Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

S.U.P.

sentenza 3 dicembre 2015, n. 47766

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SANTACROCE Giorgio – Presidente

Dott. AGRO’ Antonio S. – Consigliere

Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe – Consigliere

Dott. CONTI Giovanni – Consigliere

Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere

Dott. ROTUNDO Vincenzo – rel. Consigliere

Dott. PAOLONI Giacomo – Consigliere

Dott. FUMO Maurizio – Consigliere

Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

1. (OMISSIS), nato ad (OMISSIS);

2. (OMISSIS), nata ad (OMISSIS);

avverso la sentenza del 05/03/2014 della Corte di appello di Palermo;

visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal componente Vincenzo Rotundo;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott. STABILE Carmine, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;

udito per le parti civili l’avv. (OMISSIS), in sostituzione dell’avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 5 marzo 2014 la Corte di appello di Palermo ha confermato la decisione in data 19 febbraio 2013, con la quale il Tribunale di Agrigento aveva dichiarato (OMISSIS) e (OMISSIS) colpevoli del reato di concorso in lesioni personali in danno di (OMISSIS) nonche’, soltanto il primo, del reato di minacce in danno di (OMISSIS) e di (OMISSIS), condannandoli alla pena (condizionalmente sospesa) di tre mesi di reclusione, il primo, e di due mesi di reclusione, la seconda, nonche’ al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.

2. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, con un unico atto, (OMISSIS) e (OMISSIS), per mezzo del comune difensore, denunciando inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonche’ vizi di motivazione attraverso cinque motivi, di seguito sinteticamente enunciati nei limiti di cui all’articolo 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

Con il primo motivo si contesta l’omessa valutazione, con il necessario rigore, delle testimonianze delle parti civili operata dalla Corte di appello, che non avrebbe considerato le macroscopiche contraddizioni dei racconti dei coniugi (OMISSIS)- (OMISSIS).

Il secondo motivo denuncia che la minaccia imputata a (OMISSIS) avrebbe dovuto essere considerata semplice, tenuto conto della provenienza da un soggetto anziano e innocuo nonche’ del contesto in cui erano state pronunciate le frasi minacciose, come pure dell’inidoneita’ a cagionare un vero timore ai destinatari.

Il terzo motivo eccepisce l’inammissibilita’ della costituzione di parte civile di (OMISSIS) nei confronti di (OMISSIS), riguardando la condotta ascritta a quest’ultima solo (OMISSIS), e nei confronti di (OMISSIS) per il reato di lesioni, sempre perche’ relativo alla sola (OMISSIS), nonche’ per il reato di minaccia, previa derubricazione in minaccia semplice, per mancanza di querela.

Il quarto motivo invoca la carenza dell’elemento soggettivo e dell’elemento materiale del reato.

Il quinto motivo deduce che la pena irrogata agli imputati sarebbe eccessiva e dovrebbe essere ridotta al minimo edittale.

3. La Quinta Sezione penale, assegnatala dei ricorsi, con ordinanza del 27 marzo 2015, depositata il successivo 14 aprile, ha rimesso i ricorsi stessi alle Sezioni Unite.

La Sezione rimettente rileva, preliminarmente, che i ricorsi risultano inammissibili per plurime ragioni.

Con specifico riguardo al primo motivo, si osserva che alcune doglianze sono del tutto carenti della necessaria correlazione con le argomentazioni della decisione impugnata; inoltre le diverse censure basate sulla ricostruzione delle dichiarazioni delle due persone offese sono aspecifiche, in quanto, lungi dall’offrire un quadro esaustivo delle testimonianze prese in considerazione dai giudici di merito e dallo svolgere, in riferimento a tale analitico e completo quadro di riferimento, le critiche alla decisione impugnata, i ricorrenti si limitano a segnalare, in modo del tutto frammentario, alcuni profili di tali testimonianze, cosi’ rimettendo, in buona sostanza, al giudice di legittimita’ un’inammissibile rivalutazione generale e complessiva del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito.

Il secondo motivo e’ del pari valutato inammissibile perche’ deduce questioni sostanzialmente di merito, sollecitando una rivisitazione, esorbitante dai compiti del giudice di legittimita’, della valutazione del materiale probatorio che la Corte distrettuale ha operato, sostenendola con motivazione coerente con i dati probatori richiamati e immune da vizi logici.

La Sezione rimettente valuta inammissibile anche il terzo motivo, in quanto privo della necessaria correlazione con le argomentazioni della decisione impugnata (che, sul punto, ha richiamato il danno subito da (OMISSIS) in quanto coniuge della persona offesa).

Il quarto motivo e’ giudicato manifestamente infondato, giacche’, sulla base dell’argomentata ricostruzione dei fatti, la Corte di merito ha ritenuto del tutto evidente e provata la volontarieta’ delle condotte poste in essere dagli imputati.

Il quinto motivo e’ considerato del tutto generico: la Corte di merito aveva gia’ rilevato la genericita’ dell’analogo motivo di gravame, osservando, comunque, che la pena irrogata, davvero contenuta e accompagnata dall’applicazione delle circostanze attenuanti generiche (in ragione dell’incensuratezza e dell’eta’ degli imputati), trovava giustificazione in ragione, soprattutto, dello stato di gravidanza di (OMISSIS). A fronte della motivazione della Corte di appello, il motivo di ricorso ribadisce i riferimenti all’eta’ e all’incensuratezza degli imputati, omettendo il confronto con le ulteriori argomentazioni della sentenza impugnata.

4. La Quinta Sezione rileva, altresi’, che l’unico atto di ricorso e’ stato presentato oltre il termine di legge. La sentenza della Corte di appello di Palermo e’ stata deliberata il 5 marzo 2014, con l’indicazione in dispositivo, ex articolo 544 c.p.p., comma 3, del termine di trenta giorni per il deposito della motivazione, avvenuto il successivo 4 aprile 2014. La notificazione dell’avviso di deposito con l’estratto del provvedimento agli imputati contumaci e’ stata effettuata il 7 maggio 2014, termine che scadeva per ultimo a norma dell’articolo 585 c.p.p., comma 3. Il termine per la presentazione del ricorso e’ scaduto in data 21 giugno 2014 (sabato), mentre il ricorso e’ stato presentato il 23 giugno 2014.

5. La Sezione rimettente puntualizza, inoltre, che la pena inflitta ad (OMISSIS) e’ illegale: l’imputata e’ stata condannata per il solo reato di lesioni, relativo, come si evince dal capo di imputazione e dalla sentenza di primo grado, a malattia di durata inferiore ai venti giorni, ossia per un reato rientrante nella competenza del giudice di pace.

Ad avviso della Quinta Sezione, e’ illegale anche la pena inflitta a (OMISSIS), che e’ stato condannato per il medesimo reato ascritto a (OMISSIS) e per il reato di minaccia grave: infatti, per un verso, la sentenza di primo grado, confermata da quella di appello, ritenuta la continuazione tra i due reati, ha considerato piu’ grave il reato di lesioni, mentre, per altro verso, rispetto a quest’ultimo reato, ha operato – sulla base della comminatoria edittale codicistica e non di quella prevista dal Decreto Legislativo n. 274 del 2000 – la riduzione per l’applicazione dell’articolo 62 bis c.p., e, quindi, l’aumento per la continuazione con il reato di minaccia.

Con riferimento alla riconducibilita’ del reato di lesioni nell’ambito di quelli rientranti nella competenza del giudice di pace, osserva altresi’ il Collegio che, secondo l’orientamento di gran lunga maggioritario nella giurisprudenza di legittimita’, la disciplina dettata dal Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 48, “non incide sul disposto di cui all’articolo 23 c.p.p., comma 2, che disciplina il potere della parte di eccepire l’incompetenza per materia, allorche’ la stessa appartiene ad un giudice inferiore, ancorandola, a pena di decadenza, al termine stabilito dall’articolo 491 c.p.p., comma 1” (Sez. 5, n. 15727 del 22/1/2014, Battolo, Rv. 260560); infatti, l’incompetenza del tribunale a conoscere di reati appartenenti alla competenza del giudice di pace va appunto eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall’articolo 491 c.p.p., comma 1, come richiamato dall’articolo 23 c.p.p., comma 2, (Sez. 3, n. 31484 del 12/06/2008, Infante, Rv. 240752).

La disciplina dettata dall’articolo 48 cit., dunque, deve essere interpretata nel senso che “essa non deroga al regime della non rilevabilita’ d’ufficio dell’incompetenza per materia del tribunale a favore del giudice di pace, ma stabilisce semplicemente che, qualora il giudice, secondo le regole fissate nel codice di procedura penale, debba dichiarare l’incompetenza per materia a favore del giudice pace, lo fa con sentenza e trasmettendo gli atti al pubblico ministero e non direttamente al giudice di pace” (Sez. 3, n. 21257 del 05/02/2014, C, Rv. 259655; contra, isolatamente, Sez. 3, n. 12636 del 02/03/2010, Ding, Rv. 246816).

Nel caso di specie, il Collegio osserva che l’incompetenza del tribunale a conoscere dei reati in questione non e’ stata rilevata ne’ risulta eccepita.

6. Fatte queste premesse, la Quinta Sezione ha constatato l’esistenza di un contrasto, nella giurisprudenza di legittimita’, in ordine alla rilevabilita d’ufficio dell’illegalita’ della pena in caso di inammissibilita’ del ricorso, contrasto per la cui risoluzione e’ stata rimessa la decisione alle Sezioni unite.

Un primo orientamento esclude detta rilevabilita. Richiamata l’elaborazione della giurisprudenza di legittimita’ (Sez. U, n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211469; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266; Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164) che ha parificato agli effetti giuridici processuali “tutte le cause di inammissibilita’ che precludono la formazione di una valido rapporto di impugnazione e impediscono l’esercizio del potere di cognizione del giudice ad quem anche per le questioni rilevabili ex officio”, in Sez. 5, n. 24926 del 03/12/2003, Marullo, Rv. 229812 si afferma che la regola della rilevabilita’ d’ufficio della pena illegale “incontra un limite, anche nel caso di ius superveniens, nella inammissibilita’ dell’impugnazione, che preclude l’esercizio del potere di cognizione e decisione di qualsiasi questione”. Nella medesima prospettiva, Sez. 5, n. 36293 del 09/07/2004, Raimo, Rv. 230636 (poi richiamata da Sez. U, n. 8413 del 20/12/2007, dep. 2008, Cassa, Rv. 238467) specifica che l’inammissibilita’ del ricorso non consente l’esercizio del potere-dovere di decidere la questione, rilevabile d’ufficio, concernente la violazione del principio di legalita’ della pena e, in applicazione di tale principio, pur rilevando l’illegittimita’ della pena applicata dal giudice di appello per il reato di lesioni lievissime (che rientra nella competenza del giudice di pace ed e’ punito con la multa e non con la reclusione, anche nel caso in cui il processo sia celebrato davanti a giudice diverso) e, pur ritenendo, in assenza di specifiche doglianze al riguardo da parte del ricorrente, che si tratti di questione rilevabile d’ufficio, afferma la prevalenza della declaratoria di inammissibilita’ sulla declaratoria d’ufficio. Piu’ di recente, Sez. 2, n. 44667 del 08/07/2013, Aversano, Rv. 257612, considera che la violazione del principio di legalita’ della pena e’ rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di cassazione a condizione che il ricorso non sia inammissibile e l’esame della questione rappresentata non comporti accertamenti in fatto o valutazioni di merito incompatibili con il giudizio di legittimita’.

Secondo un diverso indirizzo, l’inammissibilita’ del ricorso non impedisce alla Corte di cassazione di procedere al necessario annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui abbia provveduto ad infliggere una pena illegale: in un caso di inammissibilita’ del ricorso per genericita’ o manifesta infondatezza dei motivi, Sez. 5, n. 24128 del 27/04/2012, Di Cristo, Rv. 253763 sottolinea che il principio di legalita’ ex articolo 1 c.p., e la funzione costituzionale della pena ex articolo 27 Cost., “non appaiono conciliabili con la applicazione di una sanzione non prevista dall’ordinamento”. In linea con l’impostazione appena richiamata, Sez. 5, n. 46122 del 13/06/2014, Oguekemma, Rv. 262108 afferma che l’illegalita’ della pena, dipendente da una statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento consumativo del reato, e’ rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile. In questa prospettiva, si e’ osservato che il “principio della funzione rieducativa della pena, imposta dall’articolo 27, comma 3, e’ fra quelli che, di recente, ed in ossequio alla evoluzione interpretativa determinata dai principi della CEDU, le Sezioni Unite hanno riconosciuto essere in opposizione all’esecuzione di una sanzione penale rivelatasi, pure successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima (Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano, Rv. 258651). Non vi e’ motivo, a maggior ragione, per escludere che la illegalita’ della pena inflitta, dipendente da una statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento di consumazione del reato, possa e debba essere rilevata, prima della formazione del giudicato ed a prescindere dalla articolazione di un corrispondente motivo di impugnazione, pure in presenza di un ricorso caratterizzato da inammissibilita’, nella specie, non originaria”. Nel solco del medesimo orientamento, Sez. 1, n. 15944 del 21/03/2013, Aida, Rv. 255684 afferma che l’inammissibilita’ del ricorso per cassazione non impedisce alla Suprema Corte di procedere al necessario annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui abbia provveduto ad irrogare una pena illegale.

7. Il Primo Presidente, con decreto del 17 aprile 2015, ha assegnato ex articolo 618 c.p.p., il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna pubblica udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. In primo luogo deve rilevarsi che in effetti, come sottolineato dalla Sezione rimettente (v. il punto 4 del Ritenuto in fatto), il ricorso per cassazione in esame (proposto con unico atto nell’interesse di (OMISSIS) e di (OMISSIS)) e’ inammissibile per tardivita’, posto che la sentenza impugnata e’ stata deliberata in data 5 marzo 2014, con l’indicazione in dispositivo, ex articolo 544 c.p.p., comma 3, del termine di trenta giorni per il deposito della motivazione, avvenuto il successivo 4 aprile 2014. La notificazione dell’avviso di deposito con l’estratto del provvedimento agli imputati contumaci e’ stata effettuata il 7 maggio 2014 (termine che scadeva per ultimo a norma dell’articolo 585 c.p.p., comma 3). Conseguentemente il termine per la presentazione del ricorso scadeva in data 21 giugno 2014 (sabato), mentre il ricorso risulta presentato il 23 giugno 2014.

In secondo luogo va evidenziato che correttamente la Sezione rimettente (v. il punto 5 del Ritenuto in fatto) ha rilevato la illegalita’ della pena inflitta sia ad (OMISSIS) (condannata a due mesi di reclusione per il solo reato di lesioni, relativo a malattia di durata inferiore ai venti giorni, ossia per un reato rientrante nella competenza del giudice di pace) sia ad (OMISSIS) (condannato a tre mesi di reclusione per il medesimo reato ascritto a (OMISSIS) e per il reato di minaccia grave, avvinti dalla continuazione, ritenuto piu’ grave il reato di lesioni ed operati rispetto a quest’ultimo reato la riduzione ex articolo 62 bis c.p., e il successivo aumento ex articolo 81 c.p., comma 2, in riferimento al reato di minaccia sulla base della comminatoria edittale codicistica e non di quella prevista dal Decreto Legislativo n. 274 del 2000).

2. Fatte queste premesse, va puntualizzato che la questione rimessa alle Sezioni Unite riguarda l’individuazione dell’ambito di cognizione rimesso al giudice dell’impugnazione inammissibile e, segnatamente, la possibilita’ che detto giudice rilevi d’ufficio l’illegalita’ della pena inflitta, pur a fronte di un ricorso per cassazione inammissibile. In particolare, il quesito posto alle Sezioni Unite puo’ essere cosi’ ricostruito: “se sia rilevabile d’ufficio, in sede di legittimita’, in presenza di ricorso inammissibile, in quanto presentato fuori termine, l’illegalita’ della pena determinata dall’applicazione di sanzione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento di consumazione del reato”.

3. Le Sezioni Unite sono state recentemente chiamate a risolvere la questione relativa alla possibilita’ per la Corte di cassazione di rilevare d’ufficio, anche in caso di inammissibilita’ del ricorso, la nullita’ sopravvenuta della sentenza in conseguenza della illegalita’ della pena determinata da dichiarazione di illegittimita’ costituzionale (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli).

Il quesito allora posto alle Sezioni Unite atteneva alla legalita’ della pena come conseguenza degli affetti della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente il Decreto Legge n. 272 del 2005, articoli 4 bis e 4 vicies ter, inseriti nella legge di conversione n. 49 del 2006, determinando la reviviscenza del Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 73, nell’originaria formulazione, che prevede sanzioni piu’ miti per le droghe c.d. leggere.

Le Sezioni Unite, dopo avere rilevato che il contrasto esistente nella giurisprudenza di legittimita’ in riferimento alla specifica questione (rilevabilita’ d’ufficio della illegalita’ della pena in conseguenza di pronuncia di illegittimita’ costituzionale in caso di inammissibilita’ del ricorso) in realta’ si ritrova anche nella giurisprudenza relativa al tema generale della legalita’ della pena (che cioe’ non derivi da una pronuncia di illegittimita’ costituzionale), hanno preliminarmente puntualizzato che alle origini del contrasto giurisprudenziale segnalato si pone la diversa valorizzazione attribuita all’ambito applicativo dell’articolo 609 c.p.p., comma 2, che, come e’ noto, consente alla Corte di cassazione di decidere le questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, oltre quelle che non siano state dedotte prima per impossibilita’ oggettiva.

Si e’ poi illustrato il percorso interpretativo che ha condotto la giurisprudenza di questa Corte ad individuare gli spazi di cognizione del giudice di legittimita’ rispetto alle cause di non punibilita’ di cui all’articolo 129 c.p.p., in presenza di ricorso inammissibile, con il graduale superamento della classica distinzione tra cause di inammissibilita’ originarie e sopravvenute fino ad approdare ad una categoria unitaria della causa di inammissibilita’, riconoscendo la prevalenza della declaratoria di inammissibilita’ su quella della non punibilita’, realizzando una progressiva erosione degli spazi riservati alla operativita’ dell’articolo 129 c.p.p..

Si tratta di una giurisprudenza che ha sviluppato una visione sostanzialistica della dinamica impugnatoria e delle relative conseguenze sul piano delle preclusioni processuali, puntualizzando che quando il ricorso per cassazione e’ ab origine affetto da inammissibilita’ non puo’ considerarsi idoneo ad instaurare un rapporto di impugnazione e, di conseguenza, risultano inibiti i poteri officiosi del giudice, compresa la possibilita’ di rilevare d’ufficio le cause di non punibilita’ di cui all’articolo 129 c.p.p. (Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, Cresci; Sez. U, n. 15 del 30/06/1999, Piepoli; Sez. U, n. 32 del 02/11/2009, De Luca; Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera; Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale). In base a questa giurisprudenza le cause di inammissibilita’ sono soggette ad un regime unitario (dal momento che producono il medesimo risultato, quello di non consentire la trattazione del “merito”) e in presenza di una fattispecie di invalidita’ della impugnazione non si stabilisce un valido rapporto processuale: anche la manifesta infondatezza, in quanto collocata tra le cause di inammissibilita’, non e’ idonea a fornire la forza propulsiva all’atto di impugnazione per accedere all’ulteriore grado del processo.

Tuttavia la giurisprudenza citata, che, nell’esaminare il rapporto tra inammissibilita’ e cause di non punibilita’, valorizza il dato processuale rispetto a quello sostanziale, individua alcune ipotesi in cui l’impugnazione inammissibile non condiziona l’accertamento del giudice. Sono i casi in cui la cognizione del giudice, nonostante il ricorso inammissibile, cade sull’accertamento dell’abolitio criminis o della dichiarazione di illegittimita’ costituzionale della norma incriminatrice formante oggetto dell’imputazione, deroghe che vengono giustificate dall’eccezionale possibilita’ di incidere in executivis sul provvedimento in relazione al quale si e’ formato il giudicato formale, cosi’ come previsto dall’articolo 673 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca e n. 23428 del 22/03/2005, Bracale; e da ultimo Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto).

In queste decisioni si osserva come l’eccezionale possibilita’ di incidere in executivis sul provvedimento contrassegnato dalla formazione del giudicato formale parrebbe comportare, al pari dell’ipotesi in cui debba essere dichiarata l’estinzione del reato a norma dell’articolo 150 c.p., che a tanto possa provvedere il giudice dell’impugnazione inammissibile – indipendentemente dalla procedura nel concreto seguita – a meno che il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione del ricorso abbia gia’ trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca).

In definitiva, il principio ribadito nell’ultimo approdo delle Sezioni Unite (sent. n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli) e’ il seguente: “nel giudizio di cassazione l’illegalita’ della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalita’ di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio e’ rilevabile d’ufficio anche in caso di inammissibilita’ del ricorso, tranne che nel caso di ricorso tardivo”.

4. Come si e’ visto, le Sezioni unite hanno gia’ chiarito (da ultimo nella sentenza n. 33040 del 2015, Jazouli) che una deroga alla prevalenza del rilievo della illegalita’ della pena sul giudicato sostanziale e’ rappresentata dal ricorso tardivamente proposto. In questo caso si e’ in presenza di una impugnazione sin dall’origine inidonea a instaurare un valido rapporto processuale, in quanto il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione della impugnazione ha gia’ trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale (v. anche la citata sentenza n. 32 del 2000, De Luca), sicche’ il giudice dell’impugnazione si limita a verificare il decorso del termine e a prenderne atto. Questa speciale causa di inammissibilita’ e’ quindi preclusiva di un’eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio, anche dinanzi alla declaratoria di incostituzionalita’ della pena (nello stesso senso alcune decisioni recenti relative al tema delle modifiche che hanno interessato la pena per le droghe “leggere”: Sez. 4, n. 24638 del 06/05/2014, Valle, Rv. 259381; Sez. 4, n. 24544 del 06/05/2014, Chourabi, 260908).

Non resta quindi che riaffermare in questa sede la natura dirimente della inammissibilita’ contrassegnata dalla inosservanza del termine per impugnare, destinata comunque a prevalere anche in un caso, come quello in esame, di illegalita’ ab origine della pena (v. Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, Rv. 227681, Chiasserini). Si tratta, del resto, di affermazione di principio costantemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimita’, che ha chiarito che il ricorso tardivo configura un caso in cui fa difetto un presupposto essenziale, legislativamente previsto, per la stessa configurabilita’ di un atto di impugnazione, sicche’ ci si trova in presenza di un atto inidoneo ad introdurre il giudizio di impugnazione ed alla instaurazione di un valido rapporto processuale. Si e’ in questo caso in presenza di un simulacro di gravame che il provvedimento giudiziale di inammissibilita’, per la sua natura dichiarativa, rimuove dalla realta’ giuridica fin dal momento della sua origine. La declaratoria di inammissibilita’ si risolve quindi nella constatazione che si e’ ormai formato un giudicato in senso sostanziale fin dall’insorgenza della causa stessa di inammissibilita’, concretizzatosi alla scadenza dei termini per proporre l’impugnazione. La pronunzia e’ quindi finalizzata ad impedire l’inutile prosecuzione di una attivita’ comunque destinata a sfociare, a norma dell’articolo 591 c.p.p., comma 4, anche a posteriori, in un accertamento negativo di pendenza del processo (Sez. U, n. 15 del 30/06/1999, Rv. 213981, Piepoli).

D’altra parte, in base all’articolo 648 c.p.p., comma 2, la sentenza contro la quale e’ ammessa l’impugnazione e’ irrevocabile “quando e’ inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile”. Il secondo termine contiene un riferimento al disposto dell’articolo 591 c.p.p., comma 2, secondo cui il giudice dell’impugnazione, anche di ufficio, dichiara con ordinanza l’inammissibilita’ e dispone l’esecuzione del provvedimento impugnato.

La giurisprudenza di legittimita’ ha interpretato l’articolo 648 c.p.p., comma 2, nel senso seguente: quando e’ inutilmente decorso il termine per proporre impugnazione, la sentenza e’ irrevocabile, a prescindere dall’esito del relativo giudizio; in quella sede, peraltro, si potra’ verificare che l’impugnazione non sia, in realta’, tardiva (si pensi ad un’impugnazione presentata in luogo diverso da quello in cui fu emesso un provvedimento, tardivamente trasmessa), ma se, al contrario, la tardivita’ sia confermata, la relativa ordinanza non potra’ che prendere atto di un’irrevocabilita’ gia’ verificatasi. Questa soluzione e’ imposta dall’utilizzo della particella disgiuntiva “o” che separa le due ipotesi dell’inutile decorso del termine per proporre impugnazione e dell’inutile decorso del termine per impugnare l’ordinanza di inammissibilita’ dell’impugnazione, particella quale indica che l’evento della irrevocabilita’ si compie quando si verifica anche una sola delle due ipotesi contemplate. L’interpretazione contraria secondo cui l’articolo 648 c.p.p., comma 2, stabilisce il principio che, nel caso sia stata proposta impugnazione tardiva, la irrevocabilita’ della sentenza interviene solo con l’inutile decorso del termine per proporre impugnazione avverso la pronuncia che dichiara la inammissibilita’, mostra tutti i suoi limiti la’ dove si consideri l’ipotesi di una impugnazione largamente tardiva, che comporterebbe, accettando la tesi difensiva, il venir meno dell’irrevocabilita’ della sentenza e l’obbligo di sospensione dell’esecuzione di una sentenza da tempo ormai definitiva. A parte il fatto che detta tesi manca di base testuale: il legislatore avrebbe usato una formula diversa, se avesse voluto stabilire l’inapplicabilita’ della prima ipotesi (quella dell’inutile decorso del termine per proporre impugnazione) nel caso di un’impugnazione, anche tardiva. L’articolo 648, comma 2, cod. proc. pen. deve, quindi, essere interpretato nel senso che il riferimento all’ordinanza di inammissibilita’ dell’impugnazione contenuto nella seconda ipotesi riguardi le cause di inammissibilita’ diverse dalla tardivita’ dell’impugnazione. Ne discende che la sentenza penale e’ irrevocabile, e deve pertanto essere necessariamente eseguita a cura del pubblico ministero, quando e’ inutilmente decorso il termine per proporre impugnazione, anche nel caso in cui questa sia stata tardivamente proposta, poiche’, altrimenti, la presentazione di un atto di impugnazione fuori termine sarebbe sempre sufficiente ad impedire la formazione del giudicato formale (Sez. 1, n. 35503 del 24/06/2014, Kiem, Rv. 260287; e in precedenza Sez. U, n. 24246 del 2004, Chiasserini, cit.).

5. In base alle argomentazioni sopra svolte, puo’ quindi affermarsi il seguente principio:

“In presenza di ricorso inammissibile perche’ presentato fuori termine non e’ rilevabile d’ufficio, in sede di legittimita’, l’illegalita’ della pena”.

Ne discende che i ricorsi in esame, proposti, come si e’ visto, fuori termine, devono essere dichiarati inammissibili per tale causa.

6. Resta da esaminare la problematica relativa alla possibilita’ di dedurre la illegalita’ della pena in sede esecutiva.

Recentemente la Sezione Quarta di questa Corte, dopo avere affermato che l’inammissibilita’ del ricorso per cassazione – nella specie per tardivita’ – preclude la rilevabilita’ della sopravvenuta illegalita’ della pena dovuta alla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale di una norma attinente alla determinazione della pena, ha precisato (in motivazione e con rapido inciso) che l’eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio, da operarsi in ragione della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalita’ di norme ad esso attinente, puo’ essere dedotta in sede esecutiva (Sez. 4, n. 24638 del 06/05/2014, Valle, Rv. 259381, cit.). La questione merita, pertanto, approfondimento in questa sede.

7. La giurisprudenza di legittimita’ ammette pacificamente la possibilita’ che il giudice dell’esecuzione intervenga per rimuovere la pena principale ove la stessa sia stata inflitta in violazione dei parametri normativamente fissati (Sez. 1, n. 1436 del 25/06/1982, Carbone, Rv 156173; Sez. 3, 24/06/1980, Sanseverino, non mass.; Sez. 5, n. 809 del 29/04/85, Lattanzio, Rv 169333; Sez. 1, n. 4869 del 06/07/2000, Colucci, Rv 216746; Sez. 1, n. 12453 del 03/03/2009, Alfieri, Rv 243742; Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv 256879; Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Toma, Rv 253562; Sez. 1, n. 14677 del 20/01/2014, Medulla, Rv 259733). In particolare, si e’ ribadito che in sede esecutiva l’illegittimita’ della pena puo’ essere rilevata solo quando la sanzione inflitta non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantita’, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa e’ stata determinata – salvo che sia frutto di errore macroscopico -trattandosi in questo caso di errore censurabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza. In buona sostanza la condanna a pena illegittima, contenuta in una sentenza non ritualmente impugnata, non puo’ essere rettificata in sede esecutiva, salvo che sia configurabile un’ipotesi di assoluta abnormita’ della sanzione; la pena sia frutto di un errore macroscopico non giustificabile e non di una argomentata, pur discutibile, valutazione; la sanzione sia oggetto di palese errore di calcolo, in grado di comportarne la sostanziale illegalita’. E cio’ in quanto il principio di legalita’ della pena, enunciato dall’articolo 1 c.p., ed implicitamente dall’articolo 25 Cost., comma 2, informa di se’ tutto il sistema penale e non puo’ ritenersi operante solo in sede di cognizione. Tale principio, che vale sia per le pene detentive sia per le pene pecuniarie, vieta che una pena che non trovi fondamento in una norma di legge, anche se inflitta con sentenza non piu’ soggetta ad impugnazione ordinaria, possa avere esecuzione, essendo avulsa da una pretesa punitiva dello Stato. L’applicazione di pena illegale, per errore nella determinazione o nel calcolo di essa, non configura un caso di inesistenza giuridica o abnormita’ del provvedimento che la dispone, e, ove la sua determinazione sia frutto non di argomentata valutazione, ma di palese errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione, se ne impone la rettifica o la correzione da parte del giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’articolo 666 c.p.p., nel rispetto dei principi contenuti nell’articolo 25 Cost., comma 2, e nell’articolo 7 CEDU, i quali escludono la possibilita’ d’infliggere una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato e’ stato commesso (Sez. 1, n. 14677 del 20/01/2014, Medulla, cit.).

Recentemente le Sezioni Unite, dirimendo il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimita’, hanno ribadito tali principi anche in riferimento alla pena accessoria, affermando che l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione puo’ essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione, purche’ essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalita’, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, Basile, Rv. 262327).

8. Questa giurisprudenza deve essere letta alla luce degli ultimi approdi raggiunti da queste Sezioni Unite in ordine al ruolo assegnato dal codice di rito al giudice dell’esecuzione con riferimento specifico al controllo sulla legalita’ della pena.

Con la sentenza n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv 258651 e 258649, le Sezioni Unite hanno affermato che il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di sostituzione della pena dell’ergastolo – inflitta con sentenza irrevocabile – con quella temporanea di trenta anni di reclusione, ove riconosca il diritto del condannato a beneficiare del trattamento piu’ favorevole previsto dalla Legge n. 479 del 1999, articolo 30, comma 1, lettera b), deve provvedere, incidendo sul giudicato, alla sollecitata sostituzione, avvalendosi dei poteri previsti dagli articoli 665, 666 e 670 c.p.p., e, piu’ in particolare, che non puo’ essere ulteriormente eseguita, ma deve essere sostituita con quella di anni trenta di reclusione la pena dell’ergastolo inflitta in applicazione del Decreto Legge n. 341 del 2000, articolo 7, comma 1, all’esito di giudizio abbreviato richiesto dall’interessato nella vigenza della Legge n. 479 del 1999, articolo 30, comma 1, lettera b), – il quale disponeva, per il caso di accesso al rito speciale, la sostituzione della sanzione detentiva perpetua con quella temporanea nella misura precisata – anche se la condanna e’ divenuta irrevocabile prima della dichiarazione di illegittimita’ della disposizione piu’ rigorosa, pronunciata per violazione dell’articolo 117 Cost., in riferimento all’articolo 7, par. 1, CEDU, laddove riconosce il diritto dell’interessato a beneficiare del trattamento “intermedio” piu’ favorevole, in quanto il divieto di dare esecuzione ad una sanzione penale contemplata da una norma dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi esprime un valore che prevale su quello della intangibilita’ del giudicato e trova attuazione nella Legge 11 marzo 1953, n. 87, articolo 30, comma 4.

In questa sentenza, sottolineati gli ampi margini di manovra che l’attuale ordinamento processuale riconosce alla giurisdizione esecutiva, non si e’ mancato di rilevare che l’istanza di legalita’ della pena e’ un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice e non ostacolata dal dato formale della c.d. “situazione esaurita”, che tale sostanzialmente non e’, non potendosi tollerare che uno Stato di diritto assista inerte all’esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale.

Non va sottaciuto, infatti, che la restrizione della liberta’ personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (articolo 13, comma 2; articolo 25, comma 2) e deve assolvere alla funzione rieducativa imposta dall’articolo 27 Cost., comma 3, profili che vengono sicuramente vanificati dalla declaratoria di incostituzionalita’ della normativa nazionale di riferimento, perche’ ritenuta in contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dall’articolo 117 Cost., comma 1; imponendosi un bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilita’ del giudicato e altri valori, pure costituzionalmente presidiati, quale il diritto fondamentale e inviolabile alla liberta’ personale, la cui tutela deve ragionevolmente prevalere sul primo.

Il ruolo del giudice dell’esecuzione e la reale portata del principio della intangibilita’ del giudicato costituiscono i temi portanti di Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv 260695 e 260700, nella quale le affermazioni formulate da Sez. U Ercolano risultano ulteriormente sviluppate.

In particolare, nella sentenza Gatto si e’ significativamente chiarito:

– che l’efficacia del giudicato penale nasce dalla necessita’ di certezza e stabilita’ giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, ma anche dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale, sicche’ si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem, e non implica l’immodificabilita’ in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona;

– che quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimita’ costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non e’ stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento “correttivo” da adottare non e’ a contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, o comunque derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l’applicazione di norme piu’ favorevoli eventualmente medio tempore approvate dal legislatore;

– che la dichiarazione di illegittimita’ costituzionale dell’articolo 61 c.p., comma 1, n. 11 bis, ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 249 del 2010, impedisce che sia eseguita la porzione di pena, irrogata con sentenza irrevocabile, corrispondente all’applicazione della circostanza aggravante prevista da tale norma, spettando al giudice dell’esecuzione individuare la porzione di pena da eliminare;

– che il giudice dell’esecuzione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 69 c.p., comma 4, nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, comma 5, sulla recidiva di cui all’articolo 99 c.p., comma 4, puo’ affermare la prevalenza dell’attenuante anche compiendo attivita’ di accertamento, sempre che tale valutazione non sia stata esclusa dal giudice della cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali; tuttavia, nel rideterminare la pena, deve attenersi ai limiti derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l’applicazione di norme piu’ favorevoli eventualmente medio tempore approvate dal legislatore.

Nel pervenire a queste conclusioni, nella sentenza Gatto le Sezioni Unite hanno evidenziato che il vigente codice di rito ha ridisegnato il ruolo e la funzione del giudice dell’esecuzione. Infatti nell’attuale sistema e’ prevista una nutrita serie di poteri del giudice dell’esecuzione, piu’ o meno incidenti sul giudicato, che la dottrina ha classificato come selettivi (articolo 699 c.p.p.), risolutivi (articolo 673 c.p.p.), di conversione (articolo 2 c.p., comma 3), modificativi (articoli 672 e 676 c.p.p.), ricostruttivi (articolo 671 c.p.p., e articolo 188 disp. att. c.p.p.), complementari e supplenti (articolo 674 c.p.p.). Dal contenuto di tali disposizioni emerge con tutta evidenza l’insostenibilita’ della vecchia concezione circa la natura secondaria ed accessoria della fase esecutiva che, ormai, grazie alle nuove attribuzioni del giudice ed alla giurisdizionalizzazione del procedimento, ha acquistato una dimensione centrale e complementare a quella della fase di cognizione, concorrendo, come e’ stato notato, al completamento funzionale del sistema processuale.

D’altra parte la maggiore latitudine dei poteri di cui e’ stato dotato il giudice dell’esecuzione e’ stata recentemente ribadita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 210 del 2013, che ha sottolineato che tale organo non si limita a conoscere delle questioni sulla validita’ e sull’efficacia del titolo esecutivo ma e’ anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (articolo 669 c.p.p., articolo 670 c.p.p., comma 3, articoli 671, 672 e 673 c.p.p.). A cio’ deve aggiungersi che il giudice dell’esecuzione e’ dotato di penetranti poteri di accertamento e di valutazione ben piu’ complessi di quelli richiesti da un giudizio di comparazione tra circostanze, stante il disposto normativo di cui all’articolo 671 c.p.p..

9. In applicazione dei principi espressi nei punti che precedono, non resta che affermare che l’illegalita’ della pena, non rilevabile di ufficio in sede di legittimita’ in presenza di ricorso inammissibile perche’ presentato fuori termine, e’ deducibile davanti al giudice dell’esecuzione. Tale soluzione, per altro, oltre a garantire il rispetto del principio di legalita’ ex articolo 1 c.p., e della funzione della pena delineata dall’articolo 27 Cost., appare in linea con le coordinate fondamentali del nostro sistema processuale, rispettando la formazione del giudicato e l’intangibilita’ dell’accertamento processuale allorche’ sia trascorso il termine per proporre ricorso per cassazione.

Ne’ e’ invocabile nel caso in esame l’articolo 619 c.p.p., in quanto il potere della Corte di cassazione di rettificazione del provvedimento impugnato non puo’ essere esercitato in presenza di un ricorso inammissibile (Sez. 6, n. 12597 del 20/02/2004, Fasciolo, Rv. 229216; Sez. 7, n. 1686 del 10/12/2009, dep. 2010, Frisoli, Rv. 245421; Sez. 4, n. 4114 del 10/01/2014, Cipolline, Rv. 258187; Sez. 4, n. 8013 del 17/01/2014, Marfisi, Rv. 259281).

10. A proposito della vicenda di specie, peraltro, occorre ribadire che, nella richiamata sentenza Sez. U Basile, questa Corte ha avuto modo di affermare il principio secondo il quale e’ possibile procedere alla emenda, in executivis, della pena accessoria applicata extra o contra legem dal giudice della cognizione, a condizione che la stessa sia determinata o comunque determinabile per legge; senza intervento, dunque, di apprezzamenti discrezionali in ordine alla scelta della specie e della durata della pena, che finirebbero per rendere il giudice della esecuzione tributario di una cognizione non dissimile da quella che caratterizzerebbe il munus del giudice del rinvio a seguito di annullamento, da parte del giudice della legittimita’, della pena illegalmente applicata nei gradi di merito.

Ancorche’ il tema non abbia formato oggetto di specifica devoluzione a queste Sezioni Unite, non sembra infatti superfluo rilevare come, nel procedimento davanti al giudice di pace, la natura delle pene applicabili, appare saldarsi intimamente, per precisa scelta del legislatore, alle varie peculiarita’ che caratterizzano quel giudizio, al punto che l’articolo 63 Decreto Legislativo n. 274 del 2000 rende applicabile per il tribunale che giudichi di reati di competenza del giudice di pace anche istituti particolari, come la esclusione della procedibilita’ per particolare tenuita’ del fatto (articolo 34) e la declaratoria di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (articolo 35). Inoltre, per le sanzioni previste dal Titolo II del medesimo decreto, e’ esclusa l’applicazione della sospensione condizionale della pena (articolo 60), che invece nel caso di specie, come si e’ gia’ ricordato, il Tribunale ha concesso in riferimento alla pena della reclusione.

Nel caso di mancata applicazione delle sanzioni previste dal Titolo II del citato Decreto Legislativo n. 274 del 2000, da parte del tribunale che abbia erroneamente applicato le pene ordinariamente previste dalla legge per reati che sono attribuiti alla competenza del giudice di pace, e’, dunque, l’intero modello sanzionatorio a dover essere rielaborato, con scelte che attengono alle attribuzioni tipiche del giudice del merito. Il Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 52, comma 2, lettera b), prevede, infatti, che, quando il reato – come nel caso di specie – e’ punito con la sola pena della reclusione o dell’arresto, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da euro 516 a euro 2.582 o la pena della permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilita’ da venti giorni a sei mesi. Dunque, il giudice che applica quel modello sanzionatorio e gli istituti processuali correlati di cui innanzi si e’ detto, e’ chiamato ad effettuare una valutazione contenutistica di tutti i parametri di commisurazione del trattamento sanzionatorio alla luce delle risultanze processuali, operando le conseguenti determinazioni, non soltanto sulla quantita’ del trattamento, ma anche sulla specie della sanzione da applicare, tenendo anche conto delle richieste dello stesso imputato, dal momento che il lavoro di pubblica utilita’ puo’ essere applicato solo su richiesta dell’imputato, a norma del Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 54, comma 1.

Ne deriva, pertanto, che una simile rimodulazione della pena, lungi dal porsi come mera opera di nuova commisurazione o sostituzione matematicamente scontata, rispetto a quello che costituisce oggetto del trattamento illegale applicato dal giudice della cognizione, si pone quale complessivo nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale puo’ trovare spazio l’intervento del giudice della esecuzione.

11. Alla inammissibilita’ dei ricorsi consegue ex articolo 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e pro’ capite al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende che si stima equo determinare in euro mille. I ricorrenti vanno altresi’ condannati alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende.

Condanna altresi’ i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili (OMISSIS) e (OMISSIS), che liquida in complessivi euro tremila, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

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