In tema di ingiuria a un inferiore, la posizione di supremazia gerarchica dell’autore rispetto alla persona offesa non consente di considerare prive di contenuto lesivo espressioni volgari, pure ormai prive di connotazioni offensive nel linguaggio comune e tra pari, in quanto le stesse riacquistano il loro specifico significato spregiativo se rivolte al sottoposto in violazione delle regole di disciplina e dei principi che devono ispirarle in forza dell’art. 52, comma terzo, Cost.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I PENALE
SENTENZA 12 settembre 2016, n.37803
Ritenuto in fatto
Con sentenza del Tribunale Militare di Verona in data 19/06/14 V.V. era dichiarato responsabile dei reati di omessa presentazione in servizio (sub a) e di ingiuria ad inferiore (sub b e c), aggravati dall’essere il suddetto militare investito di un comando, e pertanto veniva condannato, concessegli le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, ad una pena in cumulo di mesi dieci e giorni venti di reclusione militare, oltre spese e conseguenze di legge, con i benefici della sospensione condizionale e della non menzione della condanna. Con sentenza della Corte Militare di Appello del 13/05/15 il V. era assolto dall’omessa presentazione in servizio per insussistenza del fatto; pertanto la pena in cumulo era ridotta a mesi sette e giorni venti di reclusione (con la decurtazione della pena comminata dal Giudice di prime cure per la fattispecie sub a) pari a mesi tre di reclusione), mentre la pronuncia impugnata era confermata nel resto.
Detta sentenza, in sintonia con la sentenza di primo grado, ritiene provata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati di ingiuria ad inferiore aggravata (e continuata quanto al capo b), inferendola dalla deposizione della persona offesa, T.M.S. , che ha riferito delle annotazioni rinvenute il 25.01.11 su una lettera di trasmissione che aveva redatto il giorno prima (“a P.D.!!! sono due persone diverse!!! Non capisci un cazzo! È la terza volta che chiamano per questa cazzo di pratica’), di quanto dettogli dal V. allorquando a seguito di ciò si recava dal medesimo per un chiarimento (‘Non capisci un cazzo, non sai fare niente, qui non sa lavorare nessuno’) ed infine di quanto dettogli dal medesimo per telefono, allorquando il 22 dicembre 2011 lo aveva contattato per chiedergli le ragioni per cui era stata effettuata una variazione nella programmazione dei servizi che gli nuoceva (‘Non sei un cazzo di nessuno, se non ti sta bene vai anche dal Capitano’). E dai riscontri a detta deposizione offerti: a) quanto all’episodio di ingiuria scritta, nella lettera prodotta in giudizio, con le annotazioni di cui sopra, riconosciute in dibattimento dall’imputato come da lui apposte, e nelle dichiarazioni del M.Ilo D. , che riferisce di aver ricevuto lo sfogo del militare offeso e di aver visto la lettera incriminata; b) quanto alle offese telefoniche, dalla deposizione del teste in ultimo citato sulla circostanza che a conclusione della telefonata il T. si lamentava di come era stato trattato e dei toni usati nei suoi confronti dall’imputato e dalle dichiarazioni del Car. Ti. sul fatto che la persona offesa si doleva di essere stato trattato male telefonicamente dal V. . Come evidenziato dalla Corte Militare di Appello, quest’ultimo, oltre a riconoscere come sue le annotazioni di cui sopra, ha affermato di non poter escludere di avere pronunciato le parole di cui in imputazione, pur precisando di non aver avuto l’intenzione di denigrare in tal modo il sottoposto. Inoltre, è emerso dall’istruttoria che lo stesso faceva uso frequente di espressioni grevi anche nei confronti di altri militari.
Il Collegio a quo, pertanto, ritiene la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 196, comma 2, cod. pen. mil. pace, evidenziando come le locuzioni utilizzate dal V. , diversamente da quanto affermato nell’appello in ordine alla loro valenza ‘neutra’, fossero connotate da un’ obiettiva ed evidente portata ingiuriosa, atteso il contesto in cui venivano pronunciate ed in particolare in occasione di un rimprovero e di richieste di chiarimenti e dunque per cause attinenti al servizio e alla disciplina, quali manifestazioni palesi di dispregio delle qualità e delle capacità dell’inferiore ed espressive di un giudizio di disvalore sulla persona dell’interlocutore (discostandosi in detta considerazione dal Collegio di prime cure, laddove ipotizza che l’imputato non avesse l’intenzione di offendere il prestigio, l’onore e la dignità dell’inferiore, quanto quella di sollecitarne l’attenzione e spingerlo ad un più consistente contributo lavorativo). Evidenzia, detto Collegio, inoltre come la giurisprudenza di legittimità – di cui cita numerose sentenze – sia costante nel ritenere configurabile il reato de quo anche nell’uso di espressioni volgari, che nel linguaggio comune hanno perso la loro connotazione offensiva, e che riacquistano in pieno il proprio significato spregiativo in considerazione della posizione di supremazia di chi le profferisce, quando siano rivolte al sottoposto in violazione delle regole di disciplina e dei principi che devono ispirarle in forza dell’art.52, comma 3, della Costituzione; e ciò in ragione del maggiore rispetto della reciproca dignità che deve caratterizzare i rapporti gerarchici. Sottolinea, invero, come la norma che prevede l’ingiuria ad inferiore, tuteli non solo la dignità, l’onore ed il prestigio del subordinato, ma anche la corretta esplicazione del rapporto di gerarchia (beni entrambi, nel caso di specie, lesi). Ed ancora come sia indubbio nel caso sottoposto al suo esame l’elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di fare uso nei confronti di un sottoposto di espressioni offensive, non necessitando l’animus iniuriandi, trattandosi di locuzioni espressive di dispregio utilizzate tra soggetti posti in posizione non paritaria nella compagine militare e in assenza di un clima di reciprocità e condivisione (non essendo emerso dall’istruttoria che il T. ovvero altri militari usavano espressioni dello stesso tenore nei confronti del Comandante).
Escludendo, infine, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’attenuante dell’eccesso di zelo di cui all’art. 48 n. 1 cod. pen. mil. pace, peraltro genericamente invocata e non supportata da alcuna documentazione.
Avverso la sentenza della Corte Militare di Appello ha proposto ricorso in Cassazione, tramite il proprio difensore, V.V. .
2.1 Col primo motivo di impugnazione il difensore lamenta la violazione degli artt. 196, comma 2 e 47 n. 2 cod. pen. mil. pace.
2.2 Col secondo motivo di impugnazione il difensore si duole della mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 43 cod. pen., 196 comma 2 e 47 n. 2 cod. pen. mil. pace.
2.3 Col terzo motivo la difesa lamenta la violazione detl’art.48, comma 1, n.1 cod. pen. mil. pace.
Si insiste, pertanto, per l’annullamento della sentenza impugnata e l’adozione di ogni conseguente provvedimento.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
Infondati, senza dubbio, sono i primi due motivi di impugnazione. Nel primo, in cui viene denunciata violazione di legge in relazione agli articoli che contemplano il reato di ingiuria ad inferiore e l’aggravante contestata, la difesa invoca una lettura ‘costituzionalmente orientata’, nel rispetto dell’art. 3 della Costituzione, dell’art.196 cod. pen. mil. pace, tesa ad equipararne l’applicazione ai criteri che sovrintendono alla configurazione del reato di ingiuria comune, lamentando che non possano caricarsi di un’irrealistica valenza offensiva, come da decisum della Corte Militare di Appello, le espressioni profferite dal M.llo V. , pacificamente entrate a far parte del gergo comune. Secondo il difensore – che, a sostegno della propria tesi, individua una sentenza della Corte Militare di Appello del 2013, che in un caso analogo ha assolto un ufficiale dei carabinieri che aveva minacciato ed ingiuriato un inferiore, perché pressato dall’esigenza di risolvere una questione operativa, per non essersi reso conto appieno della valenza lesiva delle parole – vi dovrebbe essere un opportuno cambiamento di direzione della giurisprudenza di legittimità in relazione ai reati concernenti la disciplina militare.
Nel secondo motivo, ci si duole che la Corte Militare di Appello, nel discostarsi dalla valutazione del Giudice di primo grado sull’assenza dell’intenzione meramente offensiva del V. , che era stata censurata nell’atto di appello come espressiva di contraddittorietà, sì limiti ad affermare apoditticamente il ‘chiaro atteggiamento di disprezzo’ ed il ‘giudizio di disvalore’ dell’imputato, senza averne riscontri, e ricostruisca l’elemento soggettivo del reato in esame in termini di responsabilità oggettiva parlando anche di assenza di animus iniuriandi. Sottolinea, invero, il difensore che la giurisprudenza militare ritiene, ai fini della configurazione del reato in oggetto, necessaria la verifica della volontà di proferire le espressioni offensive nei confronti di inferiori e la consapevolezza della loro attitudine a ledere l’altrui onore e prestigio.
Orbene, in tema di ingiuria a un inferiore, la posizione di supremazia gerarchica dell’autore rispetto alla persona offesa non consente di considerare prive di contenuto lesivo espressioni volgari, pure ormai prive di connotazioni offensive nel linguaggio comune e tra pari, in quanto le stesse riacquistano il loro specifico significato spregiativo se rivolte al sottoposto in violazione delle regole di disciplina e dei principi che devono ispirarle in forza dell’art. 52, comma terzo, Cost. (Sez. 1, n. 7575 del 22/01/2014 – dep. 18/02/2014, Pg in proc. Torre, Rv. 259415; ed in senso conforme Sez. 1, n. 12997 del 10/02/2009 – dep. 25/03/2009, Ottaviano e altro, Rv. 243545).
Si è, inoltre, precisato (Sez. 1 23.10.1997, Rv. 209439) che lì dove un superiore gerarchico voglia esprimere una critica ad un comportamento del sottoposto, senza sconfinare nell’insulto, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale trasgressione realizzata. Se, invece, le frasi adoperate si limitino a recare offesa, non può sostenersi l’assenza di potenzialità ingiuriosa, pur se in ipotesi le stesse siano ricollegabili ad un comportamento scorretto. La valenza offensiva del termine in questione è, dunque, direttamente ricollegabile al suo significato e, pertanto, non può accettarsi una ricostruzione dell’elemento volitivo, come quella invocata dalla difesa, tesa ad attribuire all’agente, in virtù delle particolari circostanze di fatto, una volontà diversa. Pacifica infatti è la punibilità della condotta in riferimento al dolo generico, con irrilevanza dei motivi per cui l’offesa viene rivolta.
Del tutto correttamente, attesa la giurisprudenza di legittimità sopra evidenziata (che dà una lettura ‘costituzionalmente orientata’ della norma in esame, ma in una prospettiva diversa da quella che è invocata dalla difesa e che non si attaglia alla specificità del reato in esame), da cui questa Corte non intende discostarsi, la Corte d’appello ha evidenziato come la posizione di supremazia gerarchica dell’imputato rispetto alla persona offesa impedisse di considerare prive di contenuto lesivo le espressioni da lui usate, ‘in ragione del maggiore rispetto della reciproca dignità che deve caratterizzare i rapporti gerarchici’. Giacché se può ammettersi che nel linguaggio comune e tra pari molte delle espressioni volgari usate hanno perso la loro connotazione offensiva, denotando soltanto impoverimento del linguaggio e dell’educazione, le medesime espressioni rivolte ad un sottoposto, riassumono appieno il loro specifico significato spregiativo e lesivo, penalmente rilevante.
La Corte a qua ben individua, conformemente al dato normativo e all’interpretazione giurisprudenziale di questa Corte, sia l’oggetto giuridico dell’ingiuria ad inferiore (costituito, oltre che dalla tutela della dignità, dell’onore e del prestigio del subordinato, anche della corretta esplicazione del rapporto di gerarchia), che l’elemento soggettivo di detto reato, rappresentato dal dolo generico, in assenza di un animus iniuriandi (che è cosa ben diversa dalla responsabilità oggettiva paventata dalla difesa). Ed evidenzia come, nel pronunciare le frasi in punto di fatto (pag. 1) riportate, l’agente voglia, palesemente, offendere il prestigio e la dignità del soggetto destinatario, non risultando altrimenti ragionevole l’utilizzo reiterato – sia orale che scritto – degli specifici termini (‘non capisci un cazzo’, ‘non sei un cazzo di nessuno’) se non in ipotesi di condivisa e comune (tra i due colloquianti) scherzosità del contesto, tale da azzerare del tutto l’ordinario significato spregiativo del termine. Contesto, senza dubbio, non ravvisabile, come logicamente sottolineato dai Giudici a quibus nel caso in esame, in cui le frasi incriminate erano pronunciate in occasione di un rimprovero e di richieste di chiarimenti e dunque per cause attinenti al servizio e alla disciplina, e in cui non è emerso che la persona offesa T. ovvero altri militari usassero espressioni dello stesso tenore nei confronti del Comandante V. .
Scevro da vizi logici e giuridici è, quindi, l’iter argomentativo esaminato ed infondati i motivi sopra esposti.
Inammissibile è il terzo motivo di ricorso.
Secondo la difesa l’intenzione del V. sarebbe stata di spronare ed incoraggiare l’inferiore a svolgere con maggiore attenzione i propri compiti, come evidenziato anche dal Tribunale Militare. E, pertanto, gli doveva essere riconosciuta l’attenuante dell’eccesso di zelo, rientrando il compito di correggere l’inferiore nei doveri propri dei militari.
Orbene, la richiesta di detta attenuante, come evidenziato dalla Corte a qua, veniva formulata in appello genericamente in quanto ‘non supportata da alcuna argomentazione’. Ed è evidente che in questa sede è preclusa la proponibilità delle argomentazioni di tipo fattuale non sviluppate nel merito e che conseguentemente è inammissibile la richiesta.
Al rigetto consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del V. al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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