Corte di Cassazione, sezione II penale, sentenza 13 gennaio 2017, n.1674

I reati consumati di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione restano esclusi dall’area di applicabilità della previsione dell’art. 649 cod. pen., pur se posti in essere senza violenza alle persone, bensì con la sola minaccia

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II PENALE

SENTENZA 13 gennaio 2017, n.1674

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 14/05/2015 la Corte di Appello di Catanzaro confermava la sentenza del Tribunale di Paola in data 11/07/2014 quanto alla affermazione della penale responsabilità di C.E. in ordine ai reati di cui agli artt. 612 bis e 629 cod. pen., riducendo la pena inflitta in primo grado, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Avverso detta sentenza propone ricorso per Cassazione l’imputata, a mezzo dei difensori, con il quale formula due motivi.

Primo motivo: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 629 e 649 cod. pen. Assume la ricorrente che una interpretazione corretta e costituzionalmente orientata dell’art. 649 cod. pen. conduce a ritenere che ‘tutti i reati contro il patrimonio’ e, quindi, anche i reati di rapina, estorsione sequestro di persona, non sono punibili se non commessi mediante violenza, condotta non ravvisabile nella fattispecie in esame; nel prospettare tale motivo pone, anche, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 terzo comma cod. pen. per contrasto con l’art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede che tutti i reati contro il patrimonio, commessi nei confronti dei soggetti di cui al comma 1, senza violenza sulle persone, non siano punibili.

Secondo motivo: violazione e falsa applicazione di legge in ordine alla omessa qualificazione del delitto di cui al capo b), estorsione nella più lieve fattispecie di cui all’art. 393 cod. pen., assumendo, altresì, che la Corte territoriale aveva fatto malgoverno delle disposizioni di cui agli artt. 47, 51 e 59 cod. pen., omettendo di considerare la sussistenza in capo all’imputata del putativo esercizio di un diritto.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato.

Va premesso che, in punto di fatto, risultano accertate a carico della Cipriano le condotte di cui al capo b) della rubrica consistite in una serie di minacce eseguite, sia personalmente che tramite sms, nei confronti del marito, dal quale si stava separando legalmente, I.O. , con la prospettiva che se non le avesse concesso quanto da lei richiesto avrebbe continuato a molestarlo durante il servizio, in modo tale da indurre il datore di lavoro a licenziarlo, facendosi, in tal modo, consegnare somme di denaro in misura maggiore rispetto a quelle stabilite nel provvedimento di separazione legale.

2.1. Occorre, quindi, richiamare il condivisibile orientamento secondo cui ‘I reati consumati di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione restano esclusi dall’area di applicabilità della previsione dell’art. 649 cod. pen., pur se posti in essere senza violenza alle persone, bensì con la sola minaccia. (Sez. 2, n. 28141 del 15/06/2010 – dep. 20/07/2010, P.G. in proc. Stefoni, Rv. 24793701), vedi anche Sez. 2, n. 39008 del 24/06/2009 – dep. 08/10/2009, P.G. in proc. Cilli, Rv. 24525001.

2.2. Stante la accertata configurabilità del reato di cui all’art. 629 cod. pen. nei confronti del marito I.O. , in ragione del chiaro dettato normativo non può operare la invocata condizione di non punibilità di cui all’art. 649 cod. pen., come stabilito dall’ultimo comma della norma citata, essendo evidente la scelta del legislatore di escludere i reati, quale quello in esame, che si caratterizzano per una offesa alla persona oltre che al patrimonio.

2.3. In ordine alle specifiche censure mosse dalla parte ricorrente quanto ai profili interpretativi della noma va precisato che non pare possa dubita tarsi del fatto che, nelle ipotesi di delitto consumato di cui agli artt. 628 – 629 – 630 c.p., la causa di non punibilità non opera sempre e comunque, sia che il reato sia stato commesso con violenza o con minaccia, proprio perché la testuale locuzione limitatrice ‘commesso con violenza alle persone’ si riferisce chiaramente in modo univoco unicamente ad ‘ogni altro delitto contro il patrimonio’: vale a dire ad ogni delitto contro il patrimonio ulteriore e diverso rispetto a quelli espressamente e nominativamente indicati (artt. 628, 629, 630 c.p.), dei quali dunque, pur se commessi in danno di prossimi congiunti, permane punibilità e perseguibilità d’ufficio ancorché connotati dal ricorso alla minaccia e non anche dalla violenza alle persone: in senso conforme Cass. 22628/2001 Riv 219421. Una simile interpretazione riceve conferma dall’inciso contenuto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 223/2015, con la quale è stata dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Parma, in composizione monocratica, ove è detto testualmente ‘Al terzo ed ultimo comma dell’art. 649 cod. pen., infine, si prevede che l’intervento punitivo statale operi secondo le modalità ordinarie, ove l’offesa al patrimonio individuale del congiunto sia attuata mediante violenza alla persona o integri, comunque, un delitto di rapina, estorsione o sequestro di persona a scopo di estorsione’.

Deve ritenersi, poi, manifestamente infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale della norma richiamata, per violazione dell’art. 3 Cost., non sussistendo la invocata disparità di trattamento: l’omesso riferimento, quanto ai reati di rapina, estorsione e sequestro di persona, al requisito della ‘violenza’, appare frutto di una precisa scelta legislativa ancorata alla necessità di escludere, sempre e comunque, la condizione di punibilità di cui all’art. 649 comma primo in presenza di tali reati caratterizzati, nella previsione codicistica, da un particolare disvalore rispetto alla sfera dell’essere umano, sussistendo, quindi, una diversità di disciplina in presenza di situazioni diverse.

In ordine al profilo inerente la contestata qualificazione del reato come estorsione anzicché quale esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona va osservato che la Corte di appello, con motivazione congrua e corretta, non censurabile in questa, nel richiamare anche le argomentazioni delle sentenza di prima grado, ha spiegato le ragioni per le quali la condotta dell’imputata andava qualificata come estorsione (v. pag.4 nonché sentenza di primo grado pagg. 19/21 richiamata sul punto), conclusione che appare pienamente condivisibile nella misura in cui, in ragione del contenuto del provvedimento presidenziale che prevedeva in favore della ricorrente solamente il pagamento della sola somma di Euro 800,00, deve escludersi che la stessa, nel chiedere somme maggiori, sebbene previste in passato, e nel porre in essere le sue minacce, ritenesse di esercitare un diritto, anche se non sussistente, con la consapevolezza in buona fede di poterlo legittimamente realizzare (buona fede correttamente esclusa dai giudici di merito, specie in ragione della circostanza che era stata proprio la C. ad adire il Tribunale per separarsi dal proprio coniuge ed ottenere l’assegno di mantenimento), dovendosi, piuttosto, ritenere che la stessa mirava a conseguire un profitto obiettivamente e subiettivamente ingiusto.

Per le considerazioni esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria d’inammissibilità consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al pagamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro millecinquecento.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali ed della somma di Euro millecinquecento a favore Cassa delle Ammende.

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