cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 3 dicembre 2014, n. 50659

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENTILE Mario – Presidente
Dott. IANNELLI Enzo – Consigliere
Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere
Dott. CERVADORO Mirella – Consigliere
Dott. ALMA Marco Mari – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
– (OMISSIS), nato a (OMISSIS);

– (OMISSIS), nata a (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 1121 in data 18/7/2013 della Corte di Appello di Trieste;

visti gli atti, la sentenza e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere dr. Marco Maria ALMA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRATICELLI Mario, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso.

RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 18/7/2013 la Corte di Appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza resa all’esito di giudizio abbreviato del Tribunale di Udine in data 12/12/2011, ha assolto gli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS) dal reato di cui agli articoli 110 e 707 c.p. (capo 2 della rubrica delle imputazioni) limitatamente alla detenzione di una torcia perche’ il fatto non e’ previsto dalla legge come reato, ed ha confermato nel resto la sentenza del Giudice di prime cure con la quale entrambi gli imputati erano stati ritenuti responsabili dei reati di cui agli articoli 110, 56 e 633 c.p., (capo 1), articoli 110 e 707 c.p. (capo 2) – con riguardo ad una barra di ferro – e Legge n. 110 del 1975, articolo 4, (capo 3), accertati in (OMISSIS)) e – previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche valutate con giudizio di equivalenza sulla contestata recidiva, unificati i fatti sotto il vincolo della continuazione ed applicata la riduzione per il rito – condannati il (OMISSIS) alla pena di mesi 1 e giorni 10 di reclusione e la (OMISSIS) alla pena di mesi 1 e giorni 20 di reclusione.
Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza e con separati atti gli imputati personalmente, deducendo:
1. Il (OMISSIS):
Violazione degli articoli 56 e 633 c.p., e dell’articolo 192 c.p.p., in relazione all’articolo 606 c.p.p., lettera b), c) ed e).
Rileva, al riguardo, il ricorrente che l’immobile nel quale lui e la coimputata avrebbero cercato di introdursi e’ da molti anni ininterrottamente abbandonato ed inutilizzato, composto da locali vuoti, dismessi ed in rovina.
Non e’ emerso che il ricorrente avesse in animo di occupare il locale in modo stabile e permanente, risultando, invece ed in assenza di prove di diverso tenore la precarieta’ dell’introduzione e l’occasionalita’ dell’utilizzo. Sarebbe pertanto incongrua ed illogica la motivazione della sentenza impugnata che evidenzia come i Giudici territoriali hanno tratto il convincimento di una volonta’ di stabile occupazione dell’immobile per la presenza all’interno dello stesso di un giaciglio di fortuna che peraltro non risulta collocato dagli imputati, in quali non risultano mai essere entrati in precedenza nel medesimo immobile, ne’ avere avuto con loro beni (es. coperte, suppellettili od altro) che potessero indicare la loro volonta’ di permanervi in maniera piu’ che temporanea ed occasionale.
2. La (OMISSIS):
2.a Erronea applicazione della legge penale per avere ritenuto i Giudici del merito ritenuto configurabile il reato di cui agli articoli 56 e 633 c.p., sia sotto il profilo materiale che quello psicologico, pur in assenza di una condotta idonea a concretizzare l’ipotesi delittuosa de qua, non potendosi desumere la protrazione nel tempo della permanenza degli imputati presso l’immobile ove cercarono di introdursi.
2.b Manifesta illogicita’ e contraddittorieta’ della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto configurato in capo alla ricorrente sia il reato di cui agli articoli 110, 56 e 633 c.p., sia quello di cui all’articolo 707 c.p., posto che appare inverosimile la versione dei fatti fornita dal (OMISSIS) nel momento in cui ha affermato che fu la ricorrente a raccogliere da terra la barra in ferro oltre al fatto che non risulta provato da elementi univoci che detta barra fu utilizzata in occasione della consumazione del reato di cui al capo 1) della rubrica delle imputazioni (il tentativo di occupazione dell’immobile – ndr.).
2.c Manifesta illogicita’ e contraddittorieta’ della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale non ha ritenuto assorbito il reato di cui al capo 3) della rubrica delle imputazioni (Legge n. 110 del 1975, articolo 4) in quello di cui al capo 2) (articolo 707 c.p.) avendo affermato, con tesi fatta propria da quella del primo Giudice, che il possesso del taglierino da parte della ricorrente era funzionale ai suoi propositi di scasso senza peraltro ricondurre il possesso del taglierino ad uno degli strumenti indicati dall’articolo 707 c.p..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Le questioni poste nel ricorso dell’imputato (OMISSIS) e quelle di cui al punto 2.a del ricorso della (OMISSIS) appaiono meritevoli di una trattazione unitaria, investendo sostanzialmente la medesima problematica.
Dette questioni risultano essere gia’ state sollevate dagli imputati in sede di gravame proposto avverso la sentenza del Giudice di prime cure il quale ha evidenziato alcuni elementi che ha ritenuto significativi per la configurabilita’ del reato di cui agli articoli 110, 56 e 633 c.p., quali:
a) la presenza all’interno dell’immobile di un letto ad una piazza con materasso;
b) il fatto che la (OMISSIS) (come confermato dal (OMISSIS)) era gia’ stata all’interno dell’immobile stesso;
c) il fatto che la (OMISSIS) era sprovvista di una stabile dimora.
Il ricorso di entrambi gli imputati sul punto e’ fondato.
Come e’ noto, l’elemento materiale del reato di cui all’articolo 633 c.p., e’ costituito dall’arbitraria invasione di terreni o edifici, mentre l’elemento soggettivo (dolo specifico) consiste nel fine di occuparli o trarre altrimenti profitto.
In ordine al concetto di arbitraria invasione, sia la giurisprudenza che la stessa dottrina, sono concordi nel ritenere che il termine “invasione” non va inteso in senso etimologico e cioe’ come azione tumultuosa e violenta compiuta da piu’ persone sulla totalita’ del bene, essendo, al contrario, sufficiente che l’accesso o la penetrazione arbitraria nel fondo o nell’edificio altrui siano effettuati al fine di immettersi (arbitrariamente, quindi, illegittimamente) nel possesso o trarre un qualunque profitto.
Partendo da tale nozione, si e’ concluso che non ogni turbativa del possesso comporta un’invasione, “ma soltanto quella che realizzi un apprezzabile depauperamento delle facolta’ di godimento del terreno o dell’edificio da parte del titolare dello ius excludendi, secondo quella che e’ la destinazione economico sociale del bene o quella specifica ad essa impressa dal dominus” (cfr. ex ceteris: Cass. Sez. 2, sent. n. 31811 del 08/05/2012, dep. 06/08/2012, Rv. 254330).
Corollario di tale nozione e’, pero’, un altro elemento che, sebbene non espresso nella norma, deve ritenersi in essa implicito e che consiste nel fatto che la permanenza nel terreno o nell’edificio non deve avere carattere momentaneo ma, al contrario, un’apprezzabile durata perche’ solo tale ulteriore elemento consente, poi, di evidenziare il dolo specifico dell’agente, ossia la volonta’ di occuparli o trarre altrimenti profitto, comportamenti questi (occupazione – approfittamento) che presuppongono, appunto, una stabile ed apprezzabile insistenza fisica dell’agente sul bene altrui (Cass. 2253/1969 Rv. 115239 – Cass. 5603/1976 Rv. 135748 – Cass. 42786/2008).
La ratio della norma, infatti, consiste nel reprimere quei comportamenti idonei a pregiudicare la libera disponibilita’ del fondo o dell’edificio da parte del proprietario o del legittimo possessore e, quindi, nella tutela della proprieta’ e del possesso.
Non a caso, come si evince dalla Relazione al codice penale, il reato di invasione di cui all’articolo 633 c.p., e’ stato mutuato dal Decreto Legge n. 515 del 1920, articolo 9 – trasfuso poi nel Regio Decreto n. 2047 del 1921, articolo 36 – che era stato introdotto proprio per far fronte al dilagante fenomeno delle occupazioni di terre che avvenivano alla fine della prima guerra mondiale.
La suddetta ratio, impone, pero’, di soffermarsi sul requisito (implicito) della permanenza di apprezzabile durata.
Va, infatti, osservato che il requisito dell’apprezzabile durata puo’ essere desunto non solo dalla permanenza fisica dell’agente nell’edificio, ma anche da elementi esterni che indichino la volonta’ dell’agente (pur non presente fisicamente nel bene o come nel caso di specie sorpreso nell’atto di entrare nello stesso) di volerlo occupare o trarre profitto (come ad es. il possesso di chiavi per l’accesso ovvero l’esecuzione di opere od il collocamento di beni che rivelino l’intenzione di permanere nell’immobile).
Cio’ significa che non sempre e non necessariamente per la configurabilita’ del reato di invasione di terreni o edifici, occorre che l’agente rimanga stabilmente su di essi, ben potendo essere ugualmente ravvisabile il suddetto reato ove la svolta istruttoria evidenzi elementi fattuali tali dai quali si possa desumere che l’agente abbia posto in essere quel comportamento (l’invasione od il tentativo di essa) con il deliberato fine di occupare o trarre profitto dall’immobile.
La questione relativa alla configurabilita’ del reato diviene ancora piu’ problematica nel momento in cui, come nel caso che in questa sede ci occupa, la condotta si e’ arrestata al mero livello di tentativo in quanto, in assenza di una occupazione protrattasi per un apprezzabile lasso di tempo, l’elemento indicatore del dolo specifico (il fine di “occupare” l’immobile o di trarre profitto) deve essere probatoriamente desunto da elementi ulteriori che univocamente consentano di ravvisarlo.
Rimane, ovviamente, aperto il secondo aspetto che puo’ caratterizzare l’elemento psicologico del reato di cui all’articolo 633 c.p., e cioe’ quello, posto in alternativa nel dettato normativo, invadere arbitrariamente l’edificio al fine di “trarre altrimenti profitto”.
Nella giurisprudenza di questa Corte Suprema si e’ sostenuto che l’elemento psicologico del reato de qua, caratterizzato dal dolo specifico del fine “trarre altrimenti profitto”, non richiede per la sua sussistenza che il profitto propostosi dall’agente sia strettamente patrimoniale e direttamente realizzabile con l’invasione e puo’ consistere anche nell’intento di un uso strumentale della stessa (cfr. Cass. Sez. 2, sent. n. 8107 del 30/05/2000, dep. 07/07/2000, Rv. 21652), pur tuttavia ritiene l’odierno Collegio che detto concetto non possa essere esteso a tal punto da ricomprendervi qualsivoglia vantaggio comunque connesso al possesso e godimento dell’immobile invaso.
Cio’, in accordo con l’orientamento piu’ rigoroso assunto anche da una parte della dottrina secondo il quale l’interpretazione letterale della norma (il dettato della quale recita testualmente “… al fine di occupare l’immobile o trarne altrimenti profitto”) e l’uso della particella “NE” e dell’avverbio “altrimenti” dovrebbero sottendere una nozione di profitto necessariamente ancorata al bene oggetto di invasione, con la conseguenza di qualificarlo come sinonimo di utilita’ da ricondurre al possesso o godimento (comunque per un’apprezzabile lasso di tempo) dell’immobile da quale dovrebbero quindi esulare le varie tipologie di profitto di carattere indiretto e non economico quali anche quelle di un uso temporalmente limitatissimo dell’immobile (ad es. per di farvi una doccia o di consumarvi un fugace rapporto sessuale).
Nel caso che in questa sede ci occupa occorreva quindi verificare che gli imputati, con la loro azione (tentativo poi abortito di forzatura della porta di ingresso nell’immobile) si prefiggevano di dare inizio ad un possesso dello stesso che non fosse meramente transitorio od occasionale (come detto quello di farvi una doccia, di consumarvi un rapporto sessuale, ovvero di trascorrervi semplicemente una notte) ma finalizzato a spogliarne il titolare dello ius excludendi per un apprezzabile lasso di tempo.
Quanto appena detto, porta, quindi, alla conclusione che il criterio temporale diventa decisivo al fine di stabilire la configurabilita’ o meno del reato di cui all’articolo 633 c.p., allorquando nessun altro elemento processuale indichi quale fosse il dolo dell’agente.
Ora, nel caso in esame, gli imputati non erano certo in possesso delle chiavi dell’immobile (tanto e’ vero che hanno cercato di forzarne l’uscio), all’interno dello stesso non risulta rinvenuto alcun bene che fosse direttamente riconducibile ad essi o che ne comprovasse una permanente occupazione in tempi passati e la circostanza che la (OMISSIS) fosse all’epoca dei fatti priva di stabile dimora non e’ certo elemento indicativo del fatto che la stessa (unitamente al coimputato (OMISSIS)) abbia agito col fine di occupare l’immobile.
La presenza di un letto (ad una piazza) collocato all’interno dell’immobile ed il fatto che la (OMISSIS) fosse a conoscenza dell’esistenza dello stesso non rappresentano a loro volta elementi univoci per la configurabilita’ del reato in contestazione ad entrambi gli imputati ed il ragionamento della Corte territoriale sul punto non appare quindi caratterizzato da logicita’, in quanto anche dando per scontato che la (OMISSIS) fosse a conoscenza della presenza del letto, cio’ non significa che fosse stata la stessa a collocarlo in loco e, anzi, appare logico ipotizzare il contrario in quanto se l’imputata aveva gia’ avuto la possibilita’ di “occupare” nel passato l’immobile oltretutto collocandovi un bene di proprieta’ all’evidenza sarebbe stata in possesso di strumenti che le facilitavano l’ingresso nello stesso e non avrebbe avuto bisogno di cercare di forzare la serratura della porta di accesso.
Alla luce di quanto detto la sentenza impugnata risulta viziata ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), non essendo configurabile in atti l’ipotizzato reato di cui agli articoli 110, 56 e 633 c.p., mentre l’azione descritta ben avrebbe potuto qualificarsi come violazione degli articoli 110, 56 e 614 c.p..
Non e’ tuttavia possibile procedere ne’ alla riqualificazione diretta del fatto da parte di questa Corte Suprema stanti i limiti derivanti dalle pronunce della Corte di Strasburgo sul punto ed in relazione all’articolo 6 della CEDU, ne’ disporre un annullamento con rinvio della sentenza impugnata ai fini di contestazione agli imputati di tale reato essendo lo stesso indubbiamente piu’ grave di quello di cui agli articoli 110, 56 e 633 c.p., per il quale si e’ proceduto e comportando l’eventuale condanna per i medesimi fatti (ancorche’ diversamente qualificati) una reformatio in peius della decisione assunta, non possibile stante l’assenza di impugnazione da parte del Pubblico Ministero.
Detta situazione determina la necessita’ di disporre l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di entrambi gli imputati ed in relazione al reato di cui agli articoli 110, 56 e 633 c.p. (capo 1 della rubrica delle imputazioni) perche’ il fatto non sussiste.
2. Manifestamente infondato oltre che assolutamente generico e’, invece, il motivo di ricorso formulato dall’imputata (OMISSIS) cosi’ come sopra riassunto al punto 2.b nella parte relativa alla contestata detenzione della barra in ferro (atteso che la restante parte del motivo di ricorso risulta assorbita nella decisione di cui si e’ detto pocanzi con riguardo al reato di cui agli articoli 110, 56 e 633 c.p.).
La Corte territoriale con una motivazione congrua, logica e non contraddittoria ha evidenziato gli elementi fattuali dai quali si evince che l’imputata ha avuto la disponibilita’ della barra di metallo in contestazione.
La ricorrente, per contro, tenta di prospettare una ricostruzione alternativa dei fatti che non e’ ammissibile in sede di legittimita’.
In ogni caso il fatto che la barra in ferro sia stata (anche) utilizzata o meno per il compimento del tentativo di effrazione dell’uscio dell’appartamento di cui al capo 1) della rubrica delle imputazioni, non assume rilievo per la configurabilita’ del contestato reato di cui all’articolo 707 c.p..
3. Da ultimo, anche il terzo motivo di ricorso formulato dall’imputata (OMISSIS) cosi’ come sopra riassunto al punto 2.c risulta manifestamente infondato.
La Corte territoriale, al riguardo, nel ritenere non assorbito il fatto del porto del taglierino rinvenuto nella borsetta dalla (OMISSIS) nel reato di cui all’articolo 707 c.p., ha fatto buon governo del principio giurisprudenziale enunciato da questa Corte Suprema ed al quale anche l’odierno Collegio ritiene di aderire, secondo cui “il porto ingiustificato di un coltellino a serramanico (nella specie, di lunghezza pari a cm. 9 di cui cm. 4 di lama), se puo’ rilevare sotto il profilo della contravvenzione Legge n. 110 del 1975, ex articolo 4, non puo’ invece essere fatto rientrare nella condotta sanzionata dall’articolo 707 c.p., non essendo tale oggetto ne’ una “chiave alterata” ne’ “uno strumento atto ad aprire o forzare serrature” (Cass. Sez. 2, sent. n. 26289 del 06/07/2010, dep. 09/07/2010, Rv. 247753), principio questo certamente applicabile anche ad arma analoga quale e’ il taglierino de qua che, oltretutto non e’ emerso che sia stato utilizzato nel tentativo di effrazione della porta di ingresso dell’immobile.
Il fatto che i motivi di ricorso proposti da (OMISSIS) relativi ai reati oggetto di contestazione ai capi 2) e 3) della rubrica delle imputazioni sono manifestamente infondati, comporta che la pronuncia sulla condanna in relazione a detti capi diviene irrevocabile con la presente decisione in relazione al gia’ avvenuto accertamento dei fatti-reato e della responsabilita’ penale in ordine agli stessi sia della ricorrente (OMISSIS) che di (OMISSIS) (il quale non ha presentato ricorso sul punto).
Deve tuttavia disporsi il rinvio degli atti alla Corte di Appello di Trieste affinche’ provveda alla rideterminazione della pena in relazione a tali reati nei confronti di entrambi gli imputati non potendo questa Corte Suprema procedervi direttamente.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo 1 perche’ il fatto non sussiste e rinvia alla Corte di Appello di Trieste per la rideterminazione della pena in ordine ai restanti reati.

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