Corte di Cassazione, sezione terza penale, sentenza 23 gennaio 2018, n. 2741. In caso di omesso versamento delle ritenute la responsabilità all’interno dell’azienda non è limitata al rappresentante legale

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4.6.1 ricorrenti lamentano, altresi’, che violando il “dictum” di questa Corte (Sez. 3, n. 48591 del 2016, cit.), il Tribunale del riesame non ha indicato gli ulteriori elementi, diversi dalla mera dichiarazione di sostituto di imposta, richiesti a fini indiziari del delitto di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10-bis. Il rilievo non e’ corretto: il tribunale spiega che oltre alla dichiarazione sono stati allegati, a campione, due certificazioni rilasciate ad altrettanti sostituiti, sicche’ la questione posta non riguarda esattamente l’omessa indicazione di ulteriori elementi, quanto, piuttosto, la loro attitudine a valere quali indizi del reato; l’eccezione, dunque, riguarda il modo con cui tali elementi sono stati valutati, cosi’ traducendosi in un vero e proprio vizio di motivazione, inammissibile ai sensi dell’articolo 325 c.p.p..
4.7.L’occasione e’ pero’ utile per precisare che la massima tratta dalla sentenza citata non comporta le conseguenze pratiche che i ricorrenti hanno inteso trarne. La motivazione cosi’ recita: “come adeguatamente motivato nel provvedimento impugnato, senza contraddizioni e senza manifeste illogicita’ (e quindi con motivazione che non puo’ ritenersi apparente o assente), dalla dichiarazione e’ desumibile anche il rilascio delle certificazioni, ai soli fini del fumus cautelare, con apprezzamento di merito insindacabile in questa sede di legittimita’ per i sopra visti limiti del ricorso in Cassazione, in sede di sequestro, solo per violazione di legge. Puo’ quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “Per i fatti antecedenti alla modifica legislativa (ad opera del Decreto Legislativo n. 158 del 2015, articolo 7) del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 bis e’ richiesta la prova del rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro non essendo sufficiente la dichiarazione (c.d. mod. 770), ai sensi dell’articolo 2 c.p., comma 4; in sede di valutazione del “fumus commissi delicti”, per il sequestro preventivo per equivalente, il giudice del riesame puo’ tuttavia ritenere sussistente il fumus dalla dichiarazione (770) e da altri elementi, con motivazione adeguata non sindacabile in Cassazione ai sensi dell’articolo 325 c.p.p., comma 1, che ammette il ricorso solo per violazione di legge””. Appare dunque evidente che quel che conta, ai fini della sussistenza indiziaria del reato di omesso versamento delle ritenute certificate, e’ che dalla dichiarazione possa desumersi il rilascio delle certificazioni, non che oltre alla dichiarazione siano richiesti elementi ulteriori; per questo il principio e’ stato massimato correttamente interpretando in senso disgiuntivo la “e” che sembrerebbe richiedere, altrimenti, elementi ulteriori rispetto alla dichiarazione. Orbene, come detto, la indicazione di alcune certificazioni estrapolate a campione e’ piu’ che sufficiente a fini della sussistenza indiziaria del reato. Ogni ulteriore deduzione difensiva in ordine alla mancata corresponsione delle retribuzioni ha natura fattuale ed e’ inammissibile in questa sede.
5. Il terzo motivo e’ inammissibile.
5.1. I ricorrenti lamentano che il Tribunale non avrebbe potuto desumere l’impossibilita’ di procedere alla confisca diretta del profitto a danno della societa’ a causa dall’incapienza dei relativi conti, essendo stata dichiarata fallita.
5.2. Il rilievo cosi’ come formulato riguarda non tanto l’errata applicazione del principio secondo il quale il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente puo’ essere adottato solo quando sia impossibile il sequestro diretto del profitto, quanto il malgoverno della logica che presiede alla sua applicazione. Si tratterebbe, dunque, di un classico vizio di motivazione che non puo’ essere censurato in questa sede. E tuttavia, il tribunale non ricollega l’impossibilita’ di procedere al sequestro diretto del profitto del reato al sopravvenuto fallimento della societa’, trattandosi di vicenda della vita dell’impresa che non impedisce, di per se’ l’adozione della misura cautelare reale, quanto, piuttosto, alla dimostrata “incapienza delle casse della fallita (…) confermata dal tenore delle produzioni della difesa (…) dove si da’ conto (del fatto) che la consociata spagnola (…) aveva coinvolto la societa’ italiana in una crisi di liquidita’ (…) provocata dalla appropriazione indebita degli incassi dei clienti stranieri”. E’ questo il fatto che rileva, non il fallimento in se’. Sostenere in questa sede che “tale valutazione appare azzardata” ed aggiungere che l’accusa non ha fornito la prova dell’incapienza delle casse sociali, equivale a introdurre elementi spuri non valutabili ai fini dello scrutinio di legittimita’ che deve essere limitato, in questa fase, alla sola violazione di legge.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali; manda alla Cancelleria per l’esecuzione.

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