Corte di Cassazione, sezione sesta penale, sentenza 16 gennaio 2018, n. 1754. Il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca

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La giurisprudenza ha sottolineato che si tratta di un’operazione che deve avvenire allo stato degli atti, cioe’ senza alcuna necessita’ di un approfondimento probatorio ovvero dell’acquisizione di ulteriori elementi, in quanto l’eventuale pronuncia di proscioglimento puo’ derivare solo qualora le risultanze disponibili rendano palese l’esistenza della causa di non punibilita’ (Sez. un., n. 3 del 25 novembre 1998, – dep. 1999, Messina, Rv. 212437).
Al giudice e’ assegnato un sindacato meramente negativo con riferimento alla responsabilita’ dell’imputato, dovendo constatare semplicemente l’insussistenza delle cause indicate nell’articolo 129 c.p.p., non potendo, quindi, pronunciare sentenza di proscioglimento per mancanza, insufficienza o contraddittorieta’ delle prove desumibili dagli atti, non rientrando tale possibilita’ tra quelle esplicitamente indicate dall’articolo citato.
L’accusa, se correttamente qualificata, non puo’ essere rimessa in discussione.
Il controllo preteso dall’articolo 129 c.p.p., comma 1, deve essere compiuto considerando che per effetto dell’accordo sulla pena l’imputato ha rinunciato, non solo a controvertere sulla quantificazione della sanzione, ma anche sul diritto alla prova, accettando di essere giudicato in base agli atti probatori presenti nel fascicolo, rinunciando altresi’ a controvertere sul fatto.
I limiti di quello che e’ definito un accertamento negativo della non punibilita’ dell’imputato effettuato in relazione alla sentenza di patteggiamento, caratterizzato da diverse regole di giudizio rispetto a quello sulla sentenza di condanna, condiziona i motivi che possono essere oggetto del ricorso per cassazione, nel senso che la natura negoziale del rito incide in concreto sui ricorsi di legittimita’ contro questo tipo di sentenze.
In particolare, oltre a non poter essere dedotte insufficienze ovvero carenze probatorie, la denuncia dell’errata qualificazione giuridica del fatto e’ destinata a ricevere un’applicazione limitata.
Come e’ noto, la possibilita’ di impugnare la sentenza di patteggiamento per denunciare l’erronea qualificazione giuridica del fatto ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti, risolte da un intervento delle Sezioni unite (sent. n. 5 del 19 gennaio 2000, Neri), le quali hanno statuito che con il ricorso per cassazione puo’ essere denunciata l’erronea qualificazione del fatto come prospettata dalle parti e recepita dal giudice, e cio’ perche’ e’ lo stesso articolo 444 c.p.p., comma 2, ad imporre siffatto controllo, funzionale ad evitare che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati.
Tuttavia, proprio in considerazione della natura del patteggiamento e dello scopo del controllo affidato al giudice, la giurisprudenza ritiene che l’impugnabilita’ per l’erronea qualificazione del fatto debba essere limitata ai casi in cui quella prospettata dalle parti sia palesemente erronea ovvero ai casi in cui la contestazione originariamente delineata dal solo pubblico ministero sia anch’essa manifestamente erronea.
La ricorribilita’ della sentenza di patteggiamento e’ ammessa nelle sole ipotesi di errore manifesto, ossia quando sussiste realmente l’eventualita’ che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, sicche’ deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilita’: l’errata qualificazione giuridica del fatto puo’ essere fatta valere solo dinanzi ad un evidente “error in iudicando” che “dissimuli un’illegale trattativa sul nomen iuris”, ma non in presenza di una qualificazione che presenti oggettivi margini di opinabilita’ (tra le altre, tante, Cfr., Sez. 7, n. 39600 del 10/09/2015, Casarin. Rv. 264766; Sez. 3, n. 34902 del 24/06/2015, Brughitta, Rv. 264153; Sez. 6, n. 15009 del 27/11/2012 – dep. 2013 – Bisignani, Rv. 254865).

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