Cassazione 10

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 20 ottobre 2015, n. 41974

Ritenuto in fatto

G.A. veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 348 cod. pen.. per aver esercitato la professione di avvocato quale difensore di fiducia di P.E. nel procedimento penale n. 1307/06 sino alla fase dell’udienza preliminare avanti al Tribunale di Saluzzo, nonostante il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Asti avesse respinto la sua istanza di iscrizione all’Albo degli avvocati, provvedimento confermato dal Consiglio Nazionale Forense: fatto contestato come commesso in (OMISSIS) .

Con sentenza in data 24.05.2011, il Tribunale di Saluzzo, in composizione monocratica, dichiarava l’imputato responsabile del reato ascrittogli, condannandolo alla pena di mesi cinque di reclusione e all’interdizione dall’esercizio della professione forense per la durata di mesi cinque.

Avverso detta sentenza, G.A. proponeva appello; con sentenza in data 30.04.2012, la Corte d’appello di Torino, respingendo il gravame, confermava la pronuncia di primo grado.

Nei confronti di quest’ultima sentenza, G.A. propone ricorso per cassazione; con sentenza in data 29.10.2013, la Suprema Corte, sesta sezione penale, accogliendo il primo motivo di ricorso in merito ad una dedotta nullità processuale, annullava la sentenza impugnata rinviando gli atti ad altra sezione della Corte d’appello di Torino per nuovo giudizio.

Con sentenza in data 15.10.2014, la Corte d’appello di Torino, previa esclusione della recidiva, rideterminava la pena inflitta al G. in mesi quattro di reclusione, riducendo a mesi quattro la pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione forense e disponendo la sostituzione della pena detentiva nella corrispondente pena della multa nell’importo di Euro 4.560,00.

Avverso detta pronuncia, viene proposto da G.A. ricorso per cassazione per i seguenti motivi:

– violazione dell’art. 606 lett. b) e/o c) e/o e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 521 e/o 522 cod. proc. pen. e/o in relazione all’art. 6 par. 3 CEDU e/o in relazione all’art. 111 comma 3 Cost., per avere la Corte d’appello pronunciato condanna su di un fatto non ricompreso nel capo d’imputazione in relazione alla declaratoria di colpevolezza fondata sul verbale d’udienza 27 maggio 2008, con conseguente nullità della sentenza (primo motivo): si assume, in particolare, che sia il decreto di citazione in appello che la sentenza indicavano la condotta – istantanea – come commessa solo in data 01.07.2008, con conseguente necessità di limitare la ricorrenza del reato solo con riferimento all’attività verificatasi solo in quella data;

– violazione dell’art. 606 lett. b) e/o c) e/o e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 348 cod. pen., per mancanza e/o contraddittorietà e/o falsità e/o apparenza e/o illogicità e/o incompletezza e/o genericità della motivazione e/o travisamento dei fatti e/o del materiale probatorio in relazione alla declaratoria di colpevolezza per la fattispecie contestata, per l’assenza dell’elemento soggettivo e/o oggettivo del reato in oggetto; e/o per violazione dell’art. 49 comma 2 cod. pen. per l’inidoneità del fatto e/o della condotta alla consunzione dell’elemento oggettivo del reato (secondo motivo): si assume, in particolare, come nella fattispecie non vi sia stata alcuna ‘attività’ costituente ‘esercizio abusivo’ punito dalla norma penale e/o che non vi fosse stata la prova che l’attività in parola fosse riferita al ricorrente;

– violazione dell’art. 606 lett. b) e/o c) e/o e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 348 cod. pen., per mancanza e/o contraddittorietà e/o falsità e/o apparenza e/o illogicità e/o incompletezza e/o genericità della motivazione e/o travisamento dei fatti e/o del materiale probatorio in relazione alla declaratoria di colpevolezza per la fattispecie contestata, per l’assenza dell’elemento soggettivo e/o oggettivo del reato in oggetto; e/o per violazione dell’art. 49 comma 2 cod. pen. per l’inidoneità del fatto e/o della condotta alla consunzione dell’elemento oggettivo del reato (terzo motivo): si assume, in particolare, che quand’anche si ritenesse che vi fosse stata attività forense da parte del ricorrente, nondimeno questa – ex art. 49, comma 2 cod. pen. – non sarebbe idonea a configurare la fattispecie contestata, non essendovi prova che il ricorrente stesse esercitando un ‘mandato difensivo’ (almeno formalmente, quando non sostanzialmente) riferibile al soggetto (P.E. ) in favore del quale tale attività abusiva sarebbe stata esercitata;

– violazione dell’art. 606 lett. b) e/o c) e/o e) cod. proc. pen. in relazione alla condanna all’interdizione dall’esercizio della professione forense per mesi quattro per omessa e/o apparente e/o carente e/o erronea e/o falsa e/o insufficiente e/o illogica e/o generica motivazione e/o travisamento dei fatti e/o violazione dell’art. 546, comma 1 lett. e) e 3 cod. proc. pen. e/o in relazione all’art. 125, comma 3 cod. proc. pen. e/o in relazione all’art. 58, comma 1 l. 689/1981 e/o in relazione all’art. 133 cod. pen. in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’applicabilità e/o per erronea applicazione della legge penale in quanto ineseguibile qualora si ritenga il ricorrente non iscritto all’albo degli avvocati (quarto motivo): si evidenzia, in particolare, come l’art. 348 cod. pen., comportando un esercizio abusivo (e, quindi, senza abilitazione) e non un esercizio per uno scopo diverso da quello rispetto al quale l’abilitazione è strumentale (il che ovviamente richiede un’abilitazione), non rientra nella sfera dei delitti cui è applicabile tale sanzione;

– violazione dell’art. 606 lett. b) e/o c) e/o e) cod. proc. pen. in relazione alla valutazione dell’intensità del dolo e/o la natura delle circostanze oggettive dei fatti ex art. 70 cod. pen. in relazione all’art. 132 cod. pen. e/o in relazione all’art. 133 cod. pen. e/o in relazione all’art. 62 bis cod. pen. e/o in relazione all’art. 69, comma 2 prima parte e/o comma 4 cod. pen. e/o in relazione all’art. 533, comma 2 cod. proc. pen. e/o in relazione all’art. 73, comma 1 cod. pen. e/o in relazione all’art. 61, n. 2 e/o 5 cod. pen. e/o 24, comma 2 Cost. e/o all’art. 597, comma 4 cod. proc. pen. e/o in relazione all’art. 58, comma 1 l. 689/1981 per quanto concerne la gradazione della pena in relazione ai fatti tutti oggetto di imputazione, e/o mancanza e/o erroneità e/o apparenza e/o insufficienza e/o falsità e/o carenza e/o illogicità della motivazione e/o travisamento dei fatti sul punto (quinto motivo); in particolare, il ricorrente evidenzia l’errore nella determinazione della pena e nella mancata concessione delle richieste circostanze attenuanti generiche; inoltre, evidenzia l’illogicità della decisione che concede una misura premiale quale la conversione della pena e contemporaneamente commina una pena accessoria che presuppone una valutazione di particolare pericolosità del condannato.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile per difetto di specificità oltre che per manifesta infondatezza.

Va affermato in premessa come, con motivazione logica e congrua – e quindi immune dai denunciati vizi di legittimità – la Corte territoriale abbia dato conto degli elementi che l’hanno portata ad affermare la penale responsabilità dell’imputato.

Manifestamente infondato è il primo motivo di censura. Con lo stesso, si denuncia l’illegittimità della sentenza impugnata per aver pronunciato condanna su di un fatto non ricompreso nel capo d’imputazione in relazione alla declaratoria di colpevolezza fondata sul verbale d’udienza 27 maggio 2008, con conseguente nullità della sentenza (primo motivo).

Evidenzia il Collegio come la condotta in imputazione viene contestata, sin dall’inizio, come commessa in Saluzzo sino alla data del 1 luglio 2008 (v. intestazione della sentenza di primo grado), comprensiva delle reiterate condotte poste in essere nelle date del 08.05.2008, del 27.05.2008 e del 01.07.2008: di tal che, l’indicazione della sola data finale – riportata nell’epigrafe della sentenza di secondo grado – dell’1.7.2008, appare frutto di mero errore materiale, pienamente emendabile, non essendo rimasta incerta la commissione di più condotte e le date di loro realizzazione e non potendosi in alcun modo ritenere che il prospettato mero errore materiale abbia determinato una violazione dei diritti di difesa.

Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (Sez. U, sent. n. 11545 del 15/12/2011, Cani), il concetto di esercizio professionale contiene in sé un tendenziale tratto di abitualità, da cui è corretto prescindere a fronte di atti che l’ordinamento riservi come tali, nell’interesse generale, a chi sia in possesso di una speciale abilitazione, onde, in questi casi, il reato di cui all’art. 348 cod. pen. si perfeziona anche attraverso un unico atto tipico della professione abusivamente esercitata non richiedendosi un’attività continuativa od organizzata (cfr., Sez. 6, sent. n. 11493 del 21/10/2013, dep. 10/03/2014, Tosto, Rv. 259490, fattispecie in tema di esercizio abusivo della professione di avvocato, nella quale la Corte ha ritenuto irrilevante la circostanza che la ricorrente avesse trattato un’unica pratica giudiziaria). Ma il requisito dell’abitualità va recuperato laddove vengano posti in essere, come nel caso in disamina, più atti riservati a chi sia in possesso della prescritta abilitazione. In questi casi, si risponde comunque di un unico reato e non di una pluralità di reati, avvinti dal vincolo della continuazione. In altri termini, il delitto di cui all’art. 348 cod. pen., ha natura di reato eventualmente abituale: ove si tratti di atto attribuito in via esclusiva al soggetto regolarmente abilitato è rilevante, per l’integrazione degli estremi del reato, anche il compimento di un solo atto di esercizio abusivo della professione e quest’ultimo segna il momento consumativo del delitto; ma, la reiterazione degli atti tipici da pur sempre luogo ad un unico reato, il cui momento consumativo coincide con l’ultimo atto e, dunque, con la cessazione della condotta. Nel caso in disamina, l’ultimo atto, autonomamente integrante il reato in contestazione, è stato compiuto il 01.07.2008, come da contestazione formale, onde il delitto in parola deve considerarsi consumato in tale data.

Inammissibile è il secondo motivo di censura. Trattasi di doglianza che – con una prospettazione grafica che si reitera in alcuni successivi motivi di gravame – denuncia, in termini non consentiti, vizi di motivazione in forma alternativa o perplessa (cfr., ex plurimis, Sez. 2, sent. n. 31811 del 08/05/2012, dep. 06/08/2012, Sardo e altro, Rv. 254329).

4.1. Va in proposito sempre tenuto presente che, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte in realtà estremamente circoscritto. Al giudice di legittimità, infatti, compete solo verificare che la ricostruzione probatoria cui è pervenuto il giudice del merito sia sorretta da motivazione né inesistente né apparente, e caratterizzata da un percorso argomentativo che non risulti ‘manifestamente’ illogico o insuperabilmente contraddittorio, intrinsecamente – all’interno quindi della stessa motivazione – ovvero rispetto ad un elemento di prova esistente ma ignorato o inesistente ma dato invece per presente, quando, e solo se, proprio tale elemento sia, per sé, autonomamente idoneo a destrutturare l’intera ricostruzione.

Si tratta, quindi, di limiti estremamente rigidi, cui corrispondono oneri di peculiare specificità dei motivi di impugnazione. Ben può, in proposito, parlarsi di una ‘duplice specificità’ del motivo di ricorso per cassazione, giacché a quella – comune – di cui all’art. 581 cod. proc. pen., lett. e) si affianca ed aggiunge quella di cui all’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, ed alla lettera c), in particolare per quanto attiene ai vizi della motivazione. Tale duplice specificità impone, pertanto, che il motivo di ricorso non solo indichi specificamente le ragioni e gli elementi che sorreggono ogni richiesta (ex art. 581 cod. proc. pen.) ma, pure, svolga deduzioni specifiche pertinenti e proprie al vizio peculiare fatto valere, quindi innanzitutto con esclusione di alcuna prospettazione perplessa o genericamente alternativa. Questa Corte ha, infatti, più volte ricordato che, proprio la prospettazione perplessa o alternativa generica dei motivi, così come il richiamo altrettanto generico alla ‘illogicità’ (che è tipologia di vizio differente rispetto a quella, certo più ristretta rigorosa e peculiare, della ‘manifesta’ illogicità, unica che rileva ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), costituisce indice della genericità delle doglianze (cfr., Sez. 6, sent. n. 32227 del 16/07/2010, dep. 23/08/2010, T., Rv. 248037).

Da tali limiti esula del tutto la possibilità di verificare l’intrinseca adeguatezza e persuasività delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o la ‘rilettura’ degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata. In particolare, non può integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, sent. n. 6402 del 30/04/1997, dep. 02/07/1997, Dessimone e altri). La Suprema Corte non può, pertanto, sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma può, e deve, solo saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione (Sez. U, sent. n. 12 del 31/05/2000, dep. 23/06/2000, Jakani): ciò, perché, nel momento del controllo della motivazione, il giudice di legittimità non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, o se sia la più persuasiva, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se la giustificazione contenuta nella sentenza impugnata non sia solo apparente, sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Sez. 4, sent. n. 4842 del 02/12/2003, dep. 06/02/2004), sia immune dai due soli vizi residui che, come ricordato, qui rilevano: la ‘manifesta’ illogicità e la contraddittorietà (che, per contro, debbono appunto essere oggetto di specifica e stringente deduzione difensiva, consona alla peculiarità del vizio e quindi caratterizzata dall’indicazione del punto della motivazione in cui il vizio si sarebbe verificato, con assoluta autonomia rispetto al vizio di mancanza di motivazione, pena l’inammissibilità del ricorso). Né la novella codicistica introdotta con la L. n. 46 del 2006, ammettendo l’indagine extratestuale per la rilevazione della manifesta illogicità e della contraddittorietà della motivazione, ha modificato la natura del sindacato della Suprema Corte, sicché, per la rilevazione di tale peculiare tipologia di vizio della motivazione, occorre che gli elementi probatori (omessi, inesistenti o travisati) indicati in ricorso siano decisivi e dotati di una forza esplicativa tale da vanificare l’intero ragionamento del giudice del merito (Sez. 3, sent. n. 37006 del 27/09/2006, dep. 09/11/2006, Piras, Rv. 235508).

4.2. Fermo quanto precede, evidenzia il Collegio come, nella fattispecie, si sia in presenza di censure in parte perplesse (nel senso oggettivo del cumulo di prospettazioni classificatorie a fronte dell’unicità delle deduzioni singolarmente svolte) ed in parte diverse da quelle consentite anche già solo sul piano della collocazione sistematica proposta, avendo il ricorrente denunciato mancanza e/o contraddittorietà e/o falsità e/o apparenza e/o illogicità e/o incompletezza e/o genericità della motivazione e/o travisamento dei fatti e/o del materiale probatorio.

Se è pur vero che non sempre ci si può fermare al mero dato formale classificatorio, tuttavia lo stesso è, appunto, di per sé indice della verosimile natura di merito del complesso delle censure concretamente prospettate.

4.3. Sebbene il rilievo – decisivo ed assorbente – che precede può esonerare da ogni altra valutazione di merito, il Collegio non può non evidenziare come, in relazione alla fattispecie in contestazione, la sentenza impugnata risulti del tutto congrua e giustificata con riferimento sia all’elemento oggettivo che a quello soggettivo del reato, avendo riconosciuto come fosse emerso che ‘G.A. , nel corso dell’anno 2008, esercitò la professione di avvocato assumendo la difesa di P.E. nell’ambito del procedimento penale rubricato al n. 1307/06 R.N.R. svoltosi innanzi al giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Saluzzo, dr. F.F. , partecipando alle udienze dell’08.05.2008, del 27.05.2008 e del 01.07.2008, ove compare quale avvocato appartenente al Foro di Asti. Dalla disamina della dichiarazione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Asti si evince che l’imputato fu cancellato dal Registro dei Praticanti Abilitati in data 21.04.2004, rimanendo iscritto nell’Albo dei Praticanti Semplici (ndr., praticanti senza patrocinio), che la domanda dell’imputato per l’iscrizione all’Albo degli Avvocati fu respinta dal Consiglio in data 18-19.01.2007 (provvedimento confermato dal CNF), che in data 28.01.2008 il dr. G. presentò istanza di revoca del provvedimento di diniego di iscrizione all’Ordine degli Avvocati di Asti respinta dal Consiglio con deliberazione del 09.04.2008 (con la quale era disposta la cancellazione del medesimo dal Registro dei Praticanti Semplici), che in data 05.05.2008 il dr. G. depositò ricorso al CNF avverso i suddetti provvedimenti’. Da qui la conclusione: “le risultanze probatorie dimostrano, pacificamente, che G.A. , senza essere in possesso del necessario titolo abilitativo, senza essere munito della necessaria abilitazione e, ovviamente, senza essere iscritto all’albo professionale, ha esercitato abusivamente la professione di avvocato, assumendo la difesa di un imputato in sede di diverse udienze preliminari tenutesi innanzi al giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Saluzzo’.

Come detto, anche in ordine all’elemento soggettivo del reato, la Corte d’appello fornisce adeguata motivazione ricordando la sufficienza del dolo generico, con irrilevanza dello scopo di lucro perseguito dall’agente così come di altri moventi di carattere privato ed affermando come non possa porsi in dubbio che l’imputato, anche alla luce delle proprie conoscenze giuridiche connesse al pregresso conseguimento di una laurea in giurisprudenza, avesse precisa consapevolezza di porre in essere quell’attività vietata in quanto non in possesso di idoneo titolo abilitativo per il relativo svolgimento.

Inammissibile è il terzo motivo di censura.

Richiamate e ribadite tutte le valutazioni testé esposte nei paragrafi 4., 4.1., 4.2. e 4.3. del considerato in diritto con riferimento alla prospettazione in forma alternativa o perplessa, rileva il Collegio come la doglianza in parola si appalesi anche manifestamente infondata. Assume, in modo che non può non ritenersi contraddittorio, che, quand’anche si ritenesse che vi fosse stata attività forense da parte del ricorrente, nondimeno questa – ex art. 49, comma 2 cod. pen. – non sarebbe idonea a configurare la fattispecie contestata, non essendovi prova che il ricorrente stesse esercitando un ‘mandato difensivo’ (almeno formalmente, quando non sostanzialmente) riferibile al soggetto (P.E. ) in favore del quale tale attività abusiva sarebbe stata esercitata.

5.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato la condotta di chi, conseguita l’abilitazione statale, eserciti l’attività professionale prima di aver ottenuto l’iscrizione all’albo professionale (cfr., Sez. 6, sent. n. 27440 del 19/01/2011, dep. 13/07/2011, Sgambati, Rv. 250531). Tale interpretazione ha ricevuto recentemente l’avallo delle sezioni unite (v. Sez. U, sent. n. 11545 del 15/12/2011, dep. 23703/2012, Cani, Rv. 251819: ‘…La norma incriminatrice dell’art. 348 cod. pen., che punisce chi ‘abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato’, trova la propria ratio nella necessità di tutelare l’interesse generale, di pertinenza della pubblica amministrazione, a che determinate professioni, richiedenti particolari requisiti di probità e competenza tecnica, vengano esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso delle qualità morali e culturali richieste dalla legge (in tal senso, testualmente, Sez. 6, sent. n. 1207 del 15/11/1982, Rossi, Rv. 167698). Il titolare dell’interesse protetto è, quindi, soltanto lo Stato, (…) Dalla ricognizione delle normative che prevedono e regolano le professioni soggette a speciale abilitazione dello Stato emerge, in via generale, che il conseguimento di tale titolo, da un lato, presuppone il possesso di altri pregressi titoli e, dall’altro, costituisce a sua volta il presupposto (principale ma non esclusivo) per la iscrizione in appositi albi (relativi ai laureati) o elenchi (diplomati), tenuti dai rispettivi ordini e collegi professionali (enti pubblici di autogoverno delle rispettive categorie, a carattere associativo e ad appartenenza necessaria): iscrizione che è configurata essa stessa come condizione per l’esercizio della professione. La abusività prevista dalla norma penale viene conseguentemente riconnessa, in pratica, alla mancanza della detta iscrizione’.

D’altronde, se l’iscrizione all’albo non fosse requisito essenziale per l’esercizio della professione legale, non configurerebbe il reato de quo la condotta di colui che continui ad esercitare la professione nonostante la intervenuta sospensione o radiazione dall’albo; ma anche tale interpretazione, oltre che scarsamente giustificabile sotto il profilo logico e normativo, si porrebbe ancora una volta in contrasto con i pregressi orientamenti di questa Corte (v. Sez. 6, sent. n. 33095 del 04/07/2003, dep. 05/08/2003, Longo, Rv. 226528).

5.2. Ciò premesso, non pare esservi dubbio sul fatto che esercita l’abusiva professione di avvocato chi, senza iscrizione nell’albo professionale, partecipi ad un’udienza davanti al giudice rappresentando una parte processuale, anche se materialmente si limiti ad un mero atto di presenza: nella fattispecie, all’udienza del 27.05.2008, il dr. G. , qualificato come avv. G. , risulta aver peraltro presentato anche un’istanza al giudice aderendo alla richiesta di altro difensore di concessione di termine a difesa, dimostrando ancora una volta, che la sua presenza in udienza non fosse parificabile a quella di un praticante avvocato – del resto smentita anche dall’assenza di un avvocato di riferimento nel ruolo, imposto dalla legge, di ‘precettore’ nella formazione dell’aspirante avvocato – bensì fosse finalizzata esclusivamente a svolgere l’attività difensiva tipica dell’avvocato abilitato.

Inammissibile è il quarto motivo di censura.

Anche in questo caso, vanno richiamate e ribadite tutte le valutazioni testé esposte nei paragrafi 4., 4.1., 4.2. e 4.3. del considerato in diritto con riferimento alla prospettazione in forma alternativa o perplessa.

6.1. Come si è visto, il G. , per ben tre volte nell’ambito della stessa fase procedimentale, è comparso in udienza davanti al giudice per rappresentare e difendere un imputato. Tale condotta, il ricorrente ha potuto tenere – necessariamente – in forza di un formale investimento fiduciario proveniente dal proprio ‘cliente’: nomina che, peraltro, non si pone come presupposto della condotta d’abuso, essendo decisiva in tal senso la sola prestazione dell’opera professionale.

6.2. Anche la tesi difensiva che non si può abusare di un titolo professionale senza esserne in possesso appare del tutto destituita di fondamento.

La condotta tenuta nell’occorso dal G. non esclude che egli non abbia platealmente dato vita ad un comportamento professionale, creando le apparenze di un’attività svolta da soggetto regolarmente abilitato, tanto da indurre l’Autorità giudiziaria a non procedere ad alcun controllo sul possesso del titolo abilitativo all’esercizio della professione forense. Il che è bastevole, secondo la giurisprudenza richiamata, all’integrazione del reato contestato.

6.3. Lamenta inoltre il ricorrente l’illegittimità dell’irrogazione della pena accessoria dell’interdizione all’esercizio della professione legale, osservando al riguardo come dagli atti risulti che la domanda del G. d’iscrizione all’albo degli avvocati venne respinta e lo stesso rimase iscritto nel solo registro dei praticanti semplici, iscrizione che – non attribuendo alcun titolo abilitativo alla professione di avvocato e a qualsivoglia attività forense – non può costituire presupposto per l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio di tale professione.

Il rilievo è manifestamente infondato.

Invero, l’apparenza della funzione esercitata, in uno con l’uso abnorme non consentito e con la prova della successiva conseguita abilitazione allo svolgimento della professione forense (v. pag. 3 della sentenza impugnata) legittimano l’applicazione della pena accessoria temporanea disposta dal giudice di merito.

Inammissibile è il quinto motivo di censura.

Anche in questo caso, vanno richiamate e ribadite tutte le valutazioni testé esposte nei paragrafi 4., 4.1., 4.2. e 4.3. del considerato in diritto con riferimento alla prospettazione in forma alternativa o perplessa.

Sia in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche che con riferimento al praticato trattamento sanzionatorio, la motivazione della sentenza impugnata si appalesa congrua ed ampiamente giustificata.

Attenuanti generiche negate, con giudizio insindacabile in sede di legittimità, sulla base dell’intensità del dolo attestato dalla reiterazione della condotta e del comportamento processuale, non connotato da particolari elementi valutabili in senso favorevole (cfr., Sez. 3, sent. n. 44071 del 25/09/2014, dep. 23/10/2014, Papini e altri, Rv. 260610).

Medesime valutazioni di insindacabilità vanno tratte con riferimento al trattamento sanzionatorio che, similmente a quanto avvenuto in primo grado, è stato determinato sulla base della valutazione dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. (cfr., Sez. 6, sent. n. 9120 del 02/07/1998, dep. 04/08/1998, Urrata S. e altri, Rv. 211582).

Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

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