Ai fini dell’accertamento dell’elemento psicologico del soggetto agente, essendo la volontà ed i moti dell’anima interni al soggetto, essi non sono dall’interprete desumibili che attraverso le loro manifestazioni, ossia attraverso gli elementi esteriorizzati e sintomatici della condotta. Ne deriva che risponde di appropriazione indebita il consulente finanziario, affetto da disfunzione psichica, che investe le somme ricevute per scopi diversi dal mandato
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
SENTENZA 21 dicembre 2016, n. 54281
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 24 marzo 2016 la Corte di Appello di Catania, in riforma della sentenza del Tribunale di Catania in data 8 gennaio 2014 ha dichiarato la prescrizione dei reati contestati ad N.A. in data antecedente al 24 settembre 2008 e, per l’effetto, ha proceduto alla rideterminazione della pena irrogata allo stesso, contestualmente confermando nel resto l’affermazione di penale responsabilità del N. in relazione agli altri fatti-reato allo stesso ascritti.
In estrema sintesi, il N. è chiamato a rispondere di una serie di reati di appropriazione indebita aggravata e continuata posti in essere abusando del mandato di consulenza e gestione di investimenti nel settore private banking conferitogli dalle persone offese E.E. , C.M.A. , S.M. , S.S. , C.G. , Cr.Gi. e S.D. dalle quali si faceva consegnare somme di denaro che destinava a finalità diverse da quelle previste nel mandato e ad impieghi rispondenti ad interessi di soggetti diversi dal mandante.
2. Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputato (avv. Granata), deducendo:
2.1. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 43 e 646 cod. pen. con riguardo alla ritenuta sussistenza del dolo specifico del reato di appropriazione indebita.
Evidenzia, al riguardo, parte ricorrente che nonostante sia stato accertato che il N. ebbe ad investire le somme ricevute in strumenti finanziari che riteneva più redditizi e che sia stato accertato che lo stesso versava in una situazione di disfunzione psichica, la Corte di appello, limitandosi ad affermare che l’imputato era perfettamente capace di intendere e di volere, non ha dato idonea risposta alla doglianza difensiva con la quale si contestava altresì l’assenza di prova circa la sussistenza in capo all’imputato dell’elemento psicologico del reato di appropriazione indebita.
2.2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 157 cod. pen. e 597 cod. proc. pen. con riguardo alla mancata declaratoria di estinzione del reato contestato in danno di E.E. (che avrebbe dovuto comportare l’eliminazione del relativo aumento a titolo di continuazione), nonché alla mancata riduzione di pena (in violazione del principio di reformatio in peius) in forza dell’avvenuta estinzione delle ipotesi di appropriazione di cui agli ulteriori capi, commesse in data antecedente al 24 settembre 2008.
In sostanza, evidenzia parte ricorrente che sebbene la Corte di appello ha dichiarato estinti per prescrizione i fatti-reato commessi in data anteriore al 24 settembre 2008, fatti che riguardano anche le contestazioni ritenute in continuazione ex art. 81, comma 2, cod. pen., i Giudici distrettuali nella rideterminazione della pena hanno proceduto alla riduzione della pena prevista per il reato più grave e non per le ulteriori ipotesi di reato poste in continuazione.
Con riguardo, poi, alla vicenda che ha visto come persona offesa l’E. , la difesa aveva evidenziato con memoria presentata alla Corte di appello che, come accertato dalla Guardia di Finanza, l’ultima dazione di denaro dallo stesso effettuata risaliva al 17 settembre 2007 il che determinerebbe l’intervenuta prescrizione di tutti i fatti-reato contestati nel relativo capo di imputazione.
Analoga situazione si sarebbe verificata – secondo parte ricorrente – anche con riguardo alle vicende che hanno visto come persone offese le altre parti civili che hanno consegnato le somme di denaro all’imputato in un arco temporale tra il 2003/2004 ed il 2009.
Così ragionando dovrebbero essere dichiarati estinti tutti i fatti-reato che vedono come persone offese S.M. (fatta eccezione per un importo complessivo di 3.700,00 Euro), S.S. (fatta eccezione per due versamenti del 7 ottobre 2008 e del 7 aprile 2009 per un importo complessivo di 80.000,00 Euro), C.G. (in relazione al quale dovrebbero essere dichiarati prescritti i fatti relativi al versamento di somme per complessivi 415.000,00 Euro), C.G. e S.D. (in relazione ai quali dovrebbero essere dichiarati prescritti i fatti relativi al versamento di somme per complessivi 33.609,15 Euro).
Quanto detto avrebbe imposto – secondo parte ricorrente – non solo l’eliminazione della pena applicata per il reato che vede come persona offesa l’E. (interamente prescritto), ma anche una riduzione delle pene a titolo di continuazione per gli ulteriori reati contestati e ciò alla luce di quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione secondo le quali il divieto di reformatio in peius si riferisce anche ai singoli elementi della pena che è stata irrogata e ciò pur tenendo conto dell’esistenza di giurisprudenza anche in senso contrario.2.3. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 61 n. 7 cod. pen. con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante del danno di particolare rilevanza.
Evidenzia la difesa che già nella sentenza di primo grado si era evidenziato come non fosse stato possibile acquisire la prova dell’esatto ammontare dei danni rispettivamente patiti dalle persone offese essendo essi dipendenti dal quotidiano andamento delle borse, situazione che non consentirebbe, quindi, di ritenere provata la sussistenza della circostanza aggravante de qua. La Corte di appello avrebbe confuso il piano delle somme versate all’imputato dalle persone offese con quello delle somme delle quali l’imputato si sarebbe appropriato.2.4. Vizi di motivazione ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen. in relazione alla sola valutazione di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche con le aggravanti contestate e, più in generale, al trattamento sanzionatorio non contenuto in maniera prossima ai minimi edittali.
Secondo parte ricorrente non si sarebbe tenuto conto del fatto che l’imputato è soggetto psichicamente disturbato e che, comunque, l’intensità del dolo non era particolarmente elevata.
2.5. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 165 cod. pen. con riguardo al fatto che la sospensione condizionale della pena irrogata all’imputato è stata subordinata al risarcimento dei danni, nonché per mancanza di motivazione in ordine al diniego del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Quanto al profilo al quale è stata subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena, rileva la difesa del ricorrente che l’obbligazione posta a carico dell’imputato è indeterminata nel tempo e nell’ammontare e, quindi, ineseguibile.
I Giudici non avrebbero, poi, tenuto conto delle condizioni economiche dell’imputato che ha messo a disposizione tutto il proprio patrimonio (anche se insufficiente) a fini di risarcimento del danno.
Il mancato riconoscimento del beneficio di cui all’art. 175 cod. pen. è, poi, rimasto del tutto immotivato.2.6. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 538, comma 2, cod. proc. pen. per avere la Corte di appello liquidato il danno nei confronti della parte civile C. in maniera eccessiva e disancorata dalle risultanze probatorie.
La Corte territoriale sarebbe, infatti, incorsa in errore allorquando ha affermato che il danno patito dalla persona offesa potrà essere esattamente determinato dinanzi al competente giudice del processo civile, ciò perché il danno era stato liquidato in maniera definitiva il che non lascia spazio ad un successivo intervento del Giudice civile.
A ciò si aggiunge l’ulteriore circostanza che la decisione impugnata non ha fornito alcuna giustificazione in ordine al ragionamento seguito per addivenire a tale determinazione.
3. In data 16 novembre 2016 la difesa dell’imputato ha depositato nella Cancelleria di questa Corte Suprema una memoria con la quale ha evidenziato che alla data dell’odierna udienza tutti i fatti-reato in contestazione al N. sarebbero estinti per prescrizione fatta eccezione per le violazioni commesse in data ricompresa tra i 3 giugno ed il 4 settembre del 2009 ai danni della persona offesa C. .
4. In data 7 novembre 2016 la difesa della parte civile C.G. ha depositato nella cancelleria di questa Corte Suprema una memoria con la quale ha contestato la fondatezza dei motivi di ricorso dell’imputato, chiedendo per l’effetto la declaratoria di inammissibilità del ricorso stesso.
5. Infine, in data 22 novembre 2016 la difesa delle parti civili E.E. e C.M. ha fatto pervenire a mezzo telefax nella cancelleria di questa Corte Suprema conclusioni scritte con le quale ha chiesto la conferma della sentenza impugnata e due note di liquidazione delle spese del presente grado di giudizio.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato nei limiti che si andranno ad esporre essendo la sentenza impugnata caratterizzata da plurimi vizi motivazionali.
2. Il primo motivo di ricorso relativo all’elemento soggettivo del reato di appropriazione indebita è manifestamente infondato.
La Corte di appello risulta avere motivato sul punto in maniera congrua e logica ricollegando il fatto che il profilo della patologia psichica della quale è risultato affetto il N. , cosi come accertato dal perito incaricato dal Tribunale, non era tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato il che – hanno ulteriormente precisato i Giudici distrettuali – non ha determinato una situazione tale da poter falsare la percezione della realtà facendo commettere all’imputato “errori di valutazione del fatto in grado da escludere una volontà colpevole ed il dolo”. Ciò a conforto ed integrazione di quanto era già stato evidenziato dal Tribunale nel momento in cui aveva escluso la sussistenza di un nesso eziologico tra la situazione personale dell’imputato e le azioni delittuose da questi poste in essere.
Sul punto deve essere solo ricordato che, come ha già avuto modo di precisare già in tempi remoti questa Corte Suprema, “ai fini dell’accertamento dell’elemento psicologico del soggetto agente, essendo la volontà ed i moti dell’anima interni al soggetto, essi non sono dall’interprete desumibili che attraverso le loro manifestazioni, ossia attraverso gli elementi esteriorizzati e sintomatici della condotta…. Ne deriva che i singoli elementi e quindi anche quelli soggettivi attraverso cui si estrinseca l’azione, inerenti al fatto storico oggetto del giudizio, impongono una loro analisi la quale, essendo pertinente ad elementi di fatto, costituiscono appannaggio del giudizio di merito, non di quello della legittimità che può solo verificare la inesistenza di vizi logici, la correttezza e la compiutezza della motivazione, l’assenza di errori sul piano del diritto, così escludendosi in tale sede un terzo riapprezzamento del merito” (Sez. 1, sent. n. 12726 del 28/09/1988, dep. 1989, Alberto, Rv. 182105).
Da ciò ne consegue che, una volta esclusa l’incidenza della patologia sulle condotte integranti reato tenute dall’imputato, proprio dall’effettuazione di operazioni ed usi non autorizzati effettuati dal N. con il denaro delle persone offese ben può essere desunta la sussistenza dell’elemento psicologico del reato di appropriazione indebita senza la necessità che tale situazione necessiti di ulteriori approfondimenti anche di natura motivazionale.2. Le questioni della prescrizione dei reati e del trattamento sanzionatorio riservato agli imputati.
2.1. Il secondo motivo di ricorso affronta nel suo primo profilo e con specifico riferimento all’intervenuta prescrizione di alcuni dei fatti-reato, questioni che portano a ritenere sussistente un vizio di fondo della decisione impugnata che inevitabilmente finisce per ripercuotersi sulla problematica dell’estinzione per prescrizione di alcuni dei fatti-reato per i quali è intervenuta la condanna dell’imputato.
Va detto subito che non è in contestazione l’oggettiva consumazione da parte del N. dei fatti di appropriazione del denaro di proprietà delle persone offese.
Deve però anche essere ricordato che “il delitto di appropriazione indebita si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l’agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione” (ex ceteris: Sez. 5, n. 1670 del 08/07/2014, dep. 2015, Ronconi, Rv. 261731) da ciò però ne consegue che non è corretto, come hanno operato i Giudici del merito e come risulta sostenere anche il difensore del ricorrente ai fini dell’individuazione del momento iniziale del decorso del termine di prescrizione, collocare l’atto consumativo delle condotte di appropriazione indebita al momento della consegna del denaro all’imputato da parte delle persone offese, dovendo all’evidenza tale decorrenza farsi risalire ad un momento certamente successivo e cioè al momento in cui l’agente ha compiuto atti di dominio sui beni ricevuti (nella specie impiegando il denaro ricevuto per pagare debiti propri o per avviare autonome iniziative imprenditoriali) così manifestando la volontà espressa o implicita di tenere questi come propri, in sostanza compiendo sui beni stessi atti di disposizione che rivelino l’intenzione di convertire il possesso in proprietà.
Ne consegue che in situazioni come quelle oggetto del presente procedimento nelle quali il N. ha convinto parenti ed amici ad affidargli i loro risparmi con l’accordo che li avrebbe investiti e con la promessa di rendimenti assai elevati, il delitto di appropriazione indebita si è consumato non nel momento in cui l’imputato ha ricevuto il denaro ma in quello in cui egli ha tenuto consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile con il diritto del titolare, in quanto significativo dell’immutazione del mero possesso in dominio, in particolare stornando per finalità personali parte del denaro che avrebbe dovuto investire presso la piattaforma finanziaria in essere presso la IW BANK S.p.a.. Ora fermo restando che l’accertamento del momento della interversione del possesso è un accertamento di fatto che non può essere certo effettuato in sede di legittimità, va detto che la carenza di esatta individuazione del momento consumativo dei fatti-reato in contestazione all’evidenza incide anche sulla valutazione dell’eventuale estinzione per prescrizione degli stessi.Se nulla si può dire quanto ai fatti-reato già dichiarati estinti per prescrizione nella sentenza impugnata non essendovi stata impugnazione del Pubblico Ministero, deve però essere evidenziato che proprio la carenza motivazionale sul punto della sentenza impugnata impedisce di stabilire con esattezza quali eventuali ulteriori fatti-reato siano ad oggi estinti per prescrizione. Ciò non può che comportare l’annullamento in parte qua e senza rinvio della sentenza impugnata affinché, previa eventuale effettuazione degli accertamenti del caso in relazione al principio di diritto sopra enunciato, si proceda alla corretta individuazione del termine di decorrenza della prescrizione dei reati commessi in epoca successiva alla data del 24 settembre 2008 e si indichino puntualmente le singole condotte raggiunte dalla causa estintiva. Il tutto con conseguenti effetti anche sulla rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
2.2. Il secondo profilo del motivo di ricorso qui in esame riguarda invece il trattamento sanzionatorio riservato all’imputato per effetto della parziale estinzione per prescrizione dei fatti-reato allo stesso contestati.
Anche lo stesso risulta parzialmente fondato.
Si duole, come detto, il ricorrente non solo della mancata eliminazione della pena applicata per il reato che vede come persona offesa l’E. , ma anche della mancata riduzione delle pene a titolo di continuazione per gli ulteriori reati contestati.
La Corte di appello, infatti, pur dichiarando estinti per prescrizione tutti i reati ascritti al N. in data antecedente al 24 settembre 2008, si è limitata a ridurre la pena base per il più grave dei fatti in contestazione (l’appropriazione indebita che vede come persona offesa il C. ) ma ha lasciato inalterati i singoli aumenti per la continuazione con gli altri fatti di appropriazione indebita ai danni delle altre persone offese nonostante che gli stessi a loro volta fossero – almeno parzialmente – estinti per prescrizione.
Ora, ferma restando la questione ancora controversa in giurisprudenza nonostante un intervento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (cfr. Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, William Morales, Rv. 232066) del se il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall’imputato deve riguardare solo l’entità complessiva della pena od anche tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, va detto che ciò non può tuttavia prescindere dal testo normativo secondo il quale il concetto di reformatio in peius è collegato alla sanzione – intesa come “pena più grave” (art. 597, comma 3, cod. proc. perir) – che, nel caso di accoglimento dell’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati sotto il vincolo della continuazione, deve essere caratterizzata da una corrispondente diminuzione del trattamento sanzionatorio “complessivamente” inteso (art. 597, comma 4, cod. proc. pen.).
Orbene, poiché nel caso in esame e senza che neppure si possa parlare di accoglimento dell’appello dell’imputato essendo la prescrizione parziale nell’ambito dei reati in contestazione stata rilevata d’ufficio, va detto che da un lato il trattamento sanzionatorio nei confronti dell’imputato è stato “complessivamente” diminuito e, dall’altro, che gli aumenti di pena per i reati in contestazione (tutti rimasti configurabili sebbene, come detto, alcuni episodi contenuti negli stessi sono stati dichiarati prescritti) sono stati confermati ma non certo aumentati.
Non è quindi ravvisabile nel caso in esame una reformatio in peius nel senso espressamente indicato dal Legislatore.
Quanto detto, del resto, corrisponde ai principi applicabili certamente anche nel caso in esame enunciati dalla giurisprudenza di legittimità secondo i quali “L’obbligo di diminuzione, in misura corrispondente, della pena non opera per il giudice d’appello che, nell’esercizio dei poteri di proscioglimento immediato ex art. 129 cod. proc. pen. e non in accoglimento dell’appello dell’imputato, dichiari l’estinzione di alcuni degli episodi che compongono un reato continuato, sicché ben può, in tal caso, rideterminare l’aumento di pena per la continuazione in modo meno favorevole” (Sez. 2, n. 36219 del 16/06/2011, Signoretta, Rv. 251161).Se quelli sopra enunciati sono i principi che anche l’odierno Collegio ritiene di ribadire, non sfugge però che la Corte di appello non ha dedicato una sola parola della sentenza impugnata per spiegare le ragioni per le quali, nonostante la parziale prescrizione abbia attinto anche i reati ritenuti in continuazione con quello più grave, abbia inteso confermare per ciascuno di essi i singoli trattamenti sanzionatori già stabiliti dal Giudice di primo grado invece di procedere – come logica portava a ritenere – ad una riduzione degli stessi.
A ciò si aggiunge la circostanza – che pure non ha trovato alcun conforto motivazionale nella sentenza impugnata – del perché alla luce della tempistica delle condotte delittuose dell’imputato che hanno visto come persona offesa Enrico E. non sia stata dichiarata (l’eventuale) integrale prescrizione del reato e, per contro, nel computo sanzionatorio anche per tale reato è stato operato un aumento di pena a titolo di continuazione.
Si tratta, come detto, di palesi lacune motivazionali che non possono che portare anch’esse all’annullamento in parte qua della sentenza impugnata.3. Il terzo motivo di ricorso riguarda, come detto, la contestata circostanza aggravante del danno di particolare rilevanza di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen..
Sul punto deve essere evidenziato che sebbene – come correttamente segnalato dalla difesa del ricorrente – nella sentenza di primo grado si era affermato che non era stato possibile acquisire la prova dell’esatto ammontare dei danni rispettivamente patiti dalle persone offese essendo essi dipendenti dal quotidiano andamento delle borse, tuttavia la Corte di appello nel rispondere al relativo motivo di gravame sul punto (pag. 5 della sentenza impugnata) ha chiarito come la positiva valutazione della sussistenza della circostanza aggravante è stata operata anche sulla base delle condizioni delle persone offese che hanno affidato all’imputato i risparmi di una intera vita lavorativa.
Così motivando la Corte di appello ha fatto corretta applicazione del criterio suppletivo indicato nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale “Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, l’entità oggettiva assume valore preminente, mentre la capacità economica del danneggiato costituisce parametro sussidiario di valutazione cui è possibile ricorrere soltanto nei casi in cui il danno sia (come nel caso in esame – ndr.) di entità tale da rendere dubbia la sua oggettiva rilevanza” (Sez. 4, n. 5908 del 08/01/2013, Spada, Rv. 255101).
Per il resto è appena il caso di ricordare che la più recente giurisprudenza della Corte di legittimità, alla quale ritiene di conformarsi l’odierno Collegio, si è orientata nel senso di affermare che “In caso di reato continuato, valendo, in mancanza di tassative esclusioni, il principio della unitarietà, la valutazione in ordine alla sussistenza o meno dell’aggravante del danno di rilevante gravità deve essere operata con riferimento non al danno cagionato da ogni singola violazione, ma a quello complessivo causato dalla somma delle violazioni. (Sez. 2, n. 45505 del 27/10/2015, Dessì, Rv. 265541; Sez. 2, n, 45504 del 27/10/2015, Badaloni, Rv. 265557) e, ancora, che “Agli effetti della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma primo, n. 7, cod. pen., l’entità del danno patrimoniale dev’essere valutata con riferimento al momento in cui il reato è stato commesso, e, pertanto, la sua diminuzione conseguente a fatti successivi (nella specie, la restituzione delle somme percepite truffaldinamente) risulta irrilevante (Sez. 2, n. 3369 del 18/12/2012, dep. 2013, Carfagna, Rv. 254780).Nessuno dei principi sopra indicati risulta essere stato violato dalla Corte di appello il che rende non fondato il motivo di ricorso qui esaminato.
4. Il quarto motivo di ricorso nel quale si contestano il giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche con le aggravanti contestate e, più in generale, il trattamento sanzionatorio riservato all’imputato è, a sua volta, non fondato.
La Corte di appello ha debitamente spiegato nella sentenza impugnata (pagg. 5 e 6) le ragioni per le quali ha ritenuto di condividere il giudizio già espresso sul punto dal Tribunale richiamando sostanzialmente la gravità dei fatti e la loro continuazione nel tempo, così come in maniera congrua si è espressa in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio irrogando una pena base prossima al medio edittale con aumenti estremamente contenuti per la continuazione con gli altri reati.
Al riguardo appare sufficiente ricordare che “Le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto” (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931) e, ancora, che “La determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.” (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197). Del resto ai fini della determinazione della pena non è necessario che il Giudice prenda espressamente in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri implicitamente disattesi o superati da tale valutazione.
5. Fondato è invece anche il quinto motivo di ricorso nel quale si lamenta sotto un primo profilo l’impossibilità sostanziale per l’imputato di beneficiare della sospensione condizionale della pena subordinata all’integrale risarcimento del danno a favore delle parti civili essendo indeterminato il danno stesso.
Sebbene non rilevi il fatto che non è stato indicato nella sentenza il termine entro il quale l’imputato dovrebbe provvedere al risarcimento del danno nei confronti delle costituite parti civili atteso che per consolidata giurisprudenza di legittimità il termine per la esecuzione della condizione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza (ex ceteris Sez. 3, n. 19316 del 15/01/2015, Cavalieri, Rv. 263512) deve però essere evidenziato che, essendo per una sola delle parti civili (il C. ) stato determinato il risarcimento del danno in maniera definitiva mentre per le altre parti civili si è provveduto solo alla liquidazione di una somma a titolo di provvisionale “è illegittima, in applicazione dei principi di legalità e tassatività – che escludono la sottoposizione del beneficio ad obblighi diversi da quelli previsti dall’art. 165 cod. pen. – la subordinazione della sospensione condizionale della pena all’obbligo del risarcimento dei danni entro un termine predefinito nella sentenza, nel caso in cui il giudice penale abbia pronunciato condanna generica e demandato al giudice civile la liquidazione del predetto danno, giacchè la disposizione di cui all’art. 165 cod. pen. attribuisce al giudice di merito l’esercizio di tale facoltà solo ove abbia proceduto direttamente alla quantificazione dell’obbligo risarcitorio del condannato, ovvero abbia assegnato una provvisionale” (Sez. 6, n. 29163 del 09/06/2016, Tondi, Rv. 267526).La violazione del predetto principio di diritto impone anche sotto tale profilo l’annullamento della sentenza impugnata.
6. Per contro, il quinto motivo di ricorso nella parte in cui si lamenta il mancato riconoscimento del beneficio di cui all’art. 175 cod. pen. non è fondato.
La Corte di appello nel negare la concessione dell’invocato beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale ha debitamente quanto logicamente spiegato che tale scelta è proprio finalizzata a rendere nota la condanna del N. al fine di tutelare terzi ignari da condotte che l’imputato nel futuro potrebbe intraprendere.
Sul punto la Corte di legittimità ha già avuto modo di chiarire che “Il beneficio della non menzione della condanna di cui all’art. 175 cod. pen. è fondato sul principio dell’”emenda”, e tende a favorire il processo di recupero morale e sociale, sicché la sua concessione è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, e non è necessariamente conseguenziale a quella della sospensione condizionale della pena, fermo restando tuttavia l’obbligo del giudice di merito di indicare le ragioni della mancata concessione sulla base degli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.” (Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011, Allegra, Rv. 251509) adempimento al quale la Corte territoriale risulta aver provveduto.
6. Fondato è, infine, anche il sesto ed ultimo motivo di ricorso.
La Corte di appello è caduta in un palese travisamento degli elementi processuali ed in chiara contraddizione motivazionale allorquando ha affermato che il danno patito dalle persone offese potrà essere esattamente determinato dinanzi al competente giudice del processo civile, ciò perché nel caso della parte civile C. il danno era stato liquidato in maniera definitiva dal Tribunale con la conseguenza che la conferma sul punto di tale sentenza non lascia spazio ad un successivo intervento del Giudice civile, il che determina una assenza di risposta allo specifico motivo di appello riguardante la corretta determinazione dell’ammontare del danno.
7. Per le considerazioni or ora esposte, la sentenza affetta dai vizi di diritto e motivazionali sopra indicati deve pertanto essere annullata in parte senza rinvio ed in parte con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Catania per un nuovo giudizio relativo ai punti indicati.
Il ricorso deve invece essere rigettato nel resto.8. Per effetto della decisione assunta non possono essere accolte le richieste di liquidazione delle spese del grado di giudizio formulate dalle parti civili.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla indicazione del termine di decorrenza della prescrizione dei reati commessi in epoca successiva alla data del 24 settembre 2008, nonché con rinvio in relazione alla determinazione della pena, alla subordinazione della sospensione condizionale della stessa all’avvenuto risarcimento del danno e, per quanto riguarda gli effetti civili, con riferimento alla quantificazione del danno patito dalla parte civile C.G. ad altra sezione della Corte di appello di Catania. Rigetta nel resto
Leave a Reply