Cassazione 12

Suprema Corte di Cassazione

sezione I

sentenza  25 gennaio 2016, n. 1261

Svolgimento del processo

L.M.G. agiva nei confronti di A.V. , esponendo di avere costituito col convenuto nel 1977 una società per realizzazione di opere edili, assumendo la partecipazione nella misura del 30%; che il volume di affari della società era aumentato via via sino al valore di circa 6 miliardi di lire; che il convenuto non aveva reso alcun rendiconto né corrisposto la quota di utili di spettanza dell’attore.
L’A. si costituiva, eccepiva che la società si era sciolta nel 1994, che il L.M. aveva avuto una partecipazione del 20% ed aveva ricevuto gli utili spettanti sia per contanti che con l’accredito di una parte del prezzo di vendita di uno degli appartamenti realizzati sull’area di proprietà e ad esclusive spese del convenuto.
Veniva disposta ed espletata C.T.U. contabile.
Il Tribunale, con sentenza depositata il 15/1/03, qualificava la domanda come azione di responsabilità ex art. 2395 c.c. applicabile per analogia alle società di persone, e, posto che non era stata provata la presentazione di alcun rendiconto annuale né la corresponsione di utili, salvo acconti per lire 20 milioni negli anni 1991 e 1993, commisurava il risarcimento dei danni agli utili effettivamente maturati e non percepiti.
La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 29/6/2010-9/9/2010, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto le somme che A. era stato condannato a pagare al L.M. , dichiarando nulla dovuto per gli esercizi dal 1977 al 1988, e riducendo la somma dovuta dall’A. ad Euro 7215,93, oltre rivalutazione ed interessi dal 31/12/1989 alla sentenza di primo grado, oltre interessi compensativi al tasso legale con la stessa decorrenza, calcolati sulla somma rivalutata anno per anno sino alla data della sentenza di primo grado, oltre interessi legali sino al saldo, fermi restando gli importi per gli esercizi successivi; ha compensato le spese del giudizio d’appello, ferme le spese del primo grado.
Nello specifico e per quanto ancora rileva, la Corte del merito:
ha ritenuto pacifica l’esistenza di una società irregolare costituita nel 1977, con partecipazione del L.M. nel 20% (e su detto accertamento si era formato giudicato), amministrata solo dall’A. ;
ha respinto il primo motivo d’appello dell’A. , avendo ben inteso il Tribunale la domanda come rivolta a far valere la responsabilità dell’amministratore per la mancata presentazione del rendiconto e per l’occultamento degli utili, condotte causative di danno immediato e diretto per il L.M. ;
ha respinto il quarto motivo, spettando all’A. , per il principio di vicinanza della prova, provare la presentazione dei rendiconti e la distribuzione degli utili annualmente maturati, mentre il documento prodotto, “rendiconto dell’impresa individuale A.V. ” dal 1977 al 1994, non sottoscritto dal L.M. , era limitato alla sola sintetica e complessiva indicazione dei ricavi, dei costi e degli utili di ciascun anno.
Ricorre avverso detta sentenza A.V. , con ricorso affidato a quattro motivi.
Si difende L.M.G. con controricorso.

Motivi della decisione

1.1.- Col primo motivo, l’A. si duole dei vizi ex art.360 nn. 4 e 5 c.p.c.; sostiene che il L.M. non aveva fatto valere alcuna domanda risarcitoria ex art. 2395 c.c. o ex art.2043 c.c., che il Giudice del merito ha alterato il thema decidendum, dato che il L.M. aveva chiesto la quota spettante degli utili netti detratte le spese per mandare avanti la società e non già il danno dallo stesso ricevuto.
1.2. Col secondo, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2395 c.c.; sostiene che per la società irregolare non v’è obbligo di presentazione di alcun rendiconto, che il L.M. , quale socio non amministratore, è stato informato e posto nella possibilità di esaminare i documenti contabili, al fine di controllare l’andamento dell’attività, come dallo stesso ammesso; che la sottrazione indebita degli utili ad opera dell’amministratore lede solo il patrimonio sociale e solo indirettamente si ripercuote sulla posizione giuridica ed economica del socio, che pertanto non può agire ex art. 2395 c.c..
1.3.- Col terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte del merito ritenuto provato l’assunto del L.M. , della mancata presentazione dei rendiconti, a cui non è tenuta la società irregolare, in forza del principio di vicinanza della prova, che non può trovare ingresso nella specie.
1.4.- Col quarto mezzo, l’A. denuncia il vizio di motivazione, per avere la Corte del merito ritenuto che la mancata prova della presentazione dei rendiconti gravasse sull’A. , mentre non ha considerato la documentazione prodotta, e soprattutto non ha tenuto conto del libero interrogatorio del L.M. .
2.1.- Le doglianze avanzate col primo motivo presentano profili di inammissibilità ed infondatezza.
Di fondo, la parte si duole della violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, ex art.112 c.p.c., per avere la Corte d’appello interpretato la domanda, come intesa a far valere l’azione ex art. 2395 c.c., mentre il L.M. non aveva chiesto il risarcimento del danno diretto, ma “l’accertamento degli utili ai fini della loro implicita approvazione e conseguentemente la loro ripartizione”.
Ciò posto, si osserva che il vizio di “ultra” ed “extra” petizione ricorre solo quando il giudice, interferendo indebitamente nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi di identificazione dell’azione o dell’eccezione, pervenendo ad una pronunzia non richiesta o eccedente i limiti della richiesta o eccezione, mentre deve escludersi la violazione dell’art. 112 c.p.c. tutte le volte in cui la pronunzia vi corrisponda nel suo risultato finale; sostanzialmente, la potestas decidendi del giudice trova un limite in relazione agli effetti giuridici che la parte vuole conseguire deducendo un certo fatto, nel senso che la prospettazione di parte vincola il giudice a trarre dai fatti esposti l’effetto giuridico domandato (così la pronuncia 15383/2010, che richiama la precedente decisione 21484/2007).
Nella specie, il Giudice del merito non è incorso nel vizio di extrapetizione sotto il profilo dell’immutazione degli effetti giuridici che la parte ha inteso conseguire, atteso che lo stesso ha ampiamente argomentato in relazione all’interpretazione della domanda ed dell’individuazione del bene della vita richiesto, tenendo conto del tenore complessivo dell’atto di citazione, con gli specifici addebiti all’A. , coordinato con la memoria ex art. 183 c.p.c. del 20/2/1996, al fine di individuare la pretesa effettivamente fatta valere, ovvero il risarcimento del danno diretto ed immediato al patrimonio del socio senza passare dal decremento del patrimonio sociale. A fronte di detta interpretazione, congruamente argomentata, il ricorrente si è limitato a contrapporre la propria tesi, senza denunciare la violazione di specifici canoni interpretativi o vizi argomentativi.
2.2.-Il secondo motivo è infondato.
Col motivo, il ricorrente addebita alla Corte d’appello la violazione dell’art. 2395 c.c., sostenendo che nelle società irregolari non v’è obbligo di presentazione né deposito di alcun rendiconto e che nella specie, è inapplicabile la norma in oggetto, in quanto la mancata distribuzione degli utili non determina danno immediato e diretto al socio, ma bensì indiretto.
La prima questione è inammissibile, per non risultare proposta nel giudizio di merito, e in ogni caso infondata, atteso che, come ritenuto nelle pronunce 28806/2013, 21832/2005 e 1240/1996, per rendiconto deve intendersi la situazione contabile che equivale, quanto ai criteri fondamentali di valutazione, a quella di un bilancio, che è la sintesi contabile della consistenza patrimoniale della società al termine di un anno di attività; quanto alla seconda, la stessa è esaminabile nella specie, atteso che, come risulta dalla sentenza impugnata, col primo motivo l’A. aveva posto la questione del danno indiretto,sostenendo che la domanda avrebbe dovuto essere rivolta verso la società.
Secondo l’orientamento di questa Corte, come espresso nella pronuncia 1045/2007, in conformità a quanto già ritenuto nella sentenza 2846/1996, costituendo la società di persone un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci, ancorché dette società non siano dotate di autonoma personalità giuridica, è configurabile con riguardo ad esse una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società, in termini sostanzialmente analoghi a quanto prevedono, in materia di società per azioni, gli artt. 2393 e 2395 c.c.. In adesione a detto principio e con specifica attenzione al tipo di danno suscettibile di essere fatto valere, la successiva pronuncia 16416/2007 ha affermato che la natura extracontrattuale ed individuale dell’azione del socio, fondata sull’art. 2043 c.c. ed in applicazione analogica dell’art. 2395 c.c., esige che il pregiudizio non sia il mero riflesso dei danni eventualmente recati al patrimonio sociale, ma che si tratti di danni direttamente causati al socio come conseguenza immediata del comportamento degli amministratori.
Ciò posto, come già affermato nella pronuncia 2846/1996, e riconosciuto in decisioni di merito col sostegno di autorevole dottrina, l’addebito all’A. dell’omessa presentazione dei rendiconti e della conseguente mancata attribuzione degli utili al socio, quale comportamento assunto in inosservanza di norme che stabiliscono diritti dei soci immediatamente azionabili, comporta un danno diretto di questi, e quindi legittima il ricorso all’azione individuale di responsabilità.
Vale la pena a riguardo rilevare come tale assunto non si ponga in contrasto con l’orientamento espresso tra le ultime nelle pronunce 9295/2010 e 10271/2004, secondo cui, posto che nelle società a responsabilità limitata (nel vigore della disciplina dettata dal codice civile del 1942, anteriormente alla riforma organica di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), gli utili sono parte del patrimonio sociale fin quando l’assemblea eventualmente non ne disponga la distribuzione in favore dei soci, la sottrazione indebita di tali utili ad opera dell’amministratore lede il patrimonio sociale, e solo indirettamente si ripercuote sulla posizione giuridica e sull’interesse economico del singolo socio, compromettendo la sua aspettativa di reddito e comprimendo il valore della sua quota, da cui l’esclusione per il singolo socio di far valere la responsabilità ex art. 2395 c.c., che presuppone invece l’esistenza di un danno subito dal medesimo socio direttamente, non cioè come mero riflesso del danno sociale di cui solo la società, per il tramite degli organi a ciò abilitati e con il procedimento a tal fine prescritto dal precedente art. 2393 c.c., può chiedere il risarcimento all’amministratore. Ed infatti, è evidente la diversità di disciplina tra le due categorie di società: nelle società di persone, l’art. 2262 c.c. prevede che ciascun socio, dopo l’approvazione del rendiconto, ha diritto alla divisione ed alla distribuzione degli utili, mentre nelle società di capitali occorre la previa deliberazione assembleare ex art. 2433 c.c., che, preso atto della sussistenza di utili nel bilancio, ne autorizzi la distribuzione.
Ne consegue che il diritto agli utili per il socio di società personale è subordinato alla sola approvazione del rendiconto, e quindi coerentemente la lesione di detto diritto può essere fatta valere dal socio come danno diretto ed immediato, proprio in quanto conseguente al mancato assolvimento da parte del socio amministratore dello specifico obbligo di distribuzione degli utili, ovviamente ove sussistenti.
Diversa sarebbe infine la conclusione ove il socio facesse valere in giudizio la mancata percezione degli utili come derivante da diversi comportamenti di gestione tenuti dall’amministratore, dato che in tali ipotesi il danno lamentato verrebbe a configurarsi quale conseguenza del danno arrecato alla società, e solo in seconda battuta al socio.
Va sul punto conclusivamente affermato il seguente principio di diritto: “Nelle società personali, il socio può agire nei confronti dell’amministratore per far valere la responsabilità extracontrattuale di questi in applicazione analogica dell’art. 2395 c.c. e, ove dedotte la mancata presentazione del rendiconto da parte dell’amministratore, e la conseguente mancata percezione degli utili, deve ritenersi che il socio abbia fatto valere il danno a sé diretto ed immediato”.
2.3.- I motivi terzo e quarto, relativi ambedue alla prova della mancata presentazione dei rendiconti, vanno valutati unitariamente e sono da ritenersi infondati. Premesso che, come già detto sopra, il rendiconto va inteso come la situazione contabile che equivale, quanto ai criteri di valutazione, a quella di un bilancio, va osservato che, nella specie, la Corte d’appello ha motivatamente escluso che la presentazione del “rendiconto dell’impresa individuale Accardo Vincenzo” dal 1977 al 1994 valesse quale rendiconto, e tale circostanziata affermazione non è stata censurata dal ricorrente, che si è invece limitato genericamente a sostenere l’erroneità del richiamo al principio di vicinanza della prova, stante l’estrema difficoltà per la parte di potere dimostrare l’assolvimento dell’obbligo in oggetto, e la mancata valutazione della dichiarazione del L.M. in sede di libero interrogatorio (“…l’amministrazione della società è stata sempre tenuta dall’A. il quale mi presentava il rendiconto all’incirca ogni due anni…”).
La prima censura è già di per sé infondata, atteso che il motivato richiamo al principio della vicinanza della prova, chiaramente sussistente, non può essere contestato solo col riferimento alla “difficoltà” di provare l’adempimento dell’obbligo specifico gravante sull’amministratore; quanto alla censura di vizio di motivazione, oltre a rilevare che il ricorrente non ha neppure dedotto di avere fatto valere avanti al Giudice del gravame la dichiarazione del L.M. di cui si tratta, la stessa non prova l’assolvimento dell’obbligo annuale gravante sull’amministratore, non risultando come fosse resa la rendicontazione.
3.1.- Conclusivamente, il ricorso va respinto.
Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso; condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 3700,00,oltre Euro 200,00 per esborsi; oltre spese forfettarie ed accessori di legge.

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