Corte di Cassazione, sezione II penale, sentenza 16 febbraio 2017, n. 7500

Integra il reato di rapina, e non quello di tentata rapina, la condotta di chi si impossessa della refurtiva, acquisendone l’autonoma disponibilità, pur se l’impossessamento sia avvenuto sotto il controllo, anche costante, delle Forze dell’Ordine, laddove queste siano intervenute solo dopo la sottrazione, in quanto il delitto previsto dall’art. 628 cod. pen. si consuma nel momento e nel luogo in cui si verificano l’ingiusto profitto e l’altrui danno patrimoniale, a nulla rilevando, invece, la mera temporaneità del possesso conseguito

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

SENTENZA 16 febbraio 2017, n. 7500

Ritenuto in fatto

1.Con sentenza resa all’udienza del 7/7/2015 il Tribunale di Roma, in esito a giudizio abbreviato, dichiarava le imputate colpevoli del delitto di rapina pluriaggravata in concorso, condannando ciascuna – previo riconoscimento dell’attenuante del risarcimento del danno equivalente alle aggravanti e alla recidiva ed applicata la diminuente per il rito – alla pena di anni due mesi sei di reclusione ed Euro 500,00 di multa.

Con l’impugnata sentenza la Corte d’Appello di Roma disattendeva gli interposti gravami e confermava integralmente la decisione di primo grado.

Avverso detto provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione.

2.1 H.F. (in proprio e a mezzo del difensore), deducendo:

– il vizio motivazionale in relazione a) alla mancata applicazione dell’art. 116 cod.pen., avendo la Corte territoriale stimato che la partecipazione della ricorrente fosse finalizzata alla consumazione di un furto con destrezza, ritenendone nondimeno la responsabilità per la fattispecie di rapina per effetto della confusione tra i requisiti della prevedibilità e della concreta previsione del più grave reato, nonché b) alla configurazione della rapina come consumata e non solamente tentata;

2.2 S.F. , a mezzo del difensore, deducendo:

-la carenza di motivazione in relazione alla ritenuta consumazione della fattispecie di rapina nonostante i beni appresi dalle imputate non fossero mai usciti dalla sfera di vigilanza degli agenti di P.g. che monitoravano l’azione.

Considerato in diritto

I motivi proposti nell’interesse di S.F. e H.F. attinenti la qualificazione giuridica del fatto ascritto possono essere congiuntamente trattati, attesa la natura delle doglianze e l’omogeneità del vizio dedotto. Rileva il Collegio come risulti palesemente insussistente la denunziata carenza ed illogicità motivazionale, avendo la Corte d’Appello evaso i gravami difensivi con puntuali richiami alle emergenze processuali che attestano modalità esecutive caratterizzate da un significativo e pluridirezionale coefficiente di violenza, indirizzato al blocco delle braccia della p.o. e allo spintonamento contro il muro con contestuale accerchiamento, ricostruzione che evidenzia come l’azione tendesse alla neutralizzazione della vittima quale condizione della spoliazione. L’apprezzamento dei giudici di merito è, dunque, frutto di una corretta valutazione delle emergenze processuali, atteso il consolidato avviso giurisprudenziale che ravvisa la violenza necessaria per l’integrazione dell’elemento materiale della rapina anche in una spinta o in un semplice urto in danno della vittima, finalizzati a realizzare l’impossessamento della cosa (Sez. 2, n. 3366 del 18/12/2012, Fadda Mereu, Rv. 255199).

Inammissibile per manifesta infondatezza è, in particolare, la doglianza inerente la ravvisabilità del tentativo in luogo della fattispecie consumata di rapina in conseguenza della vigilanza attuata dagli operanti che ebbero modo di notare lo svolgimento dell’azione, intervenendo allorché il portafogli della vittima era stato materialmente appreso.

Secondo il costante avviso della giurisprudenza di legittimità integra il reato di rapina, e non quello di tentata rapina, la condotta di chi si impossessa della refurtiva, acquisendone l’autonoma disponibilità, pur se l’impossessamento sia avvenuto sotto il controllo, anche costante, delle Forze dell’Ordine, laddove queste siano intervenute solo dopo la sottrazione, in quanto il delitto previsto dall’art. 628 cod. pen. si consuma nel momento e nel luogo in cui si verificano l’ingiusto profitto e l’altrui danno patrimoniale, a nulla rilevando, invece, la mera temporaneità del possesso conseguito. (Sez. 2, n. 5663 del 20/11/2012, Alexa Catalin e altro, Rv. 254691; conformi n. 35006 del 09/06/2010, Rv. 248611; n. 5512 del 22/10/2013 Rv. 258207).

Osserva in proposito il Collegio che non è giuridicamente condivisibile la tesi secondo cui la predisposizione di un servizio di osservazione delle Forze di Polizia osti alla configurabilità della rapina consumata in quanto, in simile evenienza, all’agente sarebbe impedito il definitivo impossessamento della res furtiva, con conseguente configurabilità della sola fattispecie tentata. La circostanza che l’impossessamento della refurtiva in danno della vittima della rapina sia avvenuto sotto il controllo delle Forze dell’ordine non esclude la consumazione del reato nei casi in cui le stesse siano intervenute soltanto dopo il conseguimento – anche se soltanto per un breve lasso di tempo – del possesso della refurtiva da parte dell’agente. Il reato di rapina si consuma, infatti, nel momento e nel luogo in cui si verificano l’ingiusto profitto e l’altrui danno patrimoniale, senza che assuma rilievo il consolidamento di tali eventi nel tempo, concretizzandosi la lesione del bene giuridico protetto con l’autonoma disponibilità della refurtiva da parte dell’agente, e il correlativo spossessamento del legittimo detentore, prescindendo da qualsiasi criterio spazio – temporale (in tema di estorsione Sez. 2, n. 1619 del 12/12/2012, Rv. 254450; n. 27601 del 19/06/2009, Rv. 244671).

I giudici di merito hanno nella specie evidenziato, alla stregua degli atti investigativi, che la concorrente H.E. aveva materialmente prelevato il portafogli dalla tasca anteriore sinistra dei pantaloni di N.F. , impossessandosi della somma di Euro 370,00 in contanti e del portadocumenti, precisando che a seguito del tentativo di divincolarsi della p.o. la H. faceva cadere a terra parte del compendio furtivo, trattenendo nondimeno la somma di Euro 150,00 di cui si liberava durante l’inseguimento degli operanti, circostanze non revocate in dubbio dalle ricorrenti che conclamano l’acquisito possesso quantomeno di parte refurtiva prima dell’intervento delle Forze dell’Ordine sicché del tutto legittima s’appalesa la valutazione in ordine alla configurabilità della fattispecie consumata.

Quanto al difetto di motivazione dedotto dalla H.F. in relazione al mancato riconoscimento della circostanza ex art. 116,comma 2, cod. pen. la censura non supera il vaglio di ammissibilità a fronte di una motivazione ampia e persuasiva che ha evidenziato l’essenzialità del contributo causale prestato dalla ricorrente all’azione, mediante l’individuazione della vittima e la sua segnalazione alle complici, dando conto dell’assoluta prevedibilità che il furto accreditato dalla difesa degenerasse nella fattispecie ascritta in considerazione delle pianificate modalità esecutive dell’azione predatoria.

Secondo il costante insegnamento della Suprema Corte in tema di concorso di persone nel reato, la responsabilità del compartecipe ex art. 116 cod. pen. può essere configurata solo quando l’evento diverso non sia stato voluto neppure sotto il profilo del dolo indiretto (indeterminato, alternativo od eventuale) e, dunque, a condizione che non sia stato considerato come possibile conseguenza ulteriore o diversa della condotta criminosa concordata. (Sez. 2, n. 48330 del 26/11/2015, Lia, Rv. 265479;Sez. 1, n. 11595 del 15/12/2015, P.G. in proc. Cinquepalmi e altro, Rv. 266647; Sez.2 n. 49486 del 14/11/2014, Rv. 261003). La Corte territoriale, al pari del giudice di primo grado, ha escluso la ravvisabilità del concorso cd. ‘anomalo’ ritenendo positivamente accertato, con motivazione esente da distorsioni giustificative, che il reato più grave era stato dalla ricorrente considerato come possibile sviluppo della condotta divisata, con accettazione del rischio della sua verificazione, desumibile dal numero dei soggetti coinvolti nell’illecito e dalle pianificate modalità esecutive che mettevano in conto il contatto fisico tra le parti.

Alla declaratoria d’inammissibilità consegue la condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria precisata in dispositivo, non ravvisandosi ragioni d’esonero.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di 1.500 Euro ciascuna a favore della Cassa delle Ammende

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