessa delle chiavi o in altro modo che attesti la volontà di effettuarne la traditio), nel caso di specie la consegna della res e con essa la conclusione del contratto di comodato si è realizzata nel momento stesso in cui gli odierni resistenti ebbero a mettere il loro immobile a disposizione del C., affinchè questi vi effettuasse le opere necessarie a renderlo abitabile per sè e per la propria famiglia.

6,3.2, – Va da sè che la traditio del bene in virtù di un rapporto di carattere obbligatorio esclude in partenza ogni possibilità di configurazione del possesso, di talchè parte ricorrente non può invocare a proprio favore la presunzione di possesso di cui all’art. 1141 c.c., comma 1.

6.4. – L’assegnazione della casa coniugale ad un coniuge, in seguito alla separazione, non fa venir meno, in analogia a quanto dispone la L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 6, il contratto di comodato, di guisa che permane l’applicazione della relativa disciplina. Pertanto, se un genitore concede un immobile in comodato per l’abitazione della costituenda famiglia non è obbligato al rimborso delle spese, non necessarie nè urgenti, sostenute da un coniuge durante la convivenza familiare per la migliore sistemazione dell’abitazione coniugale (v.

Cass. n. 2407/98). Infatti, il comodatario il quale, al fine di utilizzare la cosa, debba affrontare spese di manutenzione anche straordinarie, può liberamente scegliere se provvedervi o meno, ma, se decide di affrontarle, lo fa nel suo esclusivo interesse e non può, conseguentemente, pretenderne il rimborso dal comodante (così, Cass. n. 15543/02).

6.5. – L’art. 1808 c.c. non distingue tra spese autorizzate e spese ad iniziativa del comodatario, ma fra spese sostenute per il godimento della cosa e spese straordinarie, necessarie ed urgenti affrontate per conservarla, con la conseguenza che l’eventuale autorizzazione del comodante non è in nessuno dei due casi discrimine per la ripetibilità degli esborsi effettuati dal comodatario.

6.6. – Non scalfita dalle censure di cui sopra la qualificazione giuridica in termini di comodato data al rapporto dalla sentenza impugnata, resta esclusa l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 936 c.c.. Infatti, al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti, nè sotto il profilo dell’art. 1150 c.c., perche egli non è possessore, nè sotto quello dell’art. 936 c.c., perchè non è terzo anche quando agisce oltre i limiti del contratto, nè infine sotto quello dell’art. 1595 c.c., in via di richiamo analogico, perchè un’indennità per i miglioramenti è negata anche al locatario la cui posizione è molto simile a quella comodatario. Deve riconoscersi al comodatario soltanto l’ius tollendi per le addizioni (Cass. nn. 1575/63,7923/92).

6.6.1. – Nella specie si trattava di spese soggettivamente necessarie e urgenti, mentre la norma fa riferimento implicitamente a spese per la conservazione del bene, e dunque a una necessità e urgenza di tipo oggettivo, per evitare o la perdita della res o danni a terzi.

6.6.2. – E a fronte della genericità dell’allegazione di parte ricorrente, non è neppure censurabile la mancata nomina di un c.t.u. da parte del giudice di merito per meglio chiarire e distinguere quali interventi, tra quelli posti in essere, fossero necessari per sopperire allo stato di degrado dell’immobile e quali, invece, fossero funzionali alla sua trasformazione abitativa.

6.7. – Infine, anche l’ultima censura, mirante a negare l’esistenza di una giusta causa di arricchimento allo scopo di fondare l’azione di cui all’art. 2041 c.c., è destituita di pregio, sebbene per ragioni diverse da quelle espresse nella sentenza impugnata, che dichiarandola infondata per difetto di una giusta causa di arricchimento, ne ha implicitamente ammesso l’astratta esercitabilità nella fattispecie.

6.7.1. – Il requisito di sussidiarietà evocato dalla rubrica dell’art. 2041 c.c., (e del tutto pacifico sia in dottrina che in giurisprudenza), non predica che detta azione possa essere esperita in alternativa subordinata a quella contrattuale per eluderne gli esiti sfavorevoli, ogni qual volta, cioè, quest’ultima, sebbene astrattamente configurabile, non consenta in concreto, per ragioni di fatto o di diritto, il recupero dell’utilità trasferita da una parte all’altra; ma al contrario sta a significare soltanto che tra soggetti fra loro terzi, per l’inesistenza o la nullità di un rapporto contrattuale, gli spostamenti patrimoniali non sorretti da giusta causa devono essere retrattati nei limiti del minor valore tra arricchimento a danno. Pertanto, tale azione non può essere riconosciuta in favore del comodatario per recuperare dal comodante spese che, a termini dell’art. 1808 c.c., comma 1, siano state giudicate irripetibili.

In tal senso, pertanto, s’impone l’esercizio del potere di correzione della motivazione della sentenza d’appello, in base all’art. 384 c.p.c..

7. – In conclusione il ricorso va respinto.

8. – Le spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali di studio, IVA e CPA come per legge.

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