Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 13 marzo 2017, n. 6382

La decisione sulla questione pregiudiziale relativa alla validità del marchio può ben essere risolta dal giudice davanti a cui pende la domanda di contraffazione in via incidentale, senza che sia prospettabile l’eventualità di un contrasto tra giudicati, considerato che tale decisione non è idonea ad assumere autorità di giudicato. Per tale motivo, non si fa luogo a sospensione del giudizio di contraffazione in ragione della pendenza avanti altro giudice di domanda di nullità, poiché l’efficacia ultra litem della sentenza che dichiara la nullità del marchio può dar luogo esclusivamente ad un contrasto tra gli effetti pratici delle due pronunce, risolto attraverso l’attribuzione di efficacia retroattiva alla dichiarazione di nullità, con salvezza degli atti esecutivi già compiuti in base a quella di contraffazione, con la conseguenza che non è ipotizzabile una pregiudizialità in senso tecnico giuridico

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

SENTENZA 13 marzo 2017, n.6382

Motivi della decisione

Con il primo motivo sono lamentati omessa, difettosa ed erronea motivazione circa un punto decisivo della controversia. È dedotto che la Corte di appello, nel respingere il gravame della ricorrente, aveva mancato di prendere in considerazione la sentenza della Corte di appello di Venezia del 21 gennaio 2010 la quale, accertando la nullità del marchio ‘O. ‘, aveva stabilito che il cognome O. non aveva, in sé, carattere distintivo dell’attività della sola M. , alla quale preesistevano numerose compagnie circensi con la stessa denominazione. Viene altresì esposto che la Corte di appello di Roma, con sentenza n. 5191 del 1990, si era già espressa nel senso che in campo circense – nel quale le famiglie derivano da un unico capostipite – la capacità distintiva dei segni era data non tanto dal patronimico, che li accomuna, quanto dal prenome degli artisti più famosi nell’ambito di ciascuna compagnia. Nel corpo del motivo si svolgono poi considerazioni quanto alla negata portata caratrerizzante del segno ‘O. ‘ e al preuso di esso da parte della società istante.

Il motivo non ha fondamento.

Con riferimento alle due pronunce invocate (quella della Corte di appello di Venezia e quella della Corte di appello di Roma), a torto la ricorrente adduce il vizio di motivazione. Infatti, il giudicato va assimilato agli elementi normativi (da ultimo: Cass. 10 dicembre 2015, n. 24952), con riferimento ai quali non è deducibile una censura siffatta (per tutte: Cass. S.U. 25 novembre 2008, n. 28054).

Il tema del giudicato, poi, risulterebbe pertinente solo con riferimento a pronunce rese tra le stesse parti dell’odierno giudizio o con riguardo a sentenze che, pur emesse tra diversi contendenti, abbiano accertato la decadenza o la nullità del marchio ‘O. ‘ (di cui si dibatte), giacché, in quest’ultimo caso, la decisione giudiziale avrebbe efficacia erga omnes (art. 123 c.p.i.). In tal senso, va allora subito osservato che la sentenza della Corte di appello di Roma del 17 dicembre 1990 non ha accertato la decadenza o la nullità del marchio oggi in contestazione, né essa risulta pronunciata tra le parti del giudizio odierno.

Deve essere pure rilevato che affinché il giudicato esterno possa far stato nel processo, necessaria la certezza della sua formazione, la quale deve essere provata attraverso la produzione della sentenza con il relativo attestato di cancelleria (Cass. 19 settembre 2013, n. 21469; Cass. 29 agosto 2013, n. 19883; Cass. 8 maggio 2009, n. 10623; Cass. 24 novembre 2008, n. 27881). La sentenza della Corte di appello di Venezia non risulta essere stata prodotta: non si vede, dunque, come se ne possa invocare l’efficacia nella presente controversia. Sarebbe poi superfluo aggiungere, in considerazione di quanto osservato con riferimento alla sentenza del 1990, che la copia prodotta di quest’ultima pronuncia non contiene, comunque, l’attestazione del passaggio in giudicato.

Il procuratore generale ha nondimeno concluso per l’accoglimento del ricorso richiamando, in tema di nullità del marchio ‘O. ‘, la recente pronuncia di Cass. 15 marzo 2016, n. 5079. Con tale sentenza è stato respinto il ricorso proposto da N.W. e Pista 2000 nei confronti di Armando O. (che non è parte del presente giudizio) avverso una sentenza della Corte di appello di Torino: il giudizio – come si legge nella menzionata decisione di questa, S.C. – aveva ad oggetto l’inibitoria all’utilizzo del segno ‘O. ‘ (oltre che la pubblicazione del provvedimento e la fissazione di una penale per ogni trasgressione al disposto divieto).

Si desume dalla sentenza n. 5079 del 2016 che la Corte di Torino aveva rilevato che il marchio ‘O. ‘, del quale era titolare N. , era nullo per contrasto con l’art. 7 reg. 40/94/CE, il quale richiede la novità del segno come condizione del suo carattere distintivo.

La sentenza richiamata non è tuttavia decisiva ai fini che qui interessano.

Occorre premettere, riprendendo un argomento pocanzi solo accennato, che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto, di regola, soltanto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (art. 2909 c.c.): in tal senso, l’espressa previsione dell’efficacia erga omnes del giudicato di nullità del titolo di proprietà industriale – già sancita dall’art. 79, 1 co. r.d. n. 1127/1939 per i brevetti di invenzione e dall’art. 58, 3 co. r.d. n. 929/1942 per i marchi di impresa, e che oggi trova espressione nella previsione dell’art. 123 c.p.i. – costituisce deroga ad una regola generale. In detta prospettiva, questa Corte si è più volte espressa nel senso che, in base alla disciplina nazionale in tema di brevetti e di marchi, ove la – nullità del titolo di proprietà industriale sia proposta in via di mera eccezione, il relativo accertamento è compiuto incidenter tantum (per tutte: Cass. 17 novembre 2011, n. 24179; Cass. 16 luglio 2004 n. 13159), sicché la pronuncia assunta nel giudizio relativo alla contraffazione non è idonea ad assumere autorità di giudicato in ordine alla questione relativa alla nullità o validità del brevetto (sul punto, da ultimo, Cass. 25 luglio 2016, n. 15339, ove il richiamo a Cass. 22 novembre 2006, n. 24859, secondo cui, per l’appunto, il giudice della contraffazione definisce la questione pregiudiziale relativa alla nullità del brevetto in via incidentale, senza che sia prospettabile l’eventualità di un contrasto tra giudicati tra la sua pronuncia e quella resa dal giudice cui sia stata proposta una vera e propria domanda di nullità del titolo di privativa; in senso conforme alla sentenza da ultimo richiamata è Cass. 3 ottobre 2012, n. 16830).

Ove, poi, venga in questione la contraffazione del marchio comunitario, l’art. 54 reg. (CE) n. 40/94, ora art. 55 reg. (CE) 207/09, considera ‘privo degli effetti’ previsti dal regolamento comunitario il marchio ‘nella misura’ in cui esso ‘è dichiarato parzialmente o interamente nullo’: e tale espressione pare evidentemente riferita alle decisioni rese a seguito di vera e propria domanda, non implicando l’accoglimento dell’eccezione di nullità (che sia stata opposta nella causa di contraffazione del marchio) alcuna declaratoria di invalidità della. Ove, quindi, la nullità sia opposta dal convenuto nel giudizio di contraffazione – come si ricava essere accaduto nella controversia cui ha messo capo la sentenza n. 5079 del 2016 di questa Corte – è evidentemente necessario, ai fini del prodursi di un giudicato munito della suddetta efficacia ultra partes, che essa sia fatta valere con una domanda riconvenzionale di nullità, a norma degli artt. 96 reg. (CE) n. 40/94 e 100 reg. (CE) n. 207/09.

Risulta del resto significativo che l’art. 96.6 del regolamento n. 40/94 e l’art. 100.6 del regolamento n. 207/09 prevedano l’iscrizione nel registro dei marchi comunitari delle sole decisioni, passate in giudicato, ‘in merito ad una domanda riconvenzionale di decadenza o di nullità di un marchio comunitario’. La norma non fa riferimento alle decisioni in cui il tribunale dei marchi comunitari accolga una semplice eccezione di nullità: ma ciò, a ben vedere, è agevolmente comprensibile. Infatti, la detta registrazione va correlata a quell’effetto definito dalla dottrina di vera e propria ‘radiazione’ del marchio riconosciuto nullo: effetto che si concreta nell’efficacia assoluta della riconosciuta nullità, che non può essere opponibile ad alcuni soggetti e inopponibile ad altri. L’assenza di una prescrizione che imponga la registrazione della pronuncia con cui si accolga una semplice eccezione di nullità si spiega, dunque, proprio con l’insussistenza, in quest’ultimo caso, di una efficacia erga omnes della sentenza.

Ciò posto, la pronuncia citata dal pubblico ministero non consente di affermare che nel giudizio avente ad oggetto la contraffazione del marchio comunitario ‘O. ‘, conclusosi, in sede di legittimità, con la sentenza n. 5079 del 2016, fosse stata proposta una vera e propria domanda riconvenzionale di nullità del marchio comunitario e che, in conseguenza, in quel procedimento il segno distintivo di cui qui si dibatte sia stato dichiarato privo di effetti, secondo quanto in precedenza chiarito. In conseguenza, non è possibile sostenere che l’accertamento svolto in detta sede spieghi effetti nel presente giudizio.

Per il resto, il motivo è incentrato su questioni di fatto, le quali – come è ben noto – non possono essere prospettate alla Corte di legittimità.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Asserisce la società istante che alla luce della giurisprudenza, da essa citata della dichiarazione di nullità del marchio ‘O. ‘, doveva negarsi capacità distintiva a tale segno, con la conseguenza che la condotta del Circo P.O. non poteva integrare concorrenza sleale. D’altro canto, è aggiunto, l’estrema notorietà di O.M. escludeva che chi si recasse ad assistere a uno spettacolo del circo di P.O. potesse essere convinto di trovarvi O.M. .

Anche tale motivo deve essere disatteso.

Poiché la nullità del marchio non risulta da un giudicato con effetti erga omnes oggetto di appropriata documentazione, non sono concludenti le considerazioni in diritto che si basano su una tale, indimostrata, premessa.

Mette conto poi di rammentare che l’apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità dei segni è incensurabile in cassazione se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. 28 febbraio 2006, n. 4405; Cass. 28 ottobre 2005, n. 21086; Cass. 4 dicembre 1999, n. 13592).

Ora, la sentenza impugnata ha evidenziato come l’associare la parola ‘P. ‘, che è un nome di battesimo, al termine ‘O. ‘ non è sufficiente ad escludere da confondibilità del segno tra le strutture operanti nel; settore circense, rilevando, altresì, come l’odierna società ricorrente non avesse nemmeno provato che ‘P.O. ‘ corrisponda al patronimico di un suo socio attuale.

Quest’ultima proposizione si basa su di un insindacabile accertamento di fatto: e tale accertamento è assorbente rispetto al rilievo per cui, in ogni caso, l’utilizzazione commerciale del nome patronimico, corrispondente al marchio già registrato da altri, non può avvenire in funzione distintiva, ma solo descrittiva (per tutte: Cass. 14 marzo 2014, n. 6021; Cass. 29 dicembre 2011, n. 29879).

Ha precisato poi la Corte distrettuale che la confusione tra i segni e i prodotti era idonea a determinare, nel caso specifico, l’inesatto convincimento ‘di un collegamento tra le rispettive attività circensi delle parti, con la possibilità che l’utilizzatore abusivo del marchio ottenga da tale situazione ricadute vantaggiose indebite’.

Tale affermazione risulta essere corretta giuridicamente, nel senso che il rischio di confusione tra marchi può consistere anche nel pericolo di associazione tra i segni in conflitto, come risulta confermato dagli artt. 12 e 20 c.p.i.. Il pericolo di associazione, in tema di segni distintivi, consiste, infatti, proprio; nel rischio che il pubblico sial. indotto in errore circa la sussistenza di un particolare legame commerciale o di gruppo tra l’impresa terza e il titolare del marchio, ovvero sia spinto a supporre che i due prodotti provengano da imprese distinte tra le quali intercorrano rapporti di licenza o di autorizzazione all’uso del marchio stesso (così Cass. 21 dicembre 2007, n. 27081, con riferimento all’abrogata disciplina di cui al r.d. n. 929/1942). Naturalmente, analogo pericolo confusorio, basato sull’associazione, può ipotizzarsi anche con riferimento ai prodotti che i segni, uguali o simili, contraddistinguano (essendo noto, al riguardo che l’attività illecita, consistente nell’appropriazione o nella contraffazione di un marchio, mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall’imprenditore concorrente, può essere da quest’ultimo dedotta a fondamento non soltanto di un’azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio, ma anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti: Cass. 19 giugno 2008, n. 16647).

La censura svolta dalla ricorrente (in ordine al fatto che il pubblico che accorre agli spettacoli del Circo P.O. non può credere di recarsi a uno spettacolo circense di O.M. ) non coglie allora nel segno, in quanto prospetta una ipotesi di confusione (tra segni o prodotti) ben diversa da quella delineata dalla impugnata sentenza: infatti – si ripete – questa ha valorizzato il pericolo dell’insorgere di un inesatto convincimento, nel pubblico, circa il collegamento tra le attività dei due operatori economici, e cioè il rischio di associazione di cui si è sopra detto.

Il ricorso va in conclusione respinto.

Nulla deve statuirsi in punto di spese processuali, stante il mancato svolgimento di attività processuale da parte dell’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso

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