Corte di Cassazione

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE

SENTENZA 28 ottobre 2014, n. 44895

Svolgimento del processo

 1. P.R. è stato ristretto in stato di custodia cautelare in carcere a seguito dell’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cagliari in data 17 maggio 2013, in relazione a reati continuati di detenzione e cessione illecita di sostanze stupefacenti del tipo marijuana per un rilevante quantitativo, non meglio specificato nelle contestazioni, condotte realizzate a (OMISSIS) ed altri luoghi in Sardegna, in concorso con dieci altri soggetti, taluni cedenti ad altri sostanza stupefacente per fini di ulteriore spaccio.
L’ordinanza del G.i.p. è stata eseguita in data 10 giugno 2013.
Nei confronti di tale provvedimento la difesa del P. ha proposto richiesta di riesame che è stata rigettata dal Tribunale di Cagliari con ordinanza del 28 giugno 2013. Analogamente sono state rigettate le successive richieste di sostituzione della misura cautelare rivolte al G.i.p. dal ricorrente.
Da ultimo, con ordinanza 14-17 marzo 2014, il Tribunale di Cagliari ha respinto l’appello proposto nell’interesse di P.R. avverso le ordinanze con cui, il 18 febbraio 2014 e il 10 marzo 2014, il G.i.p. del medesimo Tribunale ha rigettato rispettivamente la richiesta di revoca o sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere allo stesso applicata in relazione ai citati reati di detenzione e cessione a fini di spaccio di sostanza stupefacente del tipo marijuana, nonchè la richiesta di scarcerazione “ora per allora” avanzata ai sensi dell’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. a), n. 1.Questa ultima richiesta è stata avanzata dalla difesa del P. immediatamente dopo la pubblicazione, avvenuta il 5 marzo 2014, della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, artt. 4 bis e 4 vicies ter, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, poichè entrambi inseriti in sede di conversione in carenza dei presupposti per il legittimo esercizio del relativo potere legislativo.
L’art. 4 bis, aveva sostituito il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, uniformando il trattamento sanzionatorio relativo alle ipotesi di reato concernenti le “droghe leggere” con quelle riferite alle “droghe pesanti”, prevedendo per entrambe la pena edittale della reclusione da sei a venti anni e della multa da Euro 26.000 a Euro 260.000, laddove il testo precedente del D.P.R. n. 309 del 1990, prevedeva per le prime una cornice edittale di ben minore severità, fissata nella reclusione da due a sei anni e nella multa da Euro 5.164 a Euro 77.468 (art. 73, comma 4).
La declaratoria di incostituzionalità ha avuto l’effetto di ripristinare il precedente trattamento sanzionatorio differenziato per le “droghe leggere” e le “droghe pesanti”, così determinando effetti anche sui termini di durata della custodia cautelare in carcere, fissati, rispettivamente, per i delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni – come nel caso oggetto di attenzione riferito a reati concernenti marijuana – in tre mesi per la fase delle indagini e sei mesi per quella del giudizio di primo grado (art. 303 c.p.p., comma 1, lett. a, n. 1, e lett. b, n. 1).
2. Secondo la difesa, per effetto della retroattività di tale pronuncia, la declaratoria d’incostituzionalità avrebbe comportato, nella specie, il superamento del termine di durata massima della custodia cautelare previsto in relazione alla fase delle indagini, poichè la misura aveva avuto esecuzione il 10 giugno 2013 e tale prima fase del procedimento era terminata il 20 dicembre 2013, data di emissione del decreto di giudizio immediato, il che avrebbe consentito di emettere un provvedimento di scarcerazione “ora per allora”; in particolare, non potrebbe, invece, assumere rilievo il fatto che la sentenza della Corte costituzionale sia intervenuta successivamente, quando già si era passati alla fase del giudizio di primo grado, in un momento in cui dunque i termini della fase in corso, anche parametrati alla ripristinata cornice edittale, non erano scaduti, nè lo erano i termini complessivi.
3. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale del Cagliari ha confermato integralmente i provvedimenti di rigetto del G.i.p. in data 18 febbraio 2014 e 11 marzo 2014 sulla richiesta di scarcerazione “ora per allora” del P. sulla base, essenzialmente, delle seguenti argomentazioni:
– il principio affermato da Sez. U, n. 26350 del 24/04/2002, Fiorenti, Rv. 221657, richiamata dalla difesa, secondo cui “la scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare alla quale non si sia tempestivamente provveduto deve essere disposta nella fase successiva (c.d. scarcerazione ora per allora), purchè la scadenza di detti termini riguardi tutte le imputazioni oggetto del provvedimento coercitivo e non solo alcune di esse”, non sarebbe pertinente al caso di specie, non essendo la fattispecie in esame assimilabile a quella ivi considerata;
– l’analoga questione posta in conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 722 c.p.p., nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare all’estero in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall’art. 303 c.p.p., commi 1, 2 e 3, (Corte cost., sent. n. 253 del 2004), ha dato luogo a contrastanti orientamenti nella giurisprudenza della Corte di cassazione, tra i quali però risulta prevalente ed è, secondo il Tribunale, da preferire quello espresso da ultimo da Sez. 6, n. 11059 del 05/02/2008, Gallo, Rv. 239642, secondo cui in applicazione del principio di autonomia dei termini di custodia cautelare fissati per le singole fasi del procedimento, la dichiarazione di illegittimità costituzionale non produce i suoi effetti “ora per allora” sui rapporti processuali cautelari per i quali la fase delle indagini preliminari si sia esaurita con il rinvio a giudizio prima della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale.
Con la stessa ordinanza, il Tribunale ha, altresì, rigettato l’appello avverso il diniego del G.i.p. della revoca o sostituzione della misura applicata al P., rilevando che, pur in presenza della mutata cornice sanzionatoria, la valutazione del G.i.p. rimane sul punto validamente sorretta dalla considerazione della gravità dei reati, desunta dal numero degli episodi contestati e dalla quantità di stupefacente, nonchè dalla personalità del reo, negativamente tratteggiata dai rilevanti e specifici precedenti, in base ai quali è stata contestata la recidiva reiterata ai sensi dell’art. 99 c.p., comma 4.
4. Va precisato che alla data della presente decisione il procedimento risulta in fase di giudizio a seguito di decreto di giudizio immediato emesso in data 20 dicembre 2013 nei confronti del P. e degli altri coimputati, nel corso del quale il ricorrente ha formulato richiesta di rito abbreviato condizionato. Il giudice ha ammesso il rito abbreviato in data 9 maggio 2014 e, come da nota informativa indirizzata alla Corte di cassazione dal Tribunale di Cagliari in data 5 giugno 2014, il procedimento è tuttora in corso per l’espletamento dell’integrazione istruttoria (ultime udienze celebrate il 20 giugno e l’11 luglio 2014).
5. Avverso la riferita ordinanza pronunciata dal Tribunale di Cagliari in sede di appello cautelare in data 14 marzo 2014 P. R. ha proposto ricorso per cassazione, articolato sulla base di due motivi.
Con il primo si deduce violazione di legge, inosservanza di norme processuali nonchè vizio di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza dei presupposti della scarcerazione “ora per allora” dell’imputato per decorrenza dei termini di fase.
Il ricorrente rappresenta che la reviviscenza della disciplina normativa in tema di reati concernenti gli stupefacenti, di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente l’intervento del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, come convertito dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, implica che il trattamento sanzionatorio così ripristinato per le condotte delittuose relative alle “droghe leggere”, di gran lunga inferiore, riverbera i suoi effetti anche sui termini di custodia cautelare, individuabili attualmente in tre mesi per la fase delle indagini preliminari e in sei mesi dalla data del decreto che dispone il giudizio alla data della emissione della sentenza di primo grado, quali limiti massimi di fase.
Alla data della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale il P. oramai si trovava sottoposto alla custodia cautelare in carcere da otto mesi e nella fase delle indagini aveva trascorso oltre sei mesi (specificamente sei mesi e dieci giorni prima dell’emissione del decreto di giudizio immediato), laddove per effetto della declaratoria di incostituzionalità sarebbe consentito un tempo massimo pari a tre mesi per le ipotesi di reato quali quelle a lui contestate (facendo salve eventuali proroghe per un massimo di ulteriori 45 giorni).
La dichiarazione di incostituzionalità di una norma costituisce la “più grave patologia” che possa realizzarsi nell’ambito di una vicenda cautelare, poichè la custodia subita in osservanza della norma poi dichiarata illegittima è affetta da illegittimità “per contagio”. L’aver ritenuto tale evento giuridico non idoneo a configurare una “patologia” cautelare ai fini della scarcerazione “ora per allora” e l’aver richiamato il principio di autonomia delle fasi da parte del Tribunale di Cagliari, dunque, appare illogico e frutto di un’errata interpretazione della normativa vigente e della giurisprudenza di legittimità sul punto.
In particolare la critica si rivolge all’aver valutato non pertinente alla fattispecie in esame il principio affermato dalle Sez. U Fiorenti, erroneamente e comunque immotivatamente negando alla illegittimità costituzionale di una norma la natura di “situazione patologica verificatasi in una fase precedente” tale da determinare – secondo il principio affermato dalle Sezioni Unite – la scarcerazione “ora per allora”, e parificando, invece, la dichiarazione di incostituzionalità, del tutto infondatamente, a situazioni diverse e fisiologiche, quali il riconoscimento di un’attenuante ad effetto speciale, la derubricazione del reato, la conferma in appello della sentenza di condanna per il reato meno grave, per le quali la giurisprudenza di legittimità nega che possa ritenersi realizzata quella manifestazione patologica cautelare che può fondare la scarcerazione “ora per allora”.
Osserva ancora il ricorrente che a sostegno della tesi accolta dal Tribunale non può valere il richiamo ad alcuni precedenti orientamenti della Suprema Corte che, con riferimento alla sentenza della Corte cost. n. 253 del 2004, dichiarativa della parziale illegittimità costituzionale dell’art. 722 c.p.p., hanno negato a tale declaratoria l’efficacia “ora per allora” sui rapporti processuali cautelari per i quali la fase delle indagini preliminari si sia esaurita con il rinvio a giudizio prima della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale. Si puntualizza, da un lato, che la pronuncia del 2004 aveva attinto una norma processuale laddove nel caso in esame la declaratoria di illegittimità costituzionale ha riguardato una norma di diritto penale sostanziale, attinente al regime sanzionatorio ed i cui effetti si sono estesi ai termini di fase, sicchè deve aversi riguardo, nel caso di specie, alla disciplina di cui all’art. 2 c.p., con conseguente applicabilità anche retroattiva delle norme più favorevoli al reo;
dall’altro, che il precedente richiamato nell’ordinanza impugnata è contrastato da pronuncia di segno opposto (Sez. 2, n. 23395 del 03/05/2005, Locatelli, Rv. 231347), la quale risulta più persuasiva in quanto, a differenza dell’altra, approfondisce aspetti centrali e dirimenti nella tematica esaminata, quali gli effetti della pronuncia di incostituzionalità e, correlativamente, il limite al loro operare rappresentato dall’esaurimento del rapporto processuale: esaurimento che – si sottolinea – va parametrato al rapporto processuale cautelare, il quale rimane in corso indipendentemente dal passaggio dalla fase delle indagini preliminari a quella del giudizio.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e alla affermata inadeguatezza di misure meno afflittive, nonostante il mutato quadro sanzionatorio per effetto della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale.
Si osserva al riguardo che il Tribunale, con motivazione meramente apparente, ha argomentato sulla base dei precedenti penali, sostanzialmente trascurando l’incidenza, anche ai fini della nuova valutazione richiesta, della sentenza della Corte costituzionale e della conseguente reviviscenza della precedente normativa.
6. La Quarta Sezione penale, cui il ricorso è stato tabellarmente assegnato, con ordinanza in data 28 maggio 2014, depositata il giorno successivo, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
L’ordinanza ha ritenuto il primo motivo d’impugnazione proposto dal ricorrente preliminare e assorbente, rilevando, da un lato, la novità e la particolare importanza della questione (legata agli effetti della sentenza della Corte cost. n. 32 del 2014 rispetto ai termini di fase della custodia cautelare), dall’altro, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, segnalato anche nell’ordinanza impugnata, relativo alla questione interpretativa sorta con riferimento a un caso diverso, ma per molti aspetti assimilabile, che è quello, già citato, degli effetti della sentenza della Corte cost. n. 253 del 2004 che ha esteso ai termini di fase la disciplina dettata dall’art. 722 c.p.p., in tema di custodia cautelare all’estero.
Il quesito individuato dall’ordinanza è stato riassunto nei seguenti termini dai giudici: se la sentenza della Corte Cost. n. 32 del 2014 produca i suoi effetti, incidenti sul calcolo dei termini di fase di durata della misura cautelare, “ora per allora” sui rapporti processuali cautelari per i quali la fase, cui si riferisce il termine ridotto per effetto di tale declaratoria, si sia esaurita prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale.
L’ordinanza di rimessione, quindi, propone una sintesi delle principali pronunce della giurisprudenza di legittimità che possono ritenersi conferenti alla fattispecie in esame e comunque utili al suo inquadramento e alla sua decisione.
 

Motivi della decisione

 
1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite può essere così enunciata: “Se la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 produca i suoi effetti, incidenti sul calcolo dei termini di fase di durata della misura cautelare, ora per allora sui rapporti processuali cautelari per i quali la fase cui si riferisce il termine ridotto per effetto di tale declaratoria si sia esaurita prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale”.
2. La risposta al quesito comporta la necessità preliminare di affrontare il tema sviluppato dalla sentenza della Corte cost. n. 32 del 2014 che, dichiarando l’incostituzionalità delle norme che hanno parificato il trattamento sanzionatorio tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”, per eccesso da parte del Parlamento del potere di conversione in legge del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, ha posto le condizioni per la riviviscenza della disciplina penalistica differenziata tra le due diverse tipologie di sostanze stupefacenti.
Tale decisione ha fatto emergere la problematica connessa alle ricadute della vecchia disciplina sostanziale, sotto il profilo della retroattività della lex mitior, sui termini di fase delle misure cautelari in atto.
3. Alla luce di tali premesse si manifesta il ruolo nevralgico che, nella fattispecie sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite, assume il dibattito sviluppatosi negli anni sul tema della retroattività in mitius (sia essa susseguente a successione di leggi ovvero a declaratoria di incostituzionalità di una norma) approdato a conclusioni favorevoli all’incidenza del novum, non solo sul cautelare, ma anche sul giudicato, seppure attraverso una perimetrazione di sistema tracciata progressivamente dalla Corte costituzionale e dalla stessa Corte di cassazione, da ultimo, per quanto può desumersi dalla informazione provvisoria che ne è stata data all’esito della udienza, con la sentenza Sez. U, R.G. n. 22166/2013, c.c. 29/05/2014, Gatto.
L’approdo della giurisprudenza di legittimità sul punto appare assolutamente prevalente nel ritenere che la sentenza con la quale viene dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma di legge ha efficacia erga omnes – con l’effetto che il giudice ha l’obbligo di non applicare la norma illegittima dal giorno successivo a quello in cui la decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica – e forza invalidante, con conseguenze simili a quelle dell’annullamento, nel senso che essa incide anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio in cui è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, spiegando, così, effetti non soltanto per il futuro, ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, sempre, però, che non si tratti di situazioni giuridiche “esaurite”, coinvolgendo, peraltro, a determinate condizioni, anche quelle determinate dalla formazione del giudicato.
Nell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale il problema della lex mitior, dunque, ha abbracciato sia l’ipotesi di successione di leggi nel tempo sia il novum conseguente alla dichiarazione di incostituzionalità di una norma con contestuale espansione o reviviscenza di altra norma, con la conseguente valutazione delle sue ricadute soprattutto nella fase intertemporale di applicazione dei suoi effetti tra norme di diritto sostanziale, ovvero tra norme formalmente processuali ma interessate rispetto a momenti sostanziali della loro attuazione.
Per ambedue le previsioni, sovente è stato indicato, quale criterio regolatore della disciplina intertemporale, il disposto dell’art. 2 c.p., comma 4, anche se in realtà, tale ultima norma regolamenta soltanto l’ipotesi di successione di leggi penali tutte legittime e non quella in cui la vicenda successoria sia determinata dalla declaratoria di illegittimità di una norma.
Con riguardo a quest’ultimo profilo appare importante sottolineare che la Corte cost. con la sentenza n. 239 del 2012 ha circoscritto il principio di retroattività in mitius alla sola “legge” o “agli atti aventi forza di legge”, ritenendo non condivisibile il tentativo prospettato dalla giurisprudenza di una tendenziale equiparazione, ai fini della configurazione della struttura del principio di legalità in materia penale, tra il diritto di fonte legislativa e quello di fonte giurisprudenziale, in particolare della Corte EDU. Con la successiva sentenza n. 210 del 2013 la Corte costituzionale ha ritenuto fondata la questione prospettata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (v. Sez. U, ord. n. 34472 del 19/04/2012, Ercolano, Rv. 252933), che ha poi comportato la decisione in base alla quale non può essere ulteriormente eseguita, ma deve essere sostituita con quella di anni trenta di reclusione, la pena dell’ergastolo inflitta in applicazione del D.L. n. 341 del 2000, art. 7, comma 1, all’esito di giudizio abbreviato richiesto dall’interessato nella vigenza della L. n. 479 del 1999, art. 30, comma 1, lett. b), anche se la condanna sia divenuta irrevocabile prima della dichiarazione di illegittimità della disposizione più rigorosa; lo scrutinio di legittimità costituzionale ha evidenziato la violazione dell’art. 117 Cost. con riferimento all’art. 7, p.1, CEDU, laddove viene riconosciuto il diritto dell’interessato a beneficiare del trattamento “intermedio” più favorevole; in questo caso è stato ritenuto che il divieto di dare esecuzione ad una sanzione penale contemplata da una norma dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi esprime un valore che prevale su quello della intangibilità del giudicato e trova attuazione nella L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 4, (v. Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258649).
L’importanza di questa pronuncia risiede nel fatto, tra l’altro, che essa si muove all’interno di una decisione della Corte EDU che ha ritenuto che l’art. 442 c.p.p., comma 2, ancorchè contenuto in una legge processuale, è norma di diritto penale sostanziale, in quanto, “il paragrafo 2 dell’art. 442, è interamente dedicato alla severità della pena da infliggere quando il processo si è svolto secondo questa procedura semplificata”. Si tratta perciò di una norma che rientra nel campo di applicazione dell’art. 7, p.1, CEDU, che, secondo la più recente interpretazione della Corte di Strasburgo, comprende anche il diritto dell’imputato di beneficiare della legge penale successiva alla commissione del reato che prevede una sanzione meno severa di quella stabilita in precedenza.
Il quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento così ricomposto comporta che il principio in questione va ricondotto, in via generale, alle norme concernenti le fattispecie penali e le sanzioni ivi previste, con esclusione delle norme processuali che invece trovano il loro primo principio di riferimento nel diverso canone normativo del tempus regit actum di cui all’art. 11 preleggi; con la precisazione che le situazioni esaurite o il passaggio in giudicato della sentenza di condanna potranno sopportare il vaglio di ulteriori valutazioni attraverso l’analisi del filtro di ragionevolezza riconducibile alla considerazione di ulteriori interessi confliggenti, come affermato, positivamente, in tema di prescrizione con la sentenza n. 393 del 2006 della Corte cost., in modo tale che l’esegesi applicativa delle norme aventi valore procedurale potrà trovare una ponderazione di sistema nelle previsioni cui per il cittadino sono legati interessi di natura prettamente sostanziale, primo fra tutti quello alla libertà, che trova il suo presidio costituzionale nell’art. 13 Cost..
Sotto questo profilo è sempre il Giudice delle leggi ad evidenziare che l’operatività ex tunc della pronuncia della Corte costituzionale ha valore retroattivo purchè gli effetti giuridici non siano definitivi, circostanza che rende possibile la valorizzazione del collegamento operato in forza dell’art. 25 Cost., comma 2, tra gli effetti sostanziali e quelli processuali. E, ancora, sul punto, è necessario ricordare come lo stesso Giudice delle leggi, pur se con riferimento alla questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 275, c.p.p., comma 3, e all’applicazione obbligatoria della custodia cautelare in carcere per i reati di violenza sessuale, abbia sottolineato le connotazioni differenziali tra custodia cautelare e pena evidenziando da un lato come in tema di custodia cautelare operi la circostanza della restrizione della libertà personale e del principio di non colpevolezza mentre in relazione agli effetti sostanziali della sanzione si debba fare riferimento al carattere della pena e all’accertamento definitivo della responsabilità (v. amplius postea Corte cost., sent. n. 265 del 2010).
4. Una volta ritenuto che la dichiarazione di incostituzionalità di una norma deve essere equiparata, quanto ad effetti, all’ipotesi dell’annullamento, in quanto gli stessi debbono decorrere con efficacia ex tunc, a parere del Collegio non appare utile nè di fatto possibile stilare una graduatoria d’importanza con riferimento al vizio genetico che abbia poi portato alla declaratoria d’incostituzionalità della norma. Nel caso di specie la dichiarazione di incostituzionalità è legata ad un vizio formale del procedimento legislativo relativo all’eccesso di delega operato in violazione dell’art. 76 Cost.. La gravità del vizio, tuttavia, non sembra che possa essere collegata alla natura dello stesso, formale o sostanziale, in quanto nel caso in esame, si trovano ad essere coinvolte specifiche norme del complessivo atto legislativo.
Secondo autorevole dottrina quando la legge è contraria alla Costituzione, essa è invalida. Da questa logica premessa la conseguenza è inequivocabile: la legge è invalida per qualunque forma di contrasto con qualunque norma della Costituzione, nessuna esclusa. Il grado di difformità, che può essere importante nell’apprezzamento di un’intervenuta abrogazione, non conta quando ci si trova sul terreno dell’invalidità, perchè il criterio gerarchico non conosce le medesime gradazioni di quello cronologico, non tollera problematiche coesistenze, ma impone l’espunzione dall’ordinamento (o quanto meno la disapplicazione) della norma di fonte inferiore che sia in contrasto con quella superiore. L’invalidità della legge derivante da un vizio formale o da un vizio materiale e il conseguente giudizio di illegittimità costituzionale non concretizza dunque una gerarchia assiologica tra i vizi in questione, ma cristallizza esclusivamente una priorità logica, in questo caso in favore del vizio formale, la cui accertata sussistenza è di per sè idonea ad assorbire ogni ulteriore valutazione circa la sussistenza di violazioni di ordine sostanziale (in tal senso Corte cost., sent.n. 272 del 2012).
Tornando dunque alla valutazione dell’applicazione retroattiva della lex mitior, appare condivisa la valutazione secondo la quale la sua operatività va ricollegata al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., e che la stessa arriva a sopportare deroghe nella sua applicazione quando debba confrontarsi con principi di pari rango (si veda ad esempio la vicenda dell’applicazione del regime della prescrizione per la L. 8 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli, di cui alla sentenza della Corte cost. n. 393 del 2006, che ha ritenuto illegittimamente limitato dalla norma transitoria dell’art. 10, comma 3, l’efficacia retroattiva del regime migliorativo della prescrizione al termine originariamente previsto, mentre ha ritenuto possibile escludere l’efficacia dei più ragionevoli termini di prescrizione per i processi pendenti in grado d’appello o avanti la Corte di cassazione (v. Corte cost., sentenze nn. 72 del 2008 e 236 del 2011).
Appare evidente, dunque, che l’analisi del sistema deve fare riferimento, anche ai fini della decisione della questione posta all’attenzione delle Sezioni Unite, della permanente adeguatezza del rapporto tra il principio di ragionevolezza e la durata delle fasi della custodia cautelare, che trova ancora espressione nella previsione del nuovo decorso dei termini stabiliti per ciascuna fase processuale in caso di rinvio disposto dal giudice dell’impugnazione, e che è stato ricondotto al principio di autonomia dei singoli termini processuali parziali; la disciplina così configurata trova peraltro il suo contemperamento costituzionale nel valore unitario e indivisibile della libertà personale cui fa riferimento la lettura costituzionalmente orientata del principio della durata massima della custodia cautelare e della durata massima del termine della singola fase, così come interpretato nella recente decisione delle Sez. U, n. 29556 del 29/05/2014, Gallo, Rv. 259176, secondo la quale, in tema di durata della custodia cautelare, nei procedimenti per uno dei delitti di cui all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), qualora il termine di fase sia stato sospeso per la particolare complessità del dibattimento o del giudizio abbreviato, ai sensi dell’art. 304 c.p.p., comma 2, il termine massimo di durata della custodia, fissato nel doppio dei termini di fase dal predetto art. 304, comma 6, non può essere superato sommando ad esso l’ulteriore termine eventualmente utilizzato, nella fase del giudizio per uno dei delitti citati, ai sensi dell’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), n. 3 bis.
La durata della custodia cautelare si ricollega dunque, dal momento genetico di applicazione della misura e nella sua progressiva evoluzione temporale, direttamente alla gravità dell’ipotetico fatto e della relativa pena edittale, in applicazione del principio di proporzionalità, che costituisce il fulcro permanente intorno al quale ruota l’esigenza di mantenere in modo costante un rapporto fisiologico tra la misura da applicare o già applicata e l’entità del fatto e la sanzione che si ritiene possa essere inflitta.
5. L’immediata applicabilità dei nuovi termini di fase calcolati secondo le discipline di volta in volta ritenute più favorevoli e le conseguenze anche in tema di durata massima delle misure cautelari hanno peraltro, come in parte già richiamato, costituito oggetto di diverse pronunce della Corte di cassazione – rese in occasione di successione di leggi nel tempo – che non hanno raggiunto univoci approdi interpretativi, ma che tuttavia, solo in un caso, di fatto, concretizzano un reale contrasto tra i due generali orientamenti giurisprudenziali ricollegabili al tema della natura processuale della disciplina delle misure cautelari.
In base all’orientamento maggioritario, che trova pronunce difformi soltanto in un orientamento minoritario assolutamente risalente nel tempo, e ormai chiaramente superato – secondo il quale ai fini del calcolo del termine di durata massima della custodia cautelare occorrerebbe fare riferimento esclusivamente alla contestazione contenuta nel capo d’imputazione e non della eventuale diversa quantificazione della pena conseguente a modifiche normative (v. Sez. 6, n. 2181 del 30/05/1995, Accordino, Rv 202452; Sez. 6, n. 2172 del 29/05/1995, Gardoni, Rv 202337) – la disciplina delle misure cautelari ha sì carattere processuale e perciò, in linea di massima, nella fase delle indagini preliminari il giudice non può discostarsi dalla contestazione mossa dal pubblico ministero e non gli è consentita alcuna valutazione sul suo contenuto; tuttavia, quando risulti con evidenza, in base alla sola data del commesso reato così come precisata nell’imputazione, che debba essere applicata all’indagato, in base all’art. 2 c.p., una normativa più favorevole, inequivocabilmente individuabile raffrontando la disciplina sanzionatoria precedente e quella indicata nella contestazione, è alla prima che il giudice dovrà fare riferimento nel computare i termini di durata massima della custodia cautelare non potendosi trascurare il carattere sostanziale dell’afflittività delle misure cautelari personali e la tutela dello status libertatis con le relative implicazioni di carattere costituzionale che lo presidiano (così, Sez. 1, n. 1783 del 24/03/1995, Faccini, Rv 201363; Sez. 1, n. 2144 del 07/04/1995, Pastora, Rv. 201187; Sez. 1, n. 2239 del 11/04/1995, Tomba, Rv 201288; Sez. 4, n. 3522 del 18/12/1997, dep. 1998, Sartor, Rv 210582). Significativamente queste pronunce fanno riferimento alla successione intertemporale delle norme in materia di sostanze stupefacenti relative all’entrata in vigore del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, rispetto all’applicabilità della vecchia disciplina prevista dalla L. 22 dicembre 1975, n. 685, art. 71, cui era legato un regime sanzionatorio più blando. Coerentemente, anche dopo la sentenza Corte cost. n. 32 del 2014, gli arresti giurisprudenziali sono stati sostanzialmente conformi nell’affermare che l’avvenuta reviviscenza, per effetto della suddetta sentenza della Corte costituzionale, del trattamento sanzionatorio più favorevole per la detenzione illecita delle “droghe leggere” impone di riconsiderare i presupposti applicativi, delle misure cautelari personali in atto, atteso che la cornice edittale di riferimento incide sulla scelta della misura oltre che sulla sua stessa applicabilità (Sez. 4, n. 21600 del 15/4/2014, Bisiccè, Rv. 259378), stante la necessaria valutazione in ordine alla concedibilità dei benefici di legge, ovvero della necessità di riconsiderare i presupposti applicativi delle misure cautelari personali in corso, vista l’avvenuta modificazione della cornice edittale di riferimento (Sez. 4, n. 15187 del 01/04/2014, Giunta, Rv. 259056).
Il quadro giurisprudenziale esistente fa ritenere dunque consolidato l’orientamento che consente l’applicazione della lex mitior in materia di custodia cautelare, anche in relazione ai termini di fase, qualora la fase interessata della custodia cautelare non sia esaurita e il nuovo termine applicabile sia già decorso. Non sono in contrasto con questa conclusione altre decisioni delle Sezioni Unite che sono intervenute sul tema, affermando la legittimità di un provvedimento di scarcerazione “ora per allora”, nell’ipotesi in cui non fosse stata disposta la scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini della custodia cautelare ed in ordine alla quale dunque non si fosse tempestivamente provveduto, purchè la scadenza dei termini riguardasse tutte le imputazioni oggetto del provvedimento coercitivo (Sez. U, n. 26350 del 24/04/2002, Fiorenti, Rv. 221657).
Un principio analogo è stato affermato nell’ipotesi in cui è stato riconosciuto l’interesse dell’imputato detenuto che abbia impugnato il provvedimento di proroga della custodia cautelare a farne valere l’illegittimità nel giudizio di impugnazione, anche quando, prima della scadenza del termine prorogato, sia intervenuto il decreto che dispone il giudizio – a seguito del quale divengono operanti ulteriori, autonomi e diversi termini di custodia – giacchè l’eventuale accoglimento delle ragioni di gravame, comportando la cessazione di efficacia della misura custodiale, ne determinerebbe la scarcerazione “ora per allora” (Sez. U, n. 33541 del 11/07/2001, Canavesi, Rv. 219395).
Nello stesso filone giurisprudenziale deve essere collocata anche l’ipotesi in cui l’operatività della scarcerazione “ora per allora” sia legata alla corretta osservanza delle norme che disciplinano il procedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare, la cui adozione risulti, invece, nel caso concreto, viziata da una nullità, tempestivamente sollevata ai sensi dell’art. 310 c.p.p., relativa all’omessa interlocuzione della difesa sul punto da parte del giudice, ove sia nel frattempo scaduto il termine di fase, con conseguente perdita di efficacia della misura coercitiva. (Sez. U, n. 40701 del 31/10/2001, Panella, Rv. 219948, con riferimento anche a Corte cost., sent. n. 219 del 1994 e Corte cost., sent. n. 434 del 1995). In tutti questi casi, in realtà, si è prodotto un evento, che ha reso attuale il diritto alla scarcerazione immediata dell’interessato, in quanto non eseguita all’interno della fase custodiale formalmente già esaurita, e che ha dunque richiesto la successiva adozione del provvedimento di scarcerazione “ora per allora”; l’omessa adozione, alla data prevista, del provvedimento di scarcerazione, ha leso infatti, in maniera assoluta, lo “statuto” legale dell’imputato in stato di custodia cautelare, strutturalmente caratterizzato dal coinvolgimento del diritto fondamentale della libertà personale ex art. 13 Cost., e su cui, dunque, il giudice dell’impugnazione è doverosamente intervenuto.
6. Il tema della lex mitior determinato da una declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma che disciplina la materia cautelare trova un suo antecedente giurisprudenziale nella pronuncia delle Sez. U, n. 3 del 28/01/1998, Budini, Rv. 210258. Il principio di diritto affermato in questa sentenza parte dal riconoscimento alle pronunce del Giudice delle leggi di efficacia invalidante e perciò retroattiva, in questo caso legato alla sentenza Corte cost. n. 77 del 1997, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 294 c.p.p., comma 1, nella parte in cui non prevedeva che, fino alla trasmissione degli atti al giudice del dibattimento, il giudice per le indagini preliminari procedesse all’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare in carcere immediatamente e comunque non oltre cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia, a pena di inefficacia della misura ai sensi dell’art. 302 c.p.p., anch’esso dichiarato incostituzionale. Pertanto la misura cautelare applicata dal g.i.p. successivamente alla chiusura delle indagini preliminari, è stata dichiarata inefficace per omesso svolgimento di una delle attività considerate presupposto indefettibile per l’esercizio del potere coercitivo, avendo ritenuto le Sezioni Unite che il ricorrente aveva maturato, “ora per allora”, il diritto a riacquistare lo status libertatis per omesso svolgimento dell’interrogatorio di garanzia nel termine di cinque giorni dall’esecuzione della misura (conformi Sez. U, n. 4 del 28/01/1998, Sassosi, e Sez. U, n. 5 del 28/01/1998, Bonanno, n. m.). Nel caso in esame occorre sottolineare che il richiamo alla regola tempus regit actum è assolutamente contenuto, e svolge piuttosto una funzione di strumentalità esplicativa rispetto alla decisione della Corte; è stato infatti sottolineato come all’interrogatorio di garanzia siano legati interessi di natura prettamente sostanziale e, primo tra tutti, quello alla libertà del cittadino, diritto che non può ritenersi esaurito per la condotta omissiva del giudice, risultando comunque non più legittimo il protrarsi della privazione della libertà. Rispetto a questi approdi ermeneutici non appare inutile richiamare l’articolata ricostruzione prodotta dall’elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite in tema di atto processuale e di situazione esaurita, posta alla base della soluzione dei casi di conflitto e dell’applicazione del principio di cui all’art. 11 preleggi, comma 1.
La corretta applicazione della normativa intertemporale impone, infatti, anche la esatta individuazione dell’actus, che va focalizzato ed isolato, sì da cristallizzare la disciplina giuridica ad esso riferibile. In particolare, il concetto di atto deve essere rapportato allo stesso grado di atomizzazione che presentano le concrete e specifiche vicende disciplinate dalla norma processuale coinvolta nella successione. L’atto cioè va considerato nel suo porsi in termini di autonomia rispetto agli altri atti dello stesso processo, dovendosi avere riguardo anche alle dimensioni temporali in cui si colloca, per modulare correttamente il parametro intertemporale e stabilire se sia applicabile il vecchio o il nuovo regime, tra cui quello che ha carattere strumentale e preparatorio rispetto ad una successiva attività del procedimento, con la quale va a integrarsi e completarsi in uno spazio temporale anch’esso più o meno ampio, dando luogo ad una fattispecie processuale complessa.
La regola tempus regit actum non può dunque non tenere conto della variegata tipologia degli atti processuali e va modulata in relazione alla differente situazione sulla quale questi incidono e che occorre di volta in volta governare (Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236535; Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221401; Sez. U, n. 7232 del 07/07/1984, Cunsolo, Rv. 165565; v. inoltre Corte cost., sent. n. 26 del 2007). In questo caso emerge prepotente, nella sua collocazione temporale all’interno del procedimento, la funzione dell’interrogatorio di garanzia, il quale ha, ad esclusivo oggetto, la verifica, da parte del giudice, “della sussistenza e del permanere delle condizioni legittimanti la custodia”. La Corte ha, dunque, ritenuto che l’interrogatorio di garanzia, per la sua peculiarità, è un mezzo del tutto tipico, indispensabile per la difesa dell’imputato e che, in quanto tale, è necessario sempre, a prescindere dal momento in cui la privazione della libertà avvenga e non può essere sostituito da altre procedure di audizione del sottoposto in vinculis, che hanno diverso contenuto e finalità e non sono, perciò, in nulla equipollenti, essendo la libertà personale bene primario, tanto che la nostra Carta costituzionale lo indica (art. 13) al primo posto tra i diritti inviolabili del cittadino (Sez. U, Budini).
7. Il problema che si pone all’interprete, sottolineato dal quesito rimesso alle Sezioni Unite, è dunque quello di individuare lo spazio occupato dalle ricadute degli approdi giurisprudenziali della Corte costituzionale oltre che con la sent. n. 32 del 2014, e anche con la pronuncia delle Sez. U, Ercolano, per la valorizzazione di aspetti sostanziali rispetto a norme di natura formalmente processuale, rispetto all’opzione interpretativa, di cui si discute nel presente procedimento, secondo la quale, all’interno della disciplina cautelare, stante appunto la sua natura processuale, debba ritenersi centrale l’applicazione del principio tempus regit actum, previsto dall’art. 11 preleggi.
Il tema è venuto in rilievo, da ultimo, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, anche con riferimento alla modifica dell’art. 280 c.p.p., che ha elevato da quattro a cinque anni il limite di pena in ordine al quale può essere adottato il provvedimento della custodia cautelare in carcere, a seguito della quale è stato ritenuta applicabile anche ai procedimenti in corso, alla data della sua entrata in vigore, la nuova disciplina dell’art. 280 c.p.p., comma 2, (Sez. 6, sent. n. 48462 del 08/10/2013, Staffetta, Rv.258042). Occorre rilevare che, anche in questo caso, si è trattato di intervenire su misure in corso e rispetto a fase non esaurita dove, mutatis mutandis, ha trovato coerente applicazione il principio uguale e contrario già affermato in occasione della modifica dell’art. 275 c.p.p., in cui, con l’ampliamento del catalogo dei reati in ordine ai quali vale la presunzione di adeguatezza della sola custodia carceraria, di cui al D.L. n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 38 del 2009, in assenza di una specifica disposizione transitoria, è stato ritenuto che la disciplina prevista non potesse subire modifiche unicamente per effetto della nuova e più sfavorevole normativa (Sez. U, n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, Rv. 250195); il principio di diritto trova la sua ragione giustificatrice proprio nel fatto che con la novella è stato introdotta una previsione normativa più rigorosa ed afflittiva rispetto a quella previgente.
8. Il quesito specifico sul tema in esame della possibile applicazione del principio della scarcerazione “ora per allora” si è posto, in precedenza, con riferimento ai termini delle singole fasi cautelari, a seguito della sentenza Corte cost., n. 253 del 2004, che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 722 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva che la custodia cautelare all’estero in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato fosse computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall’art. 303 c.p.p., commi 1, 2 e 3.
A seguito di questa pronuncia si è registrato nella giurisprudenza di legittimità un contrasto di orientamenti, in realtà, rispetto all’orientamento maggioritario, in base a quanto già illustrato, riconducibile ad una sola sentenza.
In particolare, secondo il primo orientamento, sicuramente prevalente, espresso in modo compiuto, anche con riferimento alla declaratoria di illegittimità del Giudice delle leggi, da Sez. 6, n. 11059 del 05/02/2008, Gallo, Rv. 239642, in applicazione del principio di autonomia dei termini di custodia cautelare fissati per le singole fasi del procedimento, la dichiarazione di illegittimità costituzionale non produce i suoi effetti “ora per allora” sui rapporti processuali cautelari, per i quali la fase delle indagini preliminari sia esaurita con il rinvio a giudizio prima della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale.
In particolare la Corte, nell’arresto appena richiamato, pur riconoscendo l’efficacia retroattiva delle sentenze della Corte costituzionale, ne ha appunto individuato il limite invalicabile nei rapporti c.d. “esauriti”.
E’ stato ritenuto, in questo caso, che la mera valenza processuale delle norme prese in considerazione non coinvolge direttamente il principio della libertà personale, con la conseguenza che l’effetto retroattivo della declaratoria di illegittimità costituzionale, incidendo su un rapporto di natura processuale, che si articola in varie fasi che si dipanano nel tempo e che rappresentano segmenti di una attività complessa, non può che riferirsi alla determinata fase in cui il processo si trova. Questa scelta è stata ritenuta coerente comunque con gli effetti di annullamento riconosciuti alla decisione di illegittimità costituzionale che opera ex tunc ma con il limite dell’esaurimento del rapporto, che, nel caso specifico, coincide con la fase processuale irretrattabile. Sulla stessa linea esegetica si colloca Sez. 6, n. 21019 del 02/05/2005, Incantalupo, Rv. 231346, con la quale, anche in questa circostanza, la Corte ha sottolineato come la mera constatazione del decorso dei termini non comporti l’annullamento del provvedimento impugnato, ove al momento della pronuncia della Corte costituzionale l’imputato risulti già rinviato a giudizio. Il dato certamente più interessante dell’arresto appena richiamato è costituito dalla definizione di “rapporto esaurito”, con riferimento specifico alla materia cautelare, in base alla quale è stato definito tale (cioè esaurito) il rapporto cautelare relativo alla fase delle indagini preliminari, nel momento in cui avvenga il passaggio del procedimento alla fase successiva (dibattimentale). Anche la sentenza Sez. 1, n. 26036 del 05/07/2005, Pedetta, Rv. 231348, va ricompresa nell’orientamento maggioritario, riconoscendo il fondamento logico-giuridico dello stesso nel “principio di autonomia e di segmentazione delle regole di computo dei termini di custodia cautelare dettate per le singole fasi processuali”, con la sottolineatura che il jus superveniens di “eventuali pronunce di incostituzionalità incidenti in senso più favorevole all’imputato sulle disposizioni normative di tale disciplina, pur se immediatamente efficaci in ordine ai rapporti de libertate pendenti nella fase interessata dal novum jus, non possono tuttavia dispiegare alcuna efficacia retroattiva, ora per allora, sul calcolo dei termini di una fase già conclusasi ed esaurita nel pieno rispetto della previgente disciplina, mentre il processo risulta ormai approdato ad una più avanzata fase o grado per cui operano distinti e autonomi termini di custodia cautelare”.
All’orientamento sin qui esaminato, se ne contrappone un secondo, rappresentato da un’unica pronuncia (Sez. 2, n. 23395 del 03/05/2005, Locatelli, Rv. 231347), secondo cui la sentenza n. 253 del 2004 della Corte costituzionale, che ha esteso ai termini di fase la disciplina dettata dall’art. 722 c.p.p., in tema di custodia cautelare all’estero, produce i suoi effetti sul rapporto processuale cautelare in corso, anche quando la fase delle indagini preliminari si sia conclusa prima della sua pubblicazione, con la conseguenza che la scarcerazione per decorrenza termini deve essere disposta “ora per allora”. In questo caso il giudice di legittimità, pur riconoscendo che la dichiarazione di illegittimità costituzionale del Giudice delle leggi determina una rimozione della norma affetta da un vizio genetico per contrasto con il precetto costituzionale, paragonabile a quella di annullamento, con efficacia ex tunc, con l’unico limite delle situazioni, sostanziali o processuali, esaurite, e, a fortiori, della preclusione ob rem judicatam, ha ritenuto che, mancando una sentenza irrevocabile, fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da una norma sono sub iudice, il rapporto processuale non può considerarsi esaurito.
9. Osserva la Corte che il contrasto tra i due orientamenti si concentra nella differente nozione di “rapporto esaurito”, in quanto, per l’indirizzo maggioritario, in relazione alla materia cautelare, tale deve considerarsi “un rapporto (…) processuale, che si articola in varie fasi che si dipanano nel tempo e che rappresentano segmenti di una attività complessa finalizzata al risultato ultimo di una decisione irrevocabile su una notitia chminis (indagini preliminari, udienza preliminare, dibattimento, impugnazioni)”, con la conseguente autonomia di ciascuna fase ed esaurimento della stessa al subentrare della successiva; per l’indirizzo minoritario, invece, fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da una norma sono sub judice il rapporto processuale non può considerarsi “esaurito”, sicchè, ai fini specifici di tutela del soggetto sottoposto a misura restrittiva, il così denominato “rapporto processuale cautelare” va considerato nella sua unitarietà e non nelle singole fasi del procedimento frazionate. Ancor più chiaramente, ove anche la fase delle indagini preliminari fosse ormai conclusa, il rapporto processuale cautelare, anche nella fase successiva, è da considerarsi in corso e rimane sempre attuale la questione dello status libertatis, non essendo maturata alcuna preclusione per effetto di sentenza irrevocabile.
10. La Corte ritiene di aderire all’orientamento maggioritario, anche sulla base dei principi affermati, in più occasioni, dalla Corte costituzionale sul punto, che hanno evidenziato la natura processuale delle norme che regolano le misure cautelari personali, pur con le precisazioni sopra evidenziate, e di seguito meglio precisate, rispetto ad una opzione ermeneutica di tale natura.
Ci si riferisce, nello specifico, ai principi contenuti nelle sentenze Corte cost., n. 15 del 1982 e n. 265 del 2010.
Nella sentenza n. 15 del 1982 la Corte sottolineava come “la carcerazione preventiva ben può legittimamente essere disposta in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare e strettamente inerenti al processo (sentenze nn. 64 e 96 del 1970, 74 e 147 del 1973, 146 del 1975, 88 del 1976); che è giustificata da esigenze eminentemente processuali (sentenza n. 68 del 1974);… che si inserisce nel processo, giacchè risponde a una sua ratio, vuole soddisfare concrete esigenze del processo (sentenza n. 135 del 1972).
Tale indirizzo giurisprudenziale, cui si è ispirata altresì la sentenza n. 1 del 1980, (…) induce a non accogliere la concezione, emergente dalle ordinanze, della natura di diritto sostantivo dell’istituto della carcerazione preventiva”. Per la giurisprudenza costituzionale “la pena e la misura cautelare detentiva sono somiglianti quanto alla loro materialità, alla limitazione di libertà ed al carico di sofferenza che comportano, ma diverse quanto agli scopi ed ai presupposti. Queste diversità chiamano in campo principi costituzionali importanti ma distinti” Nella medesima sentenza la Corte ha sviluppato anche l’argomento relativo al tema, connesso ma distinto, delle norme che ridefiniscono i termini di durata della custodia cautelare. Ed è stato ritenuto che l’art. 25 Cost., comma 2, stabilisce una garanzia per l’imputato, che trova la sua ratio in un’esigenza di certezza; così la “carcerazione preventiva” può essere disposta solo in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare e strettamente inerenti al processo.
Tale valutazione ha comportato il mancato accoglimento della tesi della natura di diritto sostanziale dell’istituto della carcerazione preventiva. Secondo la Corte costituzionale, la natura strumentale dell’istituto in questione, oltre che non consentire l’assimilazione tra il fatto e lo strumento per accertarne l’esistenza e la conformità al diritto, “consente di cogliere nella sua completa prospettiva la funzione di garanzia della carcerazione preventiva, e del processo in genere, nel senso che non è garanzia solo dell’imputato, ma… dell’attuazione della legge, della ordinata convivenza, (…) delle istituzioni”.
La tesi è stata ripresa anche dalla sentenza Corte cost. n. 265 del 2010, in cui è stato affermato che, “affinchè la restrizione della libertà personale nel corso del procedimento sia compatibile con la presunzione di non colpevolezza, è necessario che essa assuma connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità; e ciò ancorchè si tratti di misura ad essa corrispondente sul piano del contenuto afflittivo. La custodia cautelare deve soddisfare esigenze proprie del processo, diverse da quelle di anticipazione della pena, tali da giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva”. D’altra parte lo stesso principio della lex mitior, elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU con la sentenza del 17/09/2009, Scoppola c. Italia, citata, e che ha fortemente valorizzato la centralità dell’art. 7 CEDU, che sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene, non ha sancito solo “il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma, implicitamente, il principio della retroattività della legge meno severa”. Tuttavia, secondo la stessa Corte EDU, “tale principio non diviene al contempo, un principio dell’ordinamento processuale, tanto meno nell’ambito delle misure cautelari”. E’ la stessa Corte, dunque, che chiarisce che resta ragionevole l’applicazione del principio tempus regit actum per quanto riguarda l’ambito processuale, pur dovendosi accuratamente definire di volta in volta se le norme di cui si discute appartengano o meno sostanzialmente alla sfera del diritto penale materiale.
11. In questa prospettiva è necessario ribadire che la ricostruzione del sistema di calcolo dei termini di fase di durata della misura cautelare evidenzia come lo stesso sia caratterizzato dall’operatività del principio della “segmentazione dei termini”, cioè della previsione di termini autonomi, che contribuiscono a determinare poi la durata massima della custodia cautelare. Sono state predeterminate dal legislatore delle fasce temporali intermedie che caratterizzano l’autonomia delle fasi, anche attraverso la decorrenza autonoma dei termini intermedi, che è comunque collegata al termine massimo di durata previsto per la custodia cautelare. La durata della custodia cautelare è dunque collegata alla gravità dell’ipotetico fatto e della relativa pena edittale, in forza del principio cardine del sistema delle misure cautelari, che risponde alla permanente esigenza di rendere effettivo il bilanciamento tra la misura applicata, l’entità del fatto e la sanzione, anche all’interno della stessa fase. E, conseguentemente, i quattro segmenti relativi ai termini di fase sono diversamente strutturati secondo i diversi momenti della fase investigativa, del dibattimento di primo grado, del grado d’appello e delle fasi successive. Con gli interventi legislativi che si sono succeduti nel tempo, l’articolazione della struttura delle fasce ha assunto progressivamente un sempre più solido riferimento al dato concreto, tanto da attribuire al quadro normativo vigente aspetti di elasticità e profili eterogenei, ma comunque coerenti con le complessive modalità di funzionamento dell’istituto della scarcerazione; ne sono chiara espressione la previsione della disciplina del calcolo dei giorni per la deliberazione della sentenza e la disciplina in materia di sospensione dei termini per la celebrazione delle udienze, ai sensi dell’art. 297 c.p.p., la disciplina prevista in caso di evasione dall’art. 303 c.p.p., comma 3, i casi di regressione del procedimento, previsti nell’art. 303 c.p.c., comma 2, i casi eccezionali di ripristino della custodia cautelare, caducata per decorso dei termini, secondo le previsioni di cui all’art. 307 c.p.p., comma 2, quella per i casi di proroga dei termini di durata della custodia cautelare, secondo le articolate previsioni dell’art. 305 c.p.p., e in forza delle numerose fattispecie sospensive del giudizio o dell’udienza preliminare previste dall’art. 304 c.p.p.. Una specificità delle previsioni che risente del collegamento astratto dei termini di fase alla fattispecie astratta nella fase delle indagini e nella fase dell’udienza preliminare, e al riferimento alla sanzione nel caso della sentenza di condanna e che, per quest’ultimo caso, influenza anche gli effetti incidenti sul calcolo dei termini di fase di durata della misura cautelare, e sui rapporti processuali cautelari per i quali la fase cui si riferisce il termine ridotto per effetto della declaratoria di incostituzionalità della norma non si sia esaurita prima della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale.
12. Ritiene dunque il Collegio che, alla luce della giurisprudenza sopraricordata, non solo costituzionale, debba ritenersi che non esistano principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale. La soluzione del problema in esame resta perciò affidata alla ricostruzione del sistema processuale nell’ottica dell’applicazione del principio tempus regit actum, pur dovendosi accuratamente definire di volta in volta se le norme di cui si discute appartengano o meno alla sfera del diritto penale materiale, o meglio subiscano una diretta incidenza nella loro conformazione dall’attrazione nella sfera sostanziale, come è stato già evidenziato nel prendere in esame gli arresti giurisprudenziali della Corte di cassazione in materia di decorrenza del termine di fase della custodia cautelare non rilevato nel corso della fase medesima (Sez. U, Fiorenti), gli effetti “ora per allora” dell’annullamento del provvedimento di proroga della custodia cautelare (Sez. U, Canavesi), la scarcerazione “ora per allora” a seguito di annullamento di un provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare (Sez. U, Panella), gli effetti della declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art. 722 c.p.p., sui termini delle singole fasi cautelari (Sez. 6, 5 febbraio 2008, n. 11059, Gallo, cit.), per l’ipotesi che si verifica nel caso di derubricazione del reato, considerata pacificamente, nel panorama giurisprudenziale, come non suscettibile di incidere sui termini di custodia a seguito del mutamento successivo della fattispecie penale contestata, ritenuto fisiologico allo svolgimento del processo penale. Una posizione ribadita ancora di recente dalla Corte di cassazione nell’ipotesi di conferma in appello della sentenza di condanna per il reato meno grave, con il contestuale proscioglimento per il reato più grave, rispetto al quale sono stati computati i termini di fase della custodia cautelare. L’esclusione della rideterminazione retroattiva dei termini di durata del giudizio di primo grado è stata argomentata in ragione dell’autonomia delle singole fasi del procedimento. Tale opzione ermeneutica è stata ritenuta quella più conforme alla lettera e alla ratio della disciplina codicistica dei termini di durata della custodia cautelare, nella quale è stato riconosciuto che l’indicazione di differenti presupposti per il computo dei termini massimi di fase finisce per assegnare una tendenziale autonomia a ciascuno di essi.
Con la conseguenza che sarebbe contraddittorio che, per il loro computo, si facesse riferimento al contenuto decisionale della sentenza di condanna di primo o di secondo grado, rispetto ad una fase precedente ed ormai esaurita, nella quale il calcolo di quel termine è stato operato sulla base di un diverso criterio, quello della gravità astratta del reato contestato, e sulla base di un provvedimento, quello genetico della misura cautelare ovvero quello di instaurazione del giudizio ordinario o di quello abbreviato, che, in ciascuna di quelle fasi, aveva piena validità e giustificava, anche sotto l’aspetto della efficacia nel tempo, la limitazione provvisoria della libertà personale dell’indagato o dell’imputato (così, da ultimo, Sez. 6, n. 7199 del 08/02/2013, Lusha, Rv. 254504; Sez. 4, n. 5079 del 11/01/2011, Guidi, Rv. 249581; in senso conforme, tra le molte, Sez. 5, n. 46835 del 04/12/2007, Di Lauro, Rv. 238890; Sez. 2, n. 34635 del 22/06/2005, Cavallo, Rv. 232668; Sez. 1, n. 41112 del 19/06/2002, Palumbo, Rv. 222792; Sez. 6, n. 4235 del 16/12/1999, dep. 2000, Campanella, Rv. 216506; Sez. 3, n. 4086 del 27/11/1997, dep. 1998, Bashkim., Rv. 210273; l’orientamento è contrastato da due sole, più risalenti, pronunce, rimaste però isolate (Sez. 1, n. 7530 del 16/01/2002, Pasqual, Rv. 221369; Sez. 1, n. 4038 del 04/07/1995, Tomasello, Rv. 202206).
13. Con riferimento al caso di specie la decisione n. 32 del 2014 della Corte costituzionale con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità del D.L. n. 272 del 2005, artt. 4 bis e 4 vicies ter, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 49 del 2006, per le “droghe leggere”, con il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, reintrodotto comma 4, ha ripristinato una pena edittale nel massimo inferiore rispetto a quella dichiarata incostituzionale; per le “droghe pesanti”, invece, la pena edittale massima è rimasta invariata.
Come detto, la declaratoria di incostituzionalità ha riguardato il procedimento legislativo di approvazione della legge, in base al quale sono state fissate le sanzioni per i reati corrispondenti.
Ad avviso delle Sezioni Unite la decisione della Corte costituzionale con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle norme interessate per eccesso nell’esercizio del potere di delega, con conseguente violazione dell’art. 76 Cost., non può ritenersi che abbia inficiato la legittimità dei provvedimenti adottati, che hanno comunque avuto corretti parametri di riferimento riconducibili alla norma in vigore, dichiarata solo successivamente incostituzionale. La legittimità di un provvedimento nel momento della sua adozione e fino al momento della cessazione dei suoi effetti era ed è rimasta perfettamente tale; l’atto ha esaurito i suoi effetti indiretti, sulla disciplina della durata delle fasi della custodia cautelare, all’interno di un quadro di stabilità normativa, senza ulteriori ricadute nella vicenda cautelare; infatti la fase successiva, non ancora conclusa, ha visto l’immediata potenziale applicabilità della nuova disciplina fin dall’inizio della sua vigenza, salvaguardando, nei confini predeterminati, il massimo di retroattività riconducibile all’effetto ex tunc della pronuncia di incostituzionalità. Tale conclusione non appare irragionevole rispetto ad un calcolo che oggi sarebbe illegittimo quanto alla sua durata; e che ha concluso l’arco temporale previsto in una condizione di assoluta compatibilità con le norme di riferimento. In sostanza, nel caso in esame, non si è di fronte ad una situazione cautelare “patologica”, per un vizio assoluto, al di là del dato formale, di natura sostanziale, prodottosi come tale sin dall’origine, o riconosciuto durante la fase interessata dalla presente impugnazione.
Il riconoscimento della sua esistenza in momento successivo rispetto ad una fase esaurita, o meglio rispetto ad un atto complesso che aveva esaurito i suoi effetti, e il differente calcolo della durata della custodia, derivante come effetto ulteriore dalla decisione della Corte costituzionale, non può dunque comportare la rilevazione della già intervenuta scadenza del termine di una fase precedente, imponendo la scarcerazione automatica dell’indagato, con una decisione che produrrebbe, appunto, i suoi effetti “ora per allora”.
Questa conclusione trova una sua conferma anche considerando la funzione propria del c.d. “termine di fase”, relativa al compimento di una serie di attività processuali, rapportate al reato in contestazione, in ordine al quale è stato individuato dal legislatore lo spessore della compressione riferibile alla libertà personale; in questo caso, per tutto il periodo di riferimento, il parametro normativo è stato rispettato. Se successivamente alla fase considerata il trattamento sanzionatorio ha trovato una definizione più blanda per la declaratoria di illegittimità costituzionale, che ha colpito il procedimento di formazione legislativa, non può ritenersi tuttavia che la disciplina del sistema della custodia cautelare, che ha trovato applicazione, e dei suoi termini massimi, di fase e complessivi, debba essere considerato irragionevole, e comporti una violazione dell’art. 3 Cost.. Sono infatti proprio i principi fissati per il calcolo della durata massima della custodia cautelare, che consentono di recuperare l’eventuale presofferto in eccedenza rispetto ai parametri riferibili alla nuova normativa e l’immediata applicabilità della novella al termine di fase non esaurito, pur in presenza di esigenze cautelari rimaste immutate, che evidenziano, in questo caso, la compatibilità del sistema e la coerenza della valutazione qui privilegiata con il parametro interno di costituzionalità di cui all’art. 3 Cost., e con quello esterno di cui all’art. 7 della CEDU. E’ pur vero che è sempre insito nel fenomeno della successione di norme nel tempo il rischio di una certa disparità di trattamento, ma la stessa non può essere censurabile sotto il profilo della legittimità costituzionale (cfr. Corte cost., sent. n. 381 del 2001), se non è altrimenti evitabile o irragionevole e non coinvolge, in senso penalizzante, l’autonomia di azione e il diritto di difesa della parte processuale interessata.
Nel caso di specie il punto minimo di compatibilità costituzionale non può ritenersi violato.
In relazione a questo specifico profilo della vicenda, cioè all’incidenza degli effetti della declaratoria di incostituzionalità sulla fase cautelare esaurita, deve ritenersi che la situazione determinatasi nella vigenza della normativa successivamente dichiarata incostituzionale deve ritenersi irreversibilmente “consolidata” e quindi “esaurita”, proprio perchè consolidata, nella sua forza espansiva e privata di qualunque spazio di operatività, in considerazione della preminenza del carattere processuale nella normativa in questione, con una giustificata indifferenza applicativa rispetto ai principi fissati dall’art. 2 c.p., comma 4, e dall’art. 25 Cost., comma 2, che consentirebbero, in particolare quest’ultimo, la valorizzazione del collegamento tra gli effetti sostanziali e quelli processuali, funzionale all’eventuale applicazione della lex mitior.
In realtà deve ritenersi che, anche se non si è formato, nel caso in esame, il giudicato sull’aspetto penale della res judicanda, certamente l’evoluzione della dinamica processuale ha causato una preclusione all’accoglimento dell’iniziativa impugnatoria della parte, in quanto, una volta definita, sia pure per ragioni di rito, la fase interessata, la situazione che si è determinata rimane insensibile, per le caratteristiche sue proprie, e per il complessivo quadro di sistema all’interno del quale essa è inserita, ad una invalidazione successiva, per contrasto con precetti costituzionali, della disciplina di riferimento, peraltro rilevante solo in via indiretta. Pertanto la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di cui alla sentenza della Corte cost. n. 32 del 2014 non può ritenersi che abbia incidenza sulla fase cautelare oggetto dell’impugnazione proposta dall’indagato.
14. Alla luce delle suesposte considerazioni deve essere affermato il seguente principio di diritto: “In tema di custodia cautelare, la sentenza della Corte cost. n. 32 del 2014, dichiarativa dell’incostituzionalità del D.L. n. 272 del 2005, artt. 4 bis e 4 vicies ter, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 49 del 2006, concernente il trattamento sanzionatorio unificato per le droghe leggere e per le droghe pesanti, con la conseguente reviviscenza del trattamento sanzionatorio differenziato previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, per i reati aventi ad oggetto le droghe leggere e per quelli concernenti le droghe pesanti, non comporta la rideterminazione retroattiva, ora per allora dei termini di durata massima per le precedenti fasi del procedimento, ormai esaurite prima della pubblicazione della sentenza stessa, attesa l’autonomia di ciascuna fase”.
15. Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso, concernente la ritenuta permanenza delle esigenze cautelari e della adeguatezza della misura della custodia in carcere, lo stesso deve ritenersi infondato, ai limiti dell’inammissibilità.
Il Tribunale ha spiegato con coerenza logico-giuridica le ragioni in base alle quali devono ritenersi tuttora sussistenti le esigenze cautelari anche in ordine al reato così come modificato rispetto all’aspetto sanzionatorio, a seguito della pronuncia della Corte cost. n. 4 del 2014; in realtà i nuovi limiti edittali previsti sono significativamente inferiori a quelli vigenti al momento dell’applicazione della misura custodiale, essendosi passati infatti da una forbice che prevedeva la pena della reclusione da sei a venti anni ad una previsione sanzionatoria che prevede un minimo di due anni fino ad un massimo di sei anni di reclusione. Tuttavia, anche in relazione alla sopravvenienza di una modifica del profilo sanzionatorio del reato contestato significativa, il Tribunale ha ritenuto, con una valutazione che appare esente da censure logico- giuridiche, che la stessa non sia in grado di incidere, in senso favorevole all’indagato, sulle esigenze cautelari delibate e riconosciute sino a questo momento.
Il Tribunale, nella valutazione degli elementi posti a base della sua decisione, ha proceduto necessariamente allo scrutinio della gravità del comportamento delittuoso posto in essere dal ricorrente, e della sua complessiva figura criminale, giudicata di rilevante spessore non solo in considerazione dei suoi precedenti, ma anche in forza della circostanza che lo stesso non ha ritenuto di abbandonare la strada del crimine neppure dopo aver subito altre condanne, l’ultima delle quali per fatti riconducibili sempre al traffico di sostanze stupefacenti e dopo aver espiato una pena di dieci anni di reclusione.
Tali considerazioni sono tutte puntualmente elencate nell’ordinanza in questione. E il Collegio sottolinea proprio come tali circostanze abbiano fatto ritenere al Tribunale ancora concreta ed attuale la pericolosità del P., evidenziando le particolari ed articolate modalità dell’azione criminosa oltre la qualità della sua caratura criminale, testimoniata anche dai collegamenti con esponenti storici della storia criminale sarda, quale la banda di M.G..
Tali elementi sono apparsi idonei al Tribunale a rendere possibile una recidivanza dell’attività criminosa, vista anche la presenza di carichi pendenti per reati concernenti il traffico di sostanze stupefacenti e la detenzione illegale di armi. Peraltro l’insufficienza del profilo dedotto, rispetto alla mutata cornice normativa, appare correttamente motivato anche alla luce del riferimento del principio affermato dalle Sezioni Unite, secondo il quale “il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale” (Sez. U, n. 16085 del 31/03/2011, Khalil, Rv. 249324), come è avvenuto nel caso di specie, anche in base alla valutazione prognostica dell’entità della pena che prevedibilmente sarà comunque inflitta, tenuto conto anche della recidiva contestata ai sensi dell’art. 99 c.p., comma 4.
 
Alla Corte di cassazione resta comunque preclusa la rilettura di altri elementi di fatto rispetto a quelli posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti medesimi, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito. Peraltro, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Reggio, Rv. 254988).
Nella specie, il P. si limita a proporre una lettura riduttiva degli elementi di fatto posti a base del provvedimento di rigetto, valorizzando un generico deficit dell’apparato motivazionale, rispetto al mutato quadro normativo, che in realtà appare adeguato ai motivi proposti nell’atto di impugnazione.
Appare pertanto evidente che queste doglianze danno luogo a censure che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità.
16. Il ricorso pertanto deve ritenersi complessivamente infondato e deve quindi essere rigettato.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente la pagamento delle spese processuali.
La Cancelleria provvederà ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

 P.Q.M.

 Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti previsti dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

 

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