Corte di Cassazione, sezione II penale, sentenza 23 febbraio 2017, n. 8889.

In tema di peculato, nessuna efficacia esimente può attribuirsi alla causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, quando i beni che costituiscono oggetto della condotta delittuosa appartengono alla pubblica amministrazione

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

SENTENZA 23 febbraio 2017, n.8889

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza resa all’udienza del 14/2/2013 il Gup del Tribunale di Messina dichiarava A.L. colpevole dei delitti di peculato d’uso e truffa aggravata e continuata in danno del Comune di Nizza di Sicilia e lo condannava alla pena di anni uno mesi sei di reclusione ed Euro 1200,00 di multa con il beneficio della sospensione condizionale. L’affermazione di responsabilità concerneva l’indebito utilizzo da parte dell’ A., dipendente del Comune in qualità di autista, del veicolo di servizio per fini personali nonchè la truffa ai danni dell’ente territoriale con riguardo alla mendace attestazione degli orari di lavoro giornaliero.

La Corte d’appello con l’impugnata sentenza respingeva l’interposto gravame, confermando le statuizioni del primo giudice.

Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione l’ A. a mezzo del difensore, deducendo:

2.1 la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo all’intervenuta affermazione di responsabilità per il delitto di peculato d’uso, non avendo la Corte d’appello tenuto conto dei rilievi difensivi in merito all’insussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie poichè l’ A. utilizzava l’autovettura di servizio con il consenso dell’Ente e del sindaco nella convinzione della piena legittimità dell’uso. Analogamente insufficiente secondo la prospettazione difensiva è la motivazione resa dalla Corte d’Appello sulla configurabilità del delitto di truffa aggravata dal momento che nel caso di utilizzo per fini privati dell’autovettura di servizio il conseguimento del vantaggio è immediato ed è svincolato dall’induzione in errore per effetto degli artifizi e raggiri;

2.2 l’inosservanza della legge penale ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione alla denegata concessione delle circostanze attenuanti generiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Del tutto insussistenti s’appalesano i vizi motivazionali cumulativamente denunziati dalla difesa del ricorrente mediante la riproposizione di censure che la Corte territoriale ha evaso con motivazione coerente rispetto agli esiti probatori acquisiti e priva di distorsioni logiche.

Il giudice d’appello non ha mancato di rilevare come le argomentazioni difensive intese ad aggredire la piattaforma probatoria fossero caratterizzate da estrema genericità, esaurendosi nella prospettazione di fini istituzionali all’utilizzo del veicolo di servizio in assenza di qualsivoglia riscontro documentale, mentre con riguardo al profilo psicologico della condotta ne ha persuasivamente sostenuto la ricorrenza, richiamando le modalità d’uso del bene pubblico e la sottrazione per tempi apprezzabili alle finalità istituzionali.

Destituito di pregio è anche il richiamo al preteso consenso che il sindaco del Comune avrebbe prestato alle disinvolte modalità d’utilizzo dell’autovettura di servizio, trattandosi di bene geneticamente destinato all’assolvimento di finalità di servizio rispetto al quale non è configurabile un consenso scriminante da parte di soggetti chiamati a garantire la funzionalità e l’imparzialità della amministrazione pubblica. E’ d’uopo richiamare al riguardo l’insegnamento di legittimità secondo cui, in tema di peculato, nessuna efficacia esimente può attribuirsi alla causa di giustificazione del consenso dell’avente diritto, quando i beni che costituiscono oggetto della condotta delittuosa appartengono alla pubblica amministrazione (Sez. U, Sentenza n. 19054 del 20/12/2012, Rv. 255298).

Nè vale ad escludere la responsabilità l’eventuale errore circa la propria facoltà di disposizione di un bene pubblico per fini diversi da quelli istituzionali che non configura un errore di fatto su legge diversa da quella penale, atto ad escludere il dolo, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale, il cui contenuto è integrato dalla norma amministrativa che disciplina la destinazione del bene pubblico (Sez. 6, n. 13038 del 10/03/2016, Bertin, Rv. 266192).

Non è, infine, revocabile in dubbio, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, la ravvisabilità nella specie di un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. e di una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, parametrato al reiterato illecito utilizzo del mezzo di servizio, ai connessi consumi di carburante ed olio, alla complessiva usura dello stesso, alla frequente sottrazione agli scopi istituzionali (Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012, Rv. 255296).

Manifestamente infondati s’appalesano anche i rilievi che attingono la ritenuta configurabilità del delitto di truffa a fronte di un percorso motivatorio che ha dato ampio e congruo conto delle ragioni della reiezione della doglianza in sede d’appello. A tanto devesi aggiungere che risulta erronea la prospettiva da cui muove il ricorrente, ritenendo che nel caso a giudizio l’ingiusto profitto sia svincolato dall’induzione in errore giacchè la mendace attestazione di un orario di lavoro non corrispondente a quello effettivamente prestato nell’interesse dell’Ente costituisce raggiro causalmente efficiente rispetto alla liquidazione della retribuzione in misura superiore a quella dovuta sulla base del sinallagma contrattuale.

Inammissibile per genericità ed aspecificità s’appalesa, infine, la conclusiva censura inerente la denegata concessione delle circostanze attenuanti generiche. La Corte territoriale ha fondato il giudizio reiettivo sulla natura e reiterazione delle condotte a giudizio e sull’assenza di profili di meritevolezza con valutazione che sfugge al sindacato di legittimità in ragione della sua congruenza, contrastata con argomenti privi di contraria attitudine dimostrativa.

Alla declaratoria d’inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna alle spese processuali e alla sanzione pecuniaria precisata in dispositivo, non ravvisandosi ragioni d’esonero.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro millecinquecento a favore della Cassa delle Ammende

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