Corte di Cassazione bis

La massima

1. Nei casi di servitù di passaggio in favore di fondo rimasto intercluso a seguito di atto di divisione, la divisione (o le convenzioni ad essi esplicitamente connesse) si rivela, di per sé sola, idonea a far presumere l’esistenza della determinazione delle parti di porre in essere una servitù coattiva di passo (come desumibile dallo stesso art. 1054 c.c. che attribuisce al contraente che rimane intercluso il diritto di ottenere dall’altro contraente e gratuitamente il passaggio) e, di conseguenza, una siffatta servitù è da considerare coattiva ove non emerga, in concreto ed inequivocabilmente, l’intento delle parti di assoggettarla al regime delle servitù volontarie.

2. Per il disposto dell’art. 1054 cod. civ., che riconosce al proprietario del fondo rimasto intercluso in conseguenza di alienazione a titolo oneroso o di divisione il diritto di ottenere coattivamente dall’altro contraente il passaggio senza corrispondere alcuna indennità, deve presumersi che la servitù di passaggio costituita con lo stesso atto di alienazione o di divisione o anche con atto successivo che all’interclusione siano oggettivamente preordinati, abbia natura coattiva, con conseguente applicabilità alla medesima in caso di cessazione dell’interclusione della causa estintiva di cui all’art. 1055 cod. civ., salvo che dal negozio costitutivo non emerga in concreto ed inequivocabilmente l’intento delle parti di assoggettarle al regime delle servitù volontarie.

3. Le servitù coattive, pur trovando nella legge il loro presupposto, ai sensi dell’art. 1032 comma 1, c.c. (che prevede che la servitù coattiva, in mancanza di contratto è costituita con sentenza), vengono ad esistenza per il tramite di un titolo che può anche essere negoziale e che, con effetti costitutivi, ne determina la creazione; in altri termini il negozio giuridico di indole privatistica è idoneo ad integrare il titolo, oltre che delle servitù volontarie anche, delle servitù coattive. Non è necessario che dal negozio medesimo risulti evidenziato l’intento delle parti di fronteggiare quell’esigenza in adempimento del correlativo obbligo legale.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 10 febbraio 2014, n. 2922

Ritenuto in fatto

Con citazione del 10/5/1996 D.M.C. , F.S. , N.G. , S.A. , R.R. e G.M. per sé e per il Condominio di (omissis) , quali comproprietari, convenivano in giudizio le società Rocca Pendice s.r.l., OCSE Costruzioni s.r.l. ed Edilcarpane s.r.l. per sentire dichiarare estinta, per cessazione dell’interclusione del fondo, la servitù di passaggio costituita con contratto di divisione del 22/6/1924 attraverso il sottoportico e il cortile di P.M. e all’epoca necessaria per consentire l’accesso alla via pubblica ad un fondo posto sul retro del passaggio che altrimenti sarebbe rimasto totalmente intercluso.
Gli attori deducevano che a seguito dell’acquisto, da parte delle società comproprietarie del fondo dominante, di una adiacente area, sulla quale era stato aperto un cantiere per la costruzione di immobili ad uso abitativo e garage, la servitù si sarebbe aggravata ed estesa ad un fondo che non ne era titolare; in ogni caso, la condizione di interclusione era venuta meno perché il fondo originariamente intercluso, disponeva di due autonomi e sufficienti accessi alla via pubblica a seguito dell’acquisto, a parte delle società convenute, oltre che del fondo medesimo, anche di un altro fondo.
Le società convenute si costituivano e chiedevano il rigetto delle domande o che fosse posto a carico del fondo dominante intercluso un corrispettivo per il proseguimento della servitù.
Con sentenza del 30/11/2002 il Tribunale di Padova accoglieva la domanda degli attori e dichiarava estinta, per cessazione dell’interclusione, la servitù che qualificava servitù volontaria coattiva in quanto pattuita all’interno di un accordo con il quale l’unico fondo era stato suddiviso in due diversi fondi, un dei quali intercluso.
Le società Rocca Pendice s.r.l. e OCSE Costruzioni s.r.l. proponevano appello al quale resistevano gli attori; restava contumace la società Edilcarpane s.r.l. La Corte di Appello di Venezia con sentenza dell’11/12/2006 rigettava l’appello ritenendo: – la cessazione dell’interclusione e l’estinzione, ai sensi dell’art. 1054 c.c., della servitù che, pur costituita con lo stesso atto di divisione, aveva natura coattiva perché il fondo dominante era divenuto intercluso a seguito della divisione con la conseguenza che la costituzione della servitù doveva presumersi finalizzata a far cessare l’interclusione;
– che il fondo, di cui ai mappali 80/a e 80/b, come accertato dal CTU, in conseguenza del frazionamento e della divisione era divenuto intercluso;
– che lo stato di interclusione era venuto meno perché, con la creazione di un unico fondo a seguito dell’aggregazione, in un’unica proprietà, dei fondi con altri fondi confinanti al proprietario cessava la preclusione all’accesso alla via pubblica in quanto il lotto ora unitario usufruiva di due accessi potendo accedere da via (…) e potendo utilizzare, per l’uscita, il passaggio che si apre su via (omissis);
– che era irrilevante la diversa previsione di viabilità interna del lotto del piano di recupero comunale perché lo stesso Comune di Padova aveva comunicato trattarsi di previsione modificabile su richiesta delle convenute che tuttavia non risultava presentata;
– che non era provata né l’impossibilità di utilizzare la predetta (per via (omissis)) via di uscita, né che la relativa possibilità fosse eccessivamente dispendiosa o disagevole, con la conseguenza che doveva essere rigettata anche la domanda riconvenzionale anche se qualificata come domanda di servitù a favore di fondo intercluso ai sensi dell’art. 1051 comma primo c.c..
Le società Rocca Pendice s.r.l. e OCSE Costruzioni s.r.l. hanno proposto ricorso affidato a quattro motivi e hanno depositato memoria.
F.S. , S.A. , R.R. e G.M. hanno resistito con controricorso, hanno proposto ricorso incidentale subordinato e hanno depositato memoria.
Sono rimaste intimate la società Edilcarpane, D.M.C. e N.G.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo le società ricorrenti deducono la violazione degli artt. 1027, 1031, 1032 e 1055 c.c. sostenendo che non troverebbe applicazione dell’art. 1055 c.c. perché la servitù non sarebbe coattiva, ma volontaria e perché l’interclusione del fondo non sarebbe venuta meno.

La Corte di Appello non avrebbe considerato che la servitù era stata costituita volontariamente e che semmai doveva essere chiaramente espressa nell’atto la volontà di adempiere l’obbligo legale di costituire la servitù per interclusione, mentre nel negozio costitutivo della servitù non v’era traccia dell’intenzione delle parti di assoggettarsi all’esigenza di costituire una servitù in ossequio ad un adempimento doveroso.

Le ricorrenti, formulando il quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione temporis, chiedono se la costituzione della servitù con atto negoziale integri una servitù coattiva alla quale sia applicabile l’art. 1055 c.c. e se l’applicazione dell’art. 1055 c.c. alla servitù volontaria integra la violazione delle norme richiamate nell’epigrafe del motivo.

1.1 Il motivo è infondato e al quesito deve rispondersi negativamente con riferimento al caso di specie nel quale la servitù, pur costituita con un contratto divisionale, aveva natura di servitù coattiva. La Corte di Appello ha applicato i principi costantemente affermati da questa Corte e che qui vengono ribaditi, secondo i quali per il disposto dell’art. 1054 cod. civ., che riconosce al proprietario del fondo rimasto intercluso in conseguenza di alienazione a titolo oneroso o di divisione il diritto di ottenere coattivamente dall’altro contraente il passaggio senza corrispondere alcuna indennità, deve presumersi che la servitù di passaggio costituita con lo stesso atto di alienazione o di divisione o anche con atto successivo che all’interclusione siano oggettivamente preordinati, abbia natura coattiva, con conseguente applicabilità alla medesima in caso di cessazione dell’interclusione della causa estintiva di cui all’art. 1055 cod. civ., salvo che dal negozio costitutivo non emerga in concreto ed inequivocabilmente l’intento delle parti di assoggettarle al regime delle servitù volontarie (Cass. 29/10/1992 n. 11755; Cass. 21/12/2012 n. 23839; Cass. 28/2/2013 n. 5053).

Occorre infatti osservare che le servitù coattive, pur trovando nella legge il loro presupposto, ai sensi dell’art. 1032 comma 1, c.c. (che prevede che la servitù coattiva, in mancanza di contratto è costituita con sentenza), vengono ad esistenza per il tramite di un titolo che può anche essere negoziale e che, con effetti costitutivi, ne determina la creazione; in altri termini il negozio giuridico di indole privatistica è idoneo ad integrare il titolo, oltre che delle servitù volontarie anche, delle servitù coattive. Non è necessario che dal negozio medesimo risulti evidenziato l’intento delle parti di fronteggiare quell’esigenza in adempimento del correlativo obbligo legale.

Infatti nei casi, come quello in esame, di servitù di passaggio in favore di fondo rimasto intercluso a seguito di atto di divisione la divisione (o le convenzioni ad essi esplicitamente connesse) si rivela, di per sé sola, idonea a far presumere l’esistenza della determinazione delle parti di porre in essere una servitù coattiva di passo (come desumibile dallo stesso art. 1054 c.c. che attribuisce al contraente che rimane intercluso il diritto di ottenere dall’altro contraente e gratuitamente il passaggio) e, di conseguenza, una siffatta servitù è da considerare coattiva ove non emerga, in concreto ed inequivocabilmente, l’intento delle parti di assoggettarla al regime delle servitù volontarie (cfr. Cass. n. 11755/1992 cit. e ivi i precedenti richiamati).

2. Con il secondo motivo le società ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 1027, 1031, 1032 e 1054 c.c. sostenendo che l’interclusione non scaturiva dalla divisione, ma era ad essa preesistente e, formulando il quesito di diritto, chiede:

– se l’interclusione antecedente all’atto di divisione determini l’applicazione degli artt. 1054 e 1055 c.c. e se l’applicazione di tali norme alla servitù volontaria costituita ad un fondo già in precedenza intercluso integri la violazione degli artt. 1027, 1021, 1032, 1054 e 1055 c.c..

– se l’assunzione di testimonianze circa la simulazione assoluta di un contratto avente forma scritta ad substantiam e da farsi valere tra le parti originarie del contratto, integra la violazione degli artt. 1414, 1417 e 2724 c.c..

2.1 Il motivo è inammissibile perché la questione proposta (la preesistenza dell’interclusione rispetto all’atto divisionale del 1924) non risulta introdotta davanti al giudice di appello; il motivo è meramente assertivo di una preesistente interclusione in contrasto con quanto affermato dalla Corte di Appello secondo la quale l’intero compendio immobiliare apparteneva ad un unico proprietario e che solo a seguito del frazionamento e la creazione dei mappali 80/a e 80/b, questi fondi, così scorporati, si erano venuti a trovare privi di accesso; in altri termini, proprio per effetto del frazionamento, come chiaramente espresso dall’atto divisionale, era costituita la servitù a favore dei mappali 80/a e 80/b (v. pag. 10 della sentenza) che venivano a creare un fondo altrimenti intercluso; in precedenza non sussisteva alcuna interclusione perché il fondo, non ancora diviso, era unico e non intercluso; né può assumere alcun rilievo il fatto che una parte dell’unico fondo, poi frazionata, non avesse accesso diretto sulla pubblica via.

Il quesito relativo all’assunzione di testimonianze circa la simulazione assoluta di un contratto avente forma scritta ad substantiam è inammissibile perché assolutamente non pertinente al decisum della Corte di Appello.

3. Con il terzo motivo le società ricorrenti deducono il vizio di motivazione in ordine all’interclusione del fondo e la violazione e falsa applicazione degli artt. 1071 e 1055 c.c..

Le ricorrenti sostengono:

– che per i principi di indivisibilità e inseparabilità delle servitù prediali, l’aggregazione ad un fondo dominante di altro fondo non poteva determinare l’estinzione della servitù;

– che la circostanza che gli edifici siano stati realizzati senza utilizzare la servitù di passaggio non è significativa perché i confini tra i fondi erano stati solo momentaneamente modificati per consentire l’accesso alle betoniere e ai mezzi pesanti;

– che l’autorità amministrativa aveva imposto una regolamentazione a senso unico della circolazione per effetto della quale l’accesso da Via (…) era utilizzabile solo per accedere al lotto, ma non per uscirvi;

– che altra possibilità di uscita sulla via pubblica non era possibile se non con eccessivo dispendio o disagio;

– che il piano di recupero che aveva imposto quella viabilità, dotato di efficacia esecutiva anche nei confronti di terzi, non era modificabile in quanto non impugnato e divenuto definitivo e comunque la variante al piano, anche ove possibile, comporterebbe dispendio di energie.

Le ricorrenti, formulando i quesiti, chiedono:

– se l’iter argomentativo espresso nella sentenza sia corretto sotto il profilo logico e giuridico o se nella sentenza sia stata trascurata o non sufficientemente esaminata l’interclusione del fondo dominante connessa alla previsione di una determinata viabilità imposta dalla P.A. in forza di un piano di recupero mai impugnato e/o fatto oggetto di contestazioni;

– se la fusione di due mappali e la creazione di un unico lotto comporti il venir meno dello stato di interclusione del fondo che non aveva accesso alla pubblica via o se tale argomentare comporti la violazione o falsa applicazione degli artt. 1071 e 1055 c.c..

3. Il motivo è manifestamente infondato e ai quesiti occorre dare risposta negativa.

I principi di cui all’art. 1071 c.c. in tema di divisione del fondo dominante o del fondo servente non sono applicabili alla fattispecie nella quale il fondo dominante non è stato diviso, ma aggregato ad altro fondo con la realizzazione di un unico lotto facente capo ad un’unica comproprietà e con due distinti accessi alla via pubblica; l’accertamento della condizione di interclusione del fondo deve essere effettuato con riferimento al fondo nel suo complesso e non a singole parti di esso (cfr. Cass. 2/2/1995 n. 1258; Cass. 10/1/2003 n. 177, nella quale si da rilievo alla possibilità, per il proprietario di far cessare l’interclusione); risulta pertanto corretta la decisione che ha escluso l’interclusione, del resto in conformità alla nozione di interclusione desumibile dallo stesso art. 1051 c.c. secondo il quale si può ottenere il passaggio coattivo attraverso il fondo del vicino a condizione che il fondo sia circondato da fondi altrui, ossia di altri proprietari.

La motivazione con la quale è stato escluso che permanessero i presupposti della servitù coattiva di passaggio di cui al primo comma dell’art. 1051 c.c. (interclusione e impossibilità per il proprietario di procurarsi l’uscita sulla pubblica via senza eccessivo dispendio o disagio) è corretta sotto il profilo logico e giuridico ed inoltre non è stata trascurata o insufficientemente esaminata l’interclusione del fondo dominante connessa al piano di recupero con il quale era prevista una determinata viabilità a senso unico. Infatti, in base agli elementi istruttori acquisiti al processo e alla CTU, la Corte di Appello ha rilevato (v. pag. 12 della sentenza) che il fondo disponeva non di uno, ma addirittura di due accessi alla via pubblica dei quali uno (quello da via (…) come affermato dalle convenute) utilizzabile per accedervi e uno (quello su via (omissis) , come accertato dal CTU) per l’uscita; la Corte ha altresì rilevato che non era provata l’impossibilità di utilizzare l’uscita di via (omissis) , né che l’eventuale possibilità sarebbe eccessivamente dispendiosa o che creerebbe eccessivo disagio; questa ratio decidendi non ha trovato specifica censura nel motivo di ricorso, salvo nell’affermazione che la viabilità era stata così stabilita nel piano di recupero.

Tuttavia neppure questa affermazione integra un fondato motivo di ricorso.

La sentenza di appello ha correttamente affermato che la viabilità interna dell’area era frutto di condotte imputabili ai proprietari del suolo e che il Comune di Padova aveva comunicato in data 21/6/1996 ad entrambe le parti che il piano di recupero poteva essere modificato, del resto in coerenza con le previsioni di cui all’art. 30 della legge n. 457 del 1978 che disciplina i piani di recupero da iniziativa dei privati; questa ratio decidendi non è stata attinta dal motivo di ricorso e, inoltre, la previsione di una particolare modalità di circolazione non incide sul decisivo rilievo che il fondo aveva ben due accessi alla strada pubblica né è dato comprendere da questo motivo (ma sul punto v. infra con riferimento al quarto motivo) per quali ragioni una diversa organizzazione della viabilità richiederebbe dispendio di energie, mentre la Corte di Appello ha invece affermato che dalla CTU risultava che il fondo godeva di una agevole immissione su via (omissis) (v. pag. 13 della sentenza di appello).

4. Con il quarto motivo le società ricorrenti deducono il vizio di motivazione e la violazione degli artt. 1051 e 1052 c.c. con riferimento al rigetto della domanda riconvenzionale di costituzione di servitù coattiva e sostengono che era in re ipsa la prova che non potevano procurarsi l’uscita sulla via pubblica senza eccessivo dispendio o disagio in quanto, da un lato, il piano comunale di recupero era divenuto definitivo e, dall’altro, l’eventuale modifica avrebbe comportato spostamento di accessi, creazione di semafori e un traffico alterato; con il quesito le ricorrenti chiedono se il rigetto della riconvenzionale sia fondato su un corretto argomentare avuto riguardo alla fattispecie concreta e a quanto disposto degli artt. 1051 e 1052 c.c..

4.1 Il motivo è infondato perché si sostanzia in affermazioni apodittiche (la prova dell’eccessivo dispendio o disagio sarebbe in re ipsa) e che non risultano sviluppate nelle sedi di merito; infine non risponde e non inficia le adeguate motivazioni della Corte territoriale secondo le quali il fondo godeva di due accessi alla via pubblica e il Comune si era dichiarato disponibile ad apportare una variante al piano di recupero, ma le ricorrenti non l’avevano richiesta.

5. Il ricorso incidentale subordinato all’accoglimento anche parziale del ricorso, resta assorbito dal suo integrale rigetto.

6. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con la condanna delle ricorrenti, in quanto soccombenti, al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti società Rocca Pendice s.r.l. e OCSE Costruzioni s.r.l. in solido a pagare ai controricorrenti F.S. , S.A. , R.R. e G.M. le spese di questo giudizio di cassazione che liquida in Euro 3.500,00 per compensi oltre Euro 200,00 per esborsi.

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